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Autore: MaTiSsE    21/10/2012    4 recensioni
"Mi voltai di colpo, scombussolata. Qualcosa era tornato a fare male.
Me lo ritrovai faccia a faccia, il fotografo: Andrea detto Zeno detto Genio.
Andrea era un bel nome, perché storpiarlo?
Non lo riconobbi dal viso ma dai suoi tatuaggi: Medea mi occhieggiava con tutte le serpi dalla sua spalla, tra rose, teschi e scritte in lingue sconosciute.
Balbettai qualcosa, i denti stridevano e la lingua non era in grado di articolare una parola. Erano tornati i miei momenti scuri, quel capogiro, la confusione, l'irrazionale sensazione di non saper dove mi trovavo e perché. Ero convinta di essere guarita, quella foto invece mi aveva riportato indietro. Cento passi indietro, tutti gli sforzi dei miei diciotto anni buttati via per una foto."
Un centro sociale, due giovani che non si conoscono e forse si conoscono da sempre: questa è la storia di Meg e Andrea, il Genio.
Genere: Generale, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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C’era la musica assordante e c’erano le luci negli angoli che le sparavano in faccia, di tanto in tanto, un accecante fascio luminoso dall’improponibile colore blu elettrico. C’era la gente, i corpi sudati, le risate ripetute, l’odore pungente dell’alcool, il caldo soffocante, i balli sfrenati.
C’era la vita, il senso di libertà, la voglia di fare.
E c’era Stena accanto a lei su quel divanetto dai braccioli consumati e le molle cigolanti. Era mezzo collassato, a volte rideva, a volte tornava ad addormentarsi.
Le faceva tenerezza.


Margherita era andata via da poco, tenendosi per mano con il suo Andrea: erano così belli a vedersi dall’esterno! La sua amica, piccola e delicatissima, accanto a quel gigante dalla cresta viola e neanche un centimetro di pelle immacolata… Nessuno avrebbe mai scommesso su di loro, erano troppo diversi per stare assieme. Eppure lei ci credeva, ci aveva creduto sin dall’inizio: nella loro diversità sembravano completarsi, per qualche strana ragione.
 
[A volte invidiava la sua amica Margherita: avrebbe voluto una storia d’amore bella allo stesso modo. Perché di certo la sua era una storia d’amore. Ed era anche bella, ovvio.]


Ruotò di poco il capo Romina, guardandosi attorno con aria curiosa e per nulla assonnata; erano passate da un pezzo le tre e la sala era ancora gremita di gente. Certo, la maggior parte di quelle persone si trovava nelle medesime condizioni di Stena: qualcuno si era addormentato, riverso tra il pavimento e la poltrona finta del dentista; altri barcollavano o tenevano lunghi discorsi a occhi chiusi, brandendo una bottiglia di birra come se si fosse trattato di un’ascia o uno scettro, a scelta.
Deliravano.
A Romina venne da ridere di fronte a quelle scene esilaranti e così continuò finché non guardò poco più lontano e, in un angolo, scorse il viso di Polska mentre la osservava.
La osservava, sì.

Non rise più.

“Me? Fabrizio sta davvero guardando me?” si domandò allora piena d’emozione.  Si sentiva quasi onorata di quelle strane attenzioni: Polska le piaceva davvero tanto.
Eppure, molte sue amiche – fatta eccezione per Margherita – avrebbero storto il naso a vederlo: Polska non era bello, non secondo gli standard comuni, almeno. Era molto alto, ma per nulla muscoloso; Romina conosceva poche altre persone magre allo stesso modo ed erano per lo più donne. Il suo viso era in parte segnato dalle cicatrici di una passata varicella e il naso era leggermente aquilino. Tuttavia, quelle imperfezioni contribuivano soltanto a renderlo più affascinante; quel suo sguardo cupo, gli occhi scuri e le labbra carnose erano tutti dettagli che la facevano impazzire, per davvero.  Senza contare la cresta multicolor, ovviamente.
Persino i suoi persistenti silenzi l’attraevano. Forse, Polska  le piaceva proprio perché le appariva come l’opposto di se stessa, così chiacchierona, rumorosa, casinista e infantile.
Sì, di certo era per questo.

Imbarazzata da quello sguardo, Romina chinò il capo e si studiò attentamente le unghie smangiucchiate per due minuti buoni. Quando prese coraggio e alzò di nuovo la testa, Stena ormai russava, definitivamente collassato, mentre Polska… Polska le stava faccia a faccia, inginocchiato davanti a lei a un metro di distanza.
Per poco non le prese un coccolone e non di certo per lo spavento.
Maledetta, imbarazzante tachicardia!

[Comunque, Polska aveva occhi davvero molto belli; a vederli da così vicino era ancora più evidente.]


“Non sei andata via?” le domandò all’improvviso. A Romina si bloccò la salivazione per qualche istante.

“N-no… Avrei dovuto?”

A lui venne da sorridere per quella domanda così ingenua.

“Non stavi con Margherita?”

Scosse la testa, i capelli le ballarono attorno al viso.

“Meg è tornata a casa con Andrea”
Polska annuì, comprensivo, come se avesse inteso che Romina non desiderava fare da terzo incomodo tra quei due.

Comunque, non aggiunse altro, stranamente; dopo un minuto si alzò e fece per andarsene.
Romina non riuscì a decifrare il motivo di quelle stravaganti domande, né dell’improvvisa curiosità del ragazzo nei suoi confronti; tuttavia, intese facilmente che lui si stava allontanando e che il suo illusorio momento di felicità, i suoi quindici secondi di gloria, stavano finendo. Erano già finiti.

“No, non posso lasciarmelo sfuggire. Non stavolta che m’ha finalmente calcolato” si disse allora, prendendo coraggio e correndogli dietro.

Lui le dava già le spalle, era lontano di qualche passo. Romina lo raggiunse, gli strinse il polso; Polska si voltò a guardarla con sorpresa.
O forse no.

Che gli doveva dire per intrattenerlo? Sono rimasta da sola, non c’è nessuno che mi riporti a casa?
No, decisamente no. Scartò dunque quell’idea che l’avrebbe fatta apparire ancora di più come la bambinetta di turno, ma non le avanzarono altre parole per imbastire un discorso serio.
Allora, vergognandosi da morire, annaspò alla ricerca di valide argomentazioni per qualche istante. Una frazione di tempo sufficiente, comunque, affinché Polska finisse col sorridere intenerito davanti al suo evidente imbarazzo.

“Polska, senti…”
“Romina, ascolta…”

Ops.

Si guardarono un attimo. Risero entrambi.
Finalmente qualcuno si decise a togliere la musica, ma a nessuno venne anche in mente di accendere delle luci normali e per questo Romina ringraziò il suo angelo custode. Era un po’ troppo intimidita per avere il coraggio di guardare bene in faccia Polska e per farsi guardare, soprattutto.

“Allora tu…”
“Io volevo…”

Ops, di nuovo.

A Fabrizio scappò da ridere, ma proprio da ridere. Non l’aveva mai visto così divertito. Alla fine, si lasciò andare anche lei.
Forse, però, la sua era soltanto una risata isterica.

“Magari quando smettiamo di parlare in contemporanea…”
“Sarebbe una buona idea.”
“Volevi dirmi qualcosa?”
“In effetti sì, ma…”
“Ma?”
“L’ho dimenticata”

Scossa la testa, si mordicchiò il labbro e calò lo sguardo: avrebbe voluto sprofondare per metri e metri sotto terra. Eppure a Polska, straordinariamente, quell’atto d’imbarazzo smosse qualcosa: Romina mostrava un’espressione così ingenua, così tenera e sincera, che a lui si strinse il cuore e si chiese perché, prima di allora, non avesse mai passato del tempo con lei. Era abituato alla gente smaliziata, alle ragazze che fumavano canne con naturalezza e con altrettanta naturalezza gli lasciavano baci sulla bocca andandosene via, non alle diciottenni che arrossivano davanti a lui.
Gli sembrava strano, gli sembrava bello.
Una ragazzina impacciata  si mordicchiava il labbro davanti a lui, piena di vergogna e per causa sua, oltretutto.
No, non una ragazzina, meglio essere precisi: una Romina impacciata.

Una Romina innocente.

Qualcuno gli passò accanto, lo salutò perché andava via.
Romina, invece, non si muoveva di lì.


“Come torni a casa?” le chiese allora, impulsivo.

Lei alzò lo sguardo, confusa. Non lo sapeva come ci sarebbe tornata a casa.

“In realtà mi ero organizzata con Stena…” indicò l’amico, poco distante. Era steso sul divano e russava ancora a bocca spalancata.

“Stena non è organizzato neppure con se stesso” le rispose, con lo sguardo accigliato.

Lui non lo perdeva mai il controllo?

“Lo so.”
“Hai un orario?”

Romina ridacchiò.

“Credo di averlo sforato da un bel po’” gli sorrise di nuovo, deliziosa “Mamma e papà non sono a casa. Sono in viaggio, ho via libera.”

Mamma e papà.
Quant’era piccola, Romina? Una dolce ragazzina che giocava a fare la persona adulta e disinibita.

“Hai la via libera, eh?”
“Sì.”

Le luci bianche tornarono a riaccendersi, illuminarono la sala e ciò che restava dei partecipanti a quella festa; la Piovra sembrava un campo di battaglia, più che un centro sociale. Illuminarono anche Romina, il viso rosso per l’imbarazzo, i suoi occhi scintillanti.
Qualcosa di indefinito scattò allora dentro di lui: aprì bocca per lasciargli libero sfogo, perché Fabrizio non era tipo da pensarci e ripensarci sulle cose.
Faceva quel che la testa gli suggeriva al momento, sempre.
“Allora ti accompagno io, Romina. Dai, andiamo.”

Le passò di fianco, le afferrò il polso e la trascinò con sé. Romina non comprese subito; piuttosto esitò, incespicò nei suoi stessi piedi prima di fermarlo. Strinse la sua mano tra le proprie, per la prima volta.

“C-come?”
“Usciamo, vieni!”
“Polska! Ma tu non devi stare qui?”
“Non mi tocca la guardia stasera. Ci saranno altre persone a fare il turno.”
“E Stena?”
“Stena resterà a dormire qui. Non è un problema.”
“Ma…”

“Vuoi venire con me, Romina?”

Si voltò a guardarla rivolgendole quella domanda con una tale fermezza, che a Romina parve fosse stato suo padre a parlarle, non un ragazzo di venticinque anni.
Uno sconosciuto di venticinque anni.
E, proprio come se fosse stato suo padre, non le riuscì di dirgli di no. Non che lo volesse, in realtà, ma avrebbe avuto piacere nel comprendere, anzitutto, dov’era che desiderava trascinarla Fabrizio e il motivo di quella loro improvvisa interazione. Si erano salutati sempre a stento, in tutti quei mesi di conoscenza avevano scambiato sì e no due parole, lui non aveva mai intercettato lo sguardo adorante con cui lei lo guardava e adesso… Adesso Fabrizio voleva portarla chissà dove. Chissà perché, soprattutto.

Secondo me non è vero, sto sognando.
Sto sognando, è così?

Alla fin fine, Romina non voleva saperlo se il suo era davvero un semplice sogno. Piuttosto, se quella era la realtà – e lo era - poteva perdersi una simile occasione?
Conosceva la risposta.

No, non poteva.

Trovò coraggio, quindi, e poi tornò a guardarlo.

“Sì” gli rispose.

Sì, ci vengo con te, Fabrizio.

Così, allungò la mano e si lasciò trascinare dal suo stravagante e improvvisato cavaliere nella buia notte che li aspettava fuori da La Piovra.


***


La notte più lunga della vita di Romina. La notte più lunga della vita di entrambi.
Camminarono per vie silenziose, dove il movimento s’era spento da poco, e per vie dove ancora resistevano gruppi di amici con le loro chiacchiere, la loro confusione e le risate, mentre qualche anziano inveiva dal proprio balcone, disturbato da tutto quel chiasso. Anche Romina rise davanti a quelle scene e Fabrizio la seguì, sinceramente divertito.
Camminarono ancora, a lungo; faceva già caldo eppure Romina si stringeva nella sua giacca leggera, perché era un tipo freddoloso. Polska, invece, sembrava a proprio agio nella t-shirt sbrindellata su di un lato che indossava. Le stava di fianco, a volte la guardava, a volte guardava davanti a sé. Un po’ parlavano e un po’ no, e quando stavano in silenzio, Romina s’imbarazzava, certo, ma si sentiva bene in fin dei conti: era con Polska, non le sembrava vero.
Gli raccontò di essere una persona felice. Non aveva grandi problemi, se non la maturità alle porte, e la sua era una famiglia molto bella. La sua mamma era un po’ pazza e amava canticchiare ogni giorno David Bowie mentre cucinava. Andavano tutti abbastanza d’accordo, erano confusionari e chiacchieroni per difetto genetico e suo fratello maggiore era pure un gran pasticcione, perché aveva quasi fatto saltare in aria il laboratorio di chimica quando frequentava il liceo: lei l’adorava. Gli confessò pure che, a quindici anni, aveva rovesciato per terra il gelato di suo fratello più piccolo, quello che gli piaceva tanto. Il bambino –  all’epoca aveva sette anni – s’era messo a piangere per il dispiacere e lei con lui, perché si sentiva in colpa. Questo era il ricordo più triste che Romina si portava dietro e, a sentirglielo raccontare, a Polska si era riempito il cuore di gioia. Più la sentiva parlare dei suoi cuscini di raso rosa sul letto, più si convinceva che non c’entrava nulla col suo mondo, più gli veniva voglia di baciarla.
Alla fine, lo fece, sul lungomare, alle sei e mezza del mattino, mentre la città si svegliava. Loro non avevano ancora chiuso occhio, invece. Neppure ne avevano bisogno.

 
Come e perché erano poi finiti a casa di Polska, non avrebbero mai saputo spiegarlo, nei tempi a venire.
Era quasi venuto naturale e spontaneo a entrambi, tra un bacio a fior di labbra e l’ennesima risata.

Fabrizio voleva solo conoscere l’amore con una ragazza che fosse estranea al suo mondo. Romina voleva conoscere l’amore e nient’altro.

Non c’era nulla di sbagliato in quello. Vero?
No, non c’era nulla di sbagliato in quei baci, nella bocca di Fabrizio che era finita all’improvviso sul suo collo, poi sul suo seno, sul suo ventre. In quelle mani esili tra i capelli, lungo la sua schiena, sulla pelle delle sue gambe così bianche. Non poteva esserci nulla di sbagliato nei loro vestiti sul pavimento scheggiato di una casa triste, dalle imposte difettose e il fornello sporco, nei loro respiri spezzati, nelle parole sussurrate mentre, forse, facevamo l’amore. Mentre la voce di Billy Corgan che cantava our lives are forever changed/we will never be the same si spandeva nella loro stanza; fuori era già giorno, c’era il sole ma loro lo ignoravano perché non avevano aperto le finestre neppure per un attimo.
 
No, non poteva perché era tutto troppo bello per essere sbagliato. Anche il dolore era stato bello tra le braccia di Fabrizio.
 
 
 
Più tardi, Romina ci provò pure a dirlo a Margherita, perché si sentiva in imbarazzo e voleva parlarne con qualcuno.
Con la sua migliore amica.
Era confusa, era felice, si sentiva in colpa. Con chi, ancora non lo sapeva.
Aveva bisogno di dirglielo.
E allora ci provò per svariati minuti, che diventarono poi ore. Ci provò mentre Fabrizio faceva la doccia, mentre andava a piedi nudi in cucina a farsi il caffè, mentre le diceva di mettersi comoda, prima di tornare nel letto da cui non si era mai alzata e baciarla.
Ci provò ma non ci riuscì a mettersi in contatto con la sua amica.
Il suo cellulare squillò a vuoto per ore, finché non fu l’odiosa signorina del gestore telefonico a rispondere al posto di Margherita.

Allora Romina sospirò e si rassegnò. Si rassegnò a non poter parlare con la sua amica più cara, prima di cercare di nuovo le braccia di Fabrizio per consolarsi.
 


 
***


“Fabrizio, perché sei venuto da me, a La Piovra?”
“Perché ti guardavi attorno come se vedessi tutto per la prima volta.”
“E questa cosa ti è bastata?”
“Più di quanto immagini.”
 

 
***




Sfogliavo pigramente il testo di storia dell’arte, quel pomeriggio, alla ricerca di qualche opera particolarmente interessante da inserire nella tesina per l’esame di maturità, ma mi trovavo a un punto morto. Mi sentivo attratta da Salvador Dalì – ne ero follemente innamorata, a dirla tutta – ma almeno la metà dei miei compagni di classe propendeva per lo stesso artista e non volevo cadere nel baratro della banalità collettiva.
Sbuffai un po’ comicamente e mi stiracchiai nell’erba fresca; con ogni probabilità mi stavo imbrattando i jeans di terriccio, ma sedevo con la schiena poggiata a un tronco grande e confortevole e il sole caldo di giugno mi riscaldava la pelle: andava bene lo stesso. Andava bene tutto, anche studiare arte per la maturità, a quelle condizioni. Ero straordinariamente felice, per quanto strano potesse sembrare considerando tutti gli impicci che avevo in testa. Davvero, quel momento di pace inaspettata mi stava ripagando di molto preoccupazioni.

Alzai lo sguardo dal libro soltanto quando percepii dei passi leggeri nella mia direzione: Andrea mi veniva incontro con andatura lenta. Prima di sedersi accanto a me mi allungò una lattina di Coca Cola.

“Grazie” mormorai.

Si sporse ancora più in basso: compresi subito e lo baciai sulle labbra.

“Così va bene. Prego madame” rispose con aria compiaciuta.

“Allora, vada per Dalì?” domandò.
“No, non credo” commentai mogia, lasciando scorrere le pagine.
“Passa a De Chirico. La metafisica ti piace tanto, no?”
“Mmhh…”
Mmmhhh... Risposta scontata! È proprio tipica di te quando sei indecisa. Stai diventando noiosa, lo sai?”

Zeno mi abbracciò ridendo e il libro di arte capitolò sul prato. Tirai fuori la lingua.

“Siamo già a questo punto, Zenovi? Sono noiosa e scontata?”

Ridacchiò ancora; gli lasciai un bacio sulla punta del naso. Ricambiò con un bacio molto meno casto, prima di recuperare il suddetto testo scolastico.

“Sì, a questo punto. E ti dirò di più: sei anche molto pigra. Ti dispiacerebbe metterti d’impegno e studiare? Manca poco alla maturità.”
“Dio, quindi mi stai anche rifiutando adesso? Siamo proprio alla frutta! Che ne sarà di noi semmai dovessimo sposarci?”
Andrea rise un’altra volta e si coprì gli occhi col braccio poggiandosi a sua volta al tronco.

“Quante ne sai, eh?”
“Non capisco proprio cosa intendi dire…” risposi vaga. Mi piaceva fare la parte della signorina innocente.
“Ah no, eh? E comunque, non sapevo fossimo sul punto di sposarci.”
“Beh, ormai il fidanzamento è ufficiale, no? Tanto vale…”
“Tanto vale…” mi fece eco Zeno, cingendomi i fianchi e attirandomi a lui.
Poggiai la testa sulle sue spalle e ripresi a sfogliare il libro di arte.

“E comunque, da quando la storia dell’arte conta tanto? Io la studiavo a malapena una volta all’anno” commentò, lasciandomi un bacio tra i capelli: quello, per noi, era un pomeriggio di piacevolissima apatia.
“A parte che, per l’esame di maturità conta qualsiasi materia. E poi tu non hai idea di quale generale nazista ci sia capitato come insegnante di arte. Tremiamo per le sue interrogazioni!”
“Uhm…” rifletté serio “A maggior ragione devi studiare, allora. Su, ti ho portata apposta qui al parco per stare tranquilla, mettiti d’impegno!”

Era vero: Andrea mi aveva trascinata via da La Piovra un’ora prima perché al centro sociale c’era troppo casino e io avevo bisogno di un briciolo di tranquillità per organizzare lo studio. I ragazzi si preparavano per la manifestazione di Roma – mancavano appena due giorni – ed erano tutti affaccendati nel decidersi sugli orari, gli spostamenti, i punti d’incontro, gli slogan, la distribuzione dei volantini, gli striscioni; da una parte all’altra della grande sala centrale non si sentivano altro che risate e discussioni a voce alta: non era davvero il posto migliore per studiare e lo era diventato ancora di meno quando, da lontano, avevo notato i rasta bruni di Luna.
Per fortuna non si era avvicinata a noi, anzi: era sparita senza intoppi dopo due minuti. Era quasi un miracolo il fatto che quella simpatica, cara ragazza avesse ubbidito in modo tanto conciliante alla richiesta di Andrea di scomparire dalle nostre vite e non crearci più problemi. Io, comunque, non mi fidavo e con lei restavo sempre sul chi va là.

Zeno aveva compreso presto l’antifona – forse aveva notato la mia espressione afflitta alla vista di Luna? – e, liberandosi per un’ora dai suoi impegni, mi aveva accompagnato al parco per darmi la possibilità di concentrarmi come avrei dovuto. In effetti, poiché disdegnavo casa mia per questo genere di cose, il parco era un’ottima alternativa, anche se la soluzione migliore sarebbe sempre stata quella di scegliere la biblioteca.
Ma in biblioteca, io, non ci andavo mai: troppo silenzio mi dava ansia.
 
Sbuffai di nuovo, a quel punto, presa da un improvviso sconforto. Mi poggiai ad Andrea e cercai di rivedere i collegamenti mentali della mia tesina.

“Quando cominciano gli esami?” domandò.
“Il ventidue.”
“Che vi è capitato quest’anno? Latino o greco?”
“Greco” mugugnai. Lo consideravo più complicato del latino, senza alcun dubbio.
“Capisco. E Romina sta studiando?” aggiunse Zeno all’improvviso, senza alcuna ragione. Feci una smorfia sorpresa e poi mi voltai a guardarlo, perplessa.

“Romina?”
“Sì, Romina. Sta studiando?”

Alzai le spalle.

“E che ne so?”
“Ma non siete amiche, scusa?”
“Sì, ma non studia mai. O, quantomeno, studia quel che basta. Non credo che cambierà filosofia di vita per l’esame di maturità. Perché me lo chiedi?”

Trovavo davvero stravaganti tutti quegli interrogativi su Romina. Andrea non si era mai molto interessato a lei.

“Così, tanto per…” rispose vago “Quindi non l’hai sentita?”
“Macché!” sbuffai allora, risentita “E’ da due giorni che è sparita! Ieri ho provato a chiamarla al cellulare ma era spento. A casa ha risposto sua madre e mi ha detto che non c’era, anzi, era proprio convinta che fosse con me. Le ho anche mandato un messaggio su Facebook e aspetto ancora risposta. Chi la capisce è bravo, sul serio. Chissà che sta combinando” conclusi scocciata.

Ero piuttosto seccata dal comportamento di Romina; era sparita nel nulla da due giorni e non ero riuscita a dirle nulla degli spiacevoli eventi che si erano verificati a casa mia.
Non sapeva nulla dell’incidente e ignorava in quale condizioni riversassero mia cugina Florinda e, soprattutto, Emiliano.
Emiliano, che ancora dopo due giorni continuava a starsene disteso inerme nel letto sterile di una terapia intensiva, sedato e perennemente sotto controllo. L’ematoma che aveva nella testa non voleva riassorbirsi, non ancora.
Io ci speravo, pregavo sempre per lui.
Tuttavia, ero passata una sola volta a fargli visita, in quei due giorni, e pure di sfuggita perché avevo trovato la madre accanto al suo letto – ormai non si schiodava quasi più da là – e non mi andava di disturbare i loro momenti d’intimità. Non sapevo in che rapporti fossero, ma ero a conoscenza del fatto che Emiliano fosse andato via da casa già da un bel po’ di tempo; avevano bisogno di stare da soli, loro due, di percepire l’amore reciproco che li univa. Perché Emiliano lo sentiva anche in quelle condizioni, ne ero certa.
Un’estranea come me non poteva partecipare al loro dolore.

Viceversa, di tutte le altre persone con cui Emiliano aveva condiviso la sua vita sino ad allora, i ragazzi del gruppetto di anarchici a cui s’era legato, gli amici di scuola, della facoltà, le ragazze che l’avevano amato prima di Flora, nessuno s’era fatto ancora vivo.
Neanche Andrea, a pensarci.

Andrea.

“Perché non sei andato a trovare Emiliano?” domandai allora, di punto in bianco.
“Uh?”

La mia domanda l’aveva turbato. Lo percepii dal modo in cui allentò la presa intorno alle mie braccia. Non era da lui.

“Perché dovrei?” rispose a denti stretti. Sembrava soffrisse enormemente nel pronunciare quelle parole.
“Perché non dovresti? Non siete stati amici voi due?”
“Noi due? No.”
“Emiliano diceva il contrario…”
“Emiliano diceva tante cose.”

M’indispettì quel suo modo di parlare, non sembrava neanche il mio Zeno.

“Infatti, ne ha dette tante e sempre tutte vere. Prendi la storia di Florinda, per esempio, e dimmi se non aveva ragione lui” conclusi duramente, sfogliando ancora il libro, ma senza vederci nulla.

Zeno si voltò a guardarmi con aria pentita.

“Non t’incazzare, Maggie.”
“Non m’incazzo.”
“A me pare di sì, invece”
“Sai cosa? Ho sempre come l’impressione che tu non mi dica tutto. E no, non m’incazzo. Solo che mi dispiace”

Lo guardai per qualche istante, senza abbassare lo sguardo. Contrariamente a quanto poteva sembrare, non ero affatto sicura di me in quel momento, anzi: conoscevo perfettamente il peso delle parole che avevo appena pronunciato e le sentivo mie nel modo più assoluto. Per quanto fossi parte di Zeno, infatti, e per quanto sentissi che anche lui era parte di me, ero consapevole, ogni volta, che qualcosa tra di noi ancora mi sfuggiva. E no, non si trattava soltanto della mia memoria ballerina: non era quello l’unico problema. Una vocina nel mio inconscio mi suggeriva che anche Andrea non voleva raccontarmi tutto, che i vuoti tra di noi erano in parte l’effetto delle sue parole non dette. Tuttavia, non riuscivo ad avercela veramente con lui per questo; al di là del fatto che le mie potevano essere solo supposizioni o stupide fantasie, seppure avessi avuto ragione, i motivi alla base del suo comportamento potevano essere molteplici e non potevo giudicarli.
Forse aveva solo bisogno di tempo per aprirsi; forse voleva soltanto concederne un altro po’ a me. In ogni caso io stessa non ero certa di voler conoscere tutto ciò che ancora ignoravo: avevo paura e preferivo godermi quella favola in cui Andrea era il mio principe azzurro e nient’altro. La nostra favola, quella dove non c’era mio padre a pianificare la mia vita, mia cugina a deridermi, Emiliano moribondo in un letto d’ospedale. Una favola in cui non c’erano gli operai della Stornelli&Co. ad ammazzarsi la schiena davanti ai miei occhi per uno stipendio di mille euro mensili, o i ragazzi de La Piovra pronti a protestare e scagliare pietre contro un sistema che voleva lobotomizzarli e che un giorno, con ogni probabilità, li avrebbe comunque risucchiati.
Ecco cosa volevo. Ed ecco perché non sapevo mostrarmi coraggiosa con Andrea, almeno per quel che riguardava me stessa.
Ma per Emiliano… Per Emiliano era diverso. Mi sembrava quasi che fosse compito mio salvarlo, anche attraverso Andrea che un tempo gli era stato legato; se fosse riuscito a riprendersi, Emiliano avrebbe dovuto trovare accanto a sé persone sincere, persone che gli erano state amiche e che erano disposte ad aiutarlo un’altra volta, nel momento più difficile. Emiliano aveva bisogno di essere salvato e non soltanto attraverso le cure mediche, ma anche e soprattutto con l’amore.

L’amore della mamma, degli amici, della sua ragazza. Sì, anche di Florinda, se fosse stata ancora pronta a ricambiarlo.

Viviana stava già riuscendo benissimo in questo compito; aveva deciso di guardare oltre tutti gli errori di suo figlio – com’era giusto per una mamma – e tornare a dargli la mano come se avesse avuto ancora cinque anni: la sua speranza tenace sarebbe stata ripagata, ma non doveva essere la sola a sperare e pregare per lui.


Ti aiuterò io, Viviana. Ci sarò anche io.
Ci sarà Florinda, quando tornerà in sé.
E, te lo prometto, ci sarà anche Andrea.

 
 
Tornai a guardare di nuovo Zeno; lui, invece, non ricambiò. Stava seduto nel prato verde facendo pressione sulle proprie braccia e guardava lontano; la sua Atena aveva assunto un’espressione desolata.

Cerco che te ne fai di film, eh Marghe?
Pure sul tatuaggio di Atena adesso!


“Zeno, ascolta…”
“Margherita” non mi lasciò il tempo di parlare, mi bloccò con voce monocorde “Pensi male di me?”
“Non è questo. E’ che…”
“Sai che  volte non si tratta di non voler raccontare? Non è un fatto personale.”
“E cos’è, allora?”

“E’ voglia di dimenticare. Per questo non parlo, per dimenticare. Tutto qui”

Lo guardai sconcertata.
 
 


***


 
“Emiliano mi ricorda… un periodo molto brutto” cominciò “Il periodo della mia vita a Liverpool, con tutti i suoi annessi e connessi.”
“Che sarebbero questi annessi e connessi?” domandai sospettosa. Avevo paura della sua risposta.

Andrea alzò un sopracciglio, le labbra gli si curvarono in un sorrisetto finto e un po’ indisponente.
 
“Tu che dici?”
“Non saprei.”
“Non lo sai, ma puoi immaginare. No?”

Certo che potevo. Droga, alcool a fiumi.
Forse qualche rissa? In effetti aveva un paio di cicatrici sparse tra i tatuaggi il mio Zeno.

“Di che ti facevi?” domandai deglutendo.
“A parte l’eroina, per il resto credo di aver provato tutto.”

Ah, capito.

“E così ti godevi la vita? Che fine aveva fatto tutto il tuo  impegno politico?”

Strinsi un lembo della mia maglia di cotone; più in là, il libro di arte giaceva ormai dimenticato tra qualche trifoglio e una margherita gialla.

“Non mi godevo la vita, Meg. Tutt’altro. Cercavo di dimenticarla. E comunque, in quel periodo, l’impegno politico era andato proprio a farsi benedire. Non me ne fregava più un cazzo di niente, se devo esserti sincero.”
 
Non mi godevo la vita, cercavo di dimenticarla.


“Cercavi di dimenticare me?” mi venne spontaneo chiedergli.

Mi guardò, sorrise.

“Te, me stesso, casa mia, la mia miseria. Ero un ragazzo instabile, molto più di adesso.”

Mi accontentai di quella risposta.

“Emiliano che c’entra in tutto questo?”

Prese un grosso respiro.

“Emiliano era amico mio. L’avevo conosciuto al Lanificio, avevamo legato. È venuto in Inghilterra da me quando l’hanno cacciato di casa sua, o quando è andato via per scelta propria, ancora non si è capita la dinamica di questa faccenda. Comunque io ero contento che fosse lì con me, mi sentivo meno solo.”
“Meno solo quando ti calavi acidi e fumavi marijuana?”
Rise.
“Esatto. Poi, però, mi ha combinato un disastro dietro l’altro, mi ha messo nei casini. M’infilava in situazioni improbabili senza che ne sapessi nulla; a volte mandava a me i suoi creditori, certa gente losca che mi chiedeva soldi per lui. Manco sapevo dove li andasse a pescare, a essere sincero. Sempre per colpa sua ho perso l’ultima casa in cui abitavo; la proprietaria mi ha sbattuto fuori dopo che una ragazza che lui conosceva è quasi morta per overdose là dentro. Io ho aiutato Marilena a salvarsi ed io sono stato sbattuto fuori. È divertente, vero? Alla fine, ho capito che a Emiliano del resto del mondo non gliene fregava niente, neanche di me, e l’ho lasciato perdere. Lui è sparito e io neanche l’ho cercato quando sono tornato in Italia. L’ho rivisto la prima volta il giorno in cui ha cercato di rubarmi la bicicletta, in questo stesso parco, e ti assicuro che non è stato bello rivedersi in quelle condizioni. That’s all, Margherita. Ce l’hai ancora con me, adesso che sai tutto?”

Mi strinsi nelle spalle, scossi la testa.

“No, anche io ce l’avrei con Emiliano, al posto tuo. Ma so che sei buono, Zeno, e il risentimento non è parte di te. Dagli l’ultima possibilità, non lo sappiamo se resisterà fino a domani. Se dovesse andar male, ti porteresti il senso di colpa dietro per sempre.”
Andrea ridacchiò.
“Hai proprio uno spirito caritatevole, Margherita. Hai mai pensato di diventare monaca?”

Lo guardai sbalordita, poi ridacchiai pure io; stava cercando di essere divertente per stemperare la tensione e dimenticare il magone di quei brutti ricordi che si portava dietro, ma lo sapeva che soffriva. Avrei voluto che non fosse così.
Gli diedi allora un colpetto leggero al braccio, poi un altro. Un pizzicotto.

“Pur di non sposarmi ne stai inventando di scuse, eh? Adesso pure suora devo diventare!”

Mi avvicinai di più a lui, carponi; poi, mi accomodai sul prato, con le ginocchia che premevano sul terreno. Andrea rise, per un attimo sembrò dimenticare. Mi abbracciò, stringendosi alla mia vita. Poi, in uno scatto, si stese sul prato e mi portò con lui. Ridemmo entrambi, io con la guancia poggiata sul suo sterno, sul cuore.
“Quante persone sei, Andrea?” sussurrai. Una folata di vento smosse i miei capelli, mi coprì la visuale; si portava dietro un buon profumo di fiori. “Il diciottenne ribelle, il ventenne intossicato di alcool e droga di Liverpool, l’uomo politicamente impegnato di adesso… Che altro mi manca?”
“Non lo so… il rapinatore seriale di farmacie?”
“Che cretino che sei!”
Mi venne da ridere.

“Meg, ognuno di noi è tante cose, tante persone messe insieme. Una persona è i libri che ha letto, la pittura che ha visto, la musica ascoltata e dimenticata, le strade percorse…”
“…Una persona è la propria infanzia, la sua famiglia, vari amici, qualche amore, abbastanza seccatori.”
“…Una persona è una somma abbassata da infinite sottrazioni.”
“Uno, nessuno e centomila, direi.”
“Potremmo continuare all’infinito con le citazioni, lo sai vero? Alla fine sono soltanto Andrea”
“E io sono soltanto Margherita. E tu sei il risultato delle persone che hai amato” sottolineai, con una punta di gelosia.
“Quindi il tuo risultato, perché ho amato davvero solo te.”

Scattai a guardarlo, imbarazzata. Non sapevo se era la verità assoluta, ma volevo crederci e di certo non me l’aspettavo. Ridacchiò e mi bacio. Due ragazzetti in bici passarono lungo il vialetto di ghiaia fiancheggiato dal prato dove ce ne stavamo stesi e fischiarono.

Fra poco mi seppellisco per la vergogna.


“Andrea?”
“Sì?”
“Devi portarmi da Arianna.”

Ancora.

“Dopo Roma” rispose.
“Okay.”
“Andrea?”
“Sì?”
“Non fotografi più?”
“Ho avuto da fare, non c’è stato tempo. Ma se vuoi posso fotografare te, un giorno di questi.”

Annuii.

“Sì, grazie. Ah, Andre?”

Ridacchiò, mordicchiandomi il polso.

“Che c’è ancora, Meg?”
“Andrai a trovare Emiliano?”

Trattenne il fiato per un po’.

“Non lo so. Però ci penserò, te lo prometto.”
 


 
***


 
Florinda si rifiutava di mangiare; da quando, del tutto fuori pericolo, era stata trasferita a Traumatologia con la sua bella gamba ingessata, aveva progressivamente ridotto le porzioni dei pasti che ingeriva, fino a rifiutarli del tutto. Inoltre, ogni volta che qualcuno andava a trovarla, fingeva di dormire. Ne ero certa, non poteva essere un caso che fosse sempre incosciente quando riceveva visite.
Soprattutto con suo padre non aveva scambiato una sola parola dal giorno dell’incidente: ero pressoché convinta che lo evitasse per ripararsi dalla sua furia. Non voleva dargli spiegazioni, ne aveva paura. Tra l’altro, con ogni probabilità, zio Aurelio pagava qualcuno nell’ospedale affinché continuassero a tenere lì la sua unica figlia, almeno fin quando la rabbia non gli fosse sbollita, anche solo in parte. In caso contrario, non sarei riuscita a spiegarmi altrimenti perché i medici si ostinassero a trattenere lì dentro Florinda – in una stanza singola, c’era da aggiungere –  anche se stava discretamente bene.

Quanto potere avevano i nostri soldi, in quella città? E il nostro cognome?
E quanto aveva paura Flora di averlo infangato?

Per dirla tutta, né a casa, né in fabbrica né altrove avevo sentito una sola parola in più riguardo l’incidente. Da quel “martedì della disgrazia”, com’era solito definirlo mia madre, nessuno aveva aperto più bocca riguardo la dinamica dell’intera faccenda, riguardo le bottiglie di vodka ritrovate in auto (un’auto rubata, tra l’altro), riguardo le canne che aveva fumato mia cugina, la sua presunta relazione con Emiliano e la brutta via che sembrava aver preso. Quando qualcuno – Ludovico, ad esempio – informava il resto della famiglia che andava in visita a Flora, sembrava andasse piuttosto a trovare la povera vittima del folle di turno, come se mia cugina fosse stata investita da qualche altro pirata della strada anziché essere lei stessa la causa del suo male.
Il giovane Borghesi neppure veniva più menzionato e mai, neanche per una volta, zio Aurelio aveva incontrato Viviana, l’unico genitore che andasse a trovare quel povero ragazzo, in cerca di chiarimenti.

Ero anche certa che mio zio pagasse con i propri soldi il silenzio dei medici e di quanti erano a conoscenza di quella brutta faccenda. Allo stesso modo, ero certa che Emiliano non sarebbe finito in carcere una volta guarito – semmai fosse riuscito a guarire – perché qualcuno avrebbe pagato per tenerlo in libertà ed evitare di macchiare ulteriormente il buon nome di quella stessa famiglia che l’aveva cacciato di casa. E non parlavo necessariamente di Viviana: il mio sesto senso me lo diceva che il padre di Emiliano, per quanto nascosto, agisse alle spalle del figlio per trarlo fuori dagli impicci. Ovviamente, non lavorava il suo bene, ma solo per salvaguardare la presunta moralità dei Borghesi. Senza neanche conoscerlo di persona, o conoscerne anche soltanto il nome, avevo l’idea che quell’uomo, nei modi di fare, somigliasse a mio padre; ero onesta: questo pensiero mi dava i brividi.


Quel pomeriggio del venerdì, comunque, non mi recai in ospedale per andare a trovare Emiliano.
Era con Florinda che volevo parlare.

Ero piuttosto abbattuta, quel giorno: continuavo a cercare Romina inutilmente. Era dal martedì precedente che non avevo più sue notizie e cominciavo a credere che volesse evitarmi. Mi stava anche bene, solo avrei voluto comprenderne il motivo visto che l’avevo lasciata felice e sorridente a La Piovra, alle tre del mattino, e dopo, misteriosamente, non avevo più ricevuto neanche una nuova brevissima telefonata.
In ogni caso, poiché sono un tipo a cui piace rovinarsi le giornate, decisi di concludere quel mogio venerdì che preannunciava a un fine settimana senza Zeno (impegnato a Roma) e senza la mia migliore amica, in compagnia di mia cugina.
Glielo dovevo: in fondo non avevo passato neanche un briciolo del mio tempo da sola con lei dopo l’incidente. Era pur sempre mia cugina e stava male.
Esatto, era solo per questo.

No, è solo perché sei una scema senza eguali e pure masochista, Margherita!

Scossi la testa e scacciai via la vocina petulante della me stessa sgarbata, mentre bussavo delicatamente alla porta della stanza di Flora.

Nessuna risposta.
Feci una smorfia e ritentai.
Di nuovo, nessuna risposta.

Un’infermiera mi passò accanto e mi squadrò dall’alto in basso: forse non le risultavano graditi i miei jeans stropicciati o la magliettina di cotone con la stampa di Kurt Cobain e gli schizzi della vernice degli striscioni a La Piovra.

“Forse la signorina Gherardi dorme. Lasciala in pace”

La signorina Gherardi, aveva detto.
Come se solo Florinda fosse stata l’unica signorina Gherardi.
Signorina Gherardi. Avrei potuto ripeterlo all’infinito ed esserne disgustata all’infinito. Quanto l’aveva pagato zio Aurelio per preservare con tanta cura quel gioiello di figlia che si trovava?

Non le diedi peso, comunque. Girai la maniglia della porta e feci pressione per entrare.

“Se conosco mia cugina non sta dormendo adesso. E comunque, può stare tranquilla quando mi vede in giro: sono Margherita Gherardi e non ho intenzione di importunare Florinda. Si ricordi il mio nome, per il futuro.”

La donna non rispose, anzi: a dirla tutta mi parve impallidire.

Quando chiusi la porta alle mie spalle, sospirai a lungo: detestavo esibire il mio nome con tanta arroganza, usarlo per trarne benefici personali. Eppure l’avevo fatto, solo perché quella donna mi aveva irritato.

Come può irritare tuo padre.
E tuo zio Aurelio.
O la stessa Florinda.
Vedi che sei come loro?
Staseradiecipadrenostroperfartiperdonare.


Sospirai di nuovo, rammaricata, e soltanto la vista di mia cugina che dormiva – apparentemente – m’impedì di continuare a pensarci.

“Flora?” la chiamai allora, con voce sommessa. Non mi rispose.
Ritentai.
“Florinda?”
Ancora nessuna risposta. Sbuffai.

“Flora, è inutile che cerchi di fregarmi: lo so che non stai dormendo. Avanti, parla, sono qua.”




“Che vuoi? Non ho nulla da dirti.”

Non si mosse, ma almeno aveva pronunciato due parole.
Proprio con me!
Pensare che da tre giorni ignorava le visite di mia madre, mio padre, mio fratello, dei nonni. E suo padre, come già detto. Katiuscia non era compresa nell’elenco perché neanche era andata a trovarla.

Ma la mia visita no, non la stava ignorando. Dimenticai lo spiacevole episodio di poco prima e mi concentrai su di lei, mi avvicinai al suo letto.

“Non ti ho invitato a sederti. Ti ho chiesto che vuoi, è diverso.”

Voltò di scatto la testa, per guardarmi: aveva una benda a coprirle parte della fronte e un ematoma piuttosto diffuso tra la guancia sinistra e il collo. Il labbro inferiore era appena più gonfio del solito e screpolato. Nonostante tutto questo, comunque, era bellissima; il suo sguardo triste e addolorato strideva pesantemente con le parole sgarbate che aveva appena pronunciato. Chiunque, anche un estraneo, se ne sarebbe accorto che stava male e non solo fisicamente.

“Io mi siedo, invece, perché sono venuta a trovarti e voglio stare comoda. Visto che non dormivi?” sorrisi.
“Nessuno te l’ha chiesto di venirmi a trovare, non io almeno. Quindi puoi anche tornartene a casa.”
Tossì.
“Flora, non t’agitare.”
“Non fare la crocerossina con me!”

Suora, crocerossina. Non me ne andava bene una, mi stavano affibbiando dei ruoli improbabili.
“Dovresti trattarmi meglio, sai? Sono l’unica che può dirti come sta Emiliano. Gli altri lo detestano.”

A sentire quel nome impallidì improvvisamente ed io mi pentii di averlo pronunciato.
Voltò di nuovo il capo di lato.

“C-che m’importa di Emiliano, secondo te?”

Respirò più affannosamente.

“Flora…” mi chinai su di lei, parlando piano. Forse perché ero innamorata – e sapevo chiaramente che anche il mio amore sarebbe stato inaccettabile per i miei genitori – mi sentivo solidale, per la prima volta, con la cugina che fino ad allora mi aveva detestato.
“Flora, non avercela sempre con me senza un motivo. Non sono qui per attaccarti. E non dirmi che non te ne frega niente perché non ci credo. Tu eri in macchina con Emiliano. Lui non mi aveva detto una bugia su di voi e tu lo sapevi, per questo mi hai aggredita quella volta a casa mia.”

Si torturò il labbro.

“Lasciami stare, Margherita”
“Non sono qui per giudicarti, non startene sulla difensiva. Sono qui per te.”
“Non mi sembra, visto che non mi hai chiesto neppure una volta come mi sento!”

Sospirai.

“D’accordo. Come ti senti?”
Mi ignorò.

“Ascoltami bene: non sto con Emiliano, lui non è niente per me, hai capito?” alzò la voce “Se stai cercando di insinuare che…”
La bloccai prima che potesse continuare.

Emiliano sta male, Flora. Sta davvero, davvero male. È in terapia intensiva e nessuno sa come andrà a finire. Se vuoi dire qualsiasi cosa contro di lui pensaci bene perché potrebbero essere le tue ultime parole. Non ti portare questo rimorso dietro per sempre.”

Impallidì di nuovo ed ebbi definitivamente paura per lei. Il suo sguardo era vitreo: mi guardò come se non vedesse nulla. In realtà, stava vedendo molto più di quanto io stessa potessi immaginare.

“Flora…”
“Non dire più niente” balbettò.
“Florinda, per favore… Sono dalla tua parte, davvero.”

“Tu dalla mia parte?!” mi aggredì “Non sai neanche di cosa parli! Non sai… niente! Emiliano, io…”
“Lo ami, Flora? Per favore, parliamone. Io posso capirti…”
“Cosa vuoi capire?! Stai solo cercando di estorcermi qualche confessione schifosa da riportare a tua madre o alla nonna. Va’ fuori di qui!”
 
I soliti toni della Florinda di sempre. Non mi erano mancati affatto.
Sospirai.

“Tu vivi di paranoie. Non lavoro per i servizi segreti e non voglio estorcerti un cavolo! Fa’ come preferisci, io adesso me ne vado. Pensavo t’importasse qualcosa di Emiliano ed ero venuta a dirtelo io, visto che sono l’unica dalla tua parte, sotto questo punto di vista. Evidentemente mi sbagliavo.”

Afferrai la borsa che avevo lasciato a giacere inerme sul pavimento; le piastrelle erano bianche, lucide e sapevano di disinfettante.
L’antifona era chiara: dovevo soltanto  andarmene. Era inutile continuare a stare lì, parlare chi non voleva sentire. Sprecavo solo il mio tempo.

Sistemai la borsa a tracolla e riavviai i capelli, prima di andar via; lanciai un’occhiata a Florinda: guardava verso la finestra. Non aveva più parlato, gridato, protestato, dopo quel che le avevo detto. In cuor mio, speravo che stesse soffrendo per Emiliano, e non perché fossi sadica e pensavo si meritasse quel dolore, ma solo perché continuavo a sperare che lo amasse davvero. Quella sofferenza poteva essere sintomo di amore, dopotutto. No?
Le studiai appena i movimenti del petto: si muoveva a scatti.
Forse piangeva?
Respirava solo più affannosamente?
Non lo sapevo, non mi guardava. Non mi parlava.
Mi odiava, come sempre.

Mi avvicinai alla porta con lentezza.

“Poi un giorno me lo dirai perché ce l’hai tanto come me, Flora…” aggiunsi
“Di mio non me lo ricordo, devi dirmelo tu.”

“Tu non ti ricordi mai niente” rispose lei in un soffio “A volte non lo so se fai soltanto finta.”
“Anche io a volte non capisco se fai soltanto finta” risposi uscendo dalla stanza.


“Comunque, Margherita… un giorno te lo dirò” concluse. O almeno mi parve così di comprendere: ero già fuori nel corridoio.
 
 
Corsi allora alla terapia intensiva. Non sapevo neanche se fosse orario di visite.

Sì, lo era.

Lo compresi quando, passando di in tutta fuori dalla stanza di Emiliano, scorsi da lontano la figura alta di Andrea.

Andrea che se ne stava fermo e immobile accanto a Viviana.
Andrea che se ne stava lì, in silenzio, accanto al letto del suo amico.
 
 
 
 
Di quell’ ennesima, anonima giornata soffocata nel dolore, decisi allora di ritagliarmi e conservare soltanto quell’immagine, di Andrea di spalle mentre guardava Emiliano.
Era la più bella immagine che avessi mai potuto desiderare di vedere perché parlava di perdono, di decisione, di amore. E di un po’ di speranza per quel futuro prossimo che ci faceva così paura.

 









 
 





Forse non sapete che:
1.Emiliano è liberamente ispirato a Martino, il personaggio di Jack Frusciante è uscito dal gruppo di E.Brizzi, anche se il loro percorso di vita, alla fine, sarò molto diverso.
2.L’incidente di Margherita, quello della caduta lungo le scale dell’azienda, è ispirato a un simile incidente – con annessa perdita di memoria – della protagonista di romanzo di Banana Yoshimoto, Amrita.
Amo molto questi due libri e penso si sia capito ;)
3.Emiliano è il nome che avrebbe avuto un mio ipotetico fratello, o il mio, se fossi stata un maschio… ma forse questo ve l’ho già detto, così come vi ho già detto che la Piovra è esistita veramente.
4.Al liceo avevo una professoressa terribile di arte… Tremavamo alle sue interrogazioni. Da vera secchiona, l’ho amata molto e tutto quel che mi ha spiegato lo ricordo ancora.

Ormai Piovre mi sta prendendo la mano (anche se penso sempre che possa annoiarvi xD) e, da storia di un amore, sta diventando la storia di tanti amori differenti. Siete in tanti a leggermi e vi ringrazio di cuore per questo. <3 Spero, come sempre, che vorrete lasciarmi un vostro parere: come avete letto, in questo racconto c’è tanto di me e sarei tanto curiosa di conoscere il vostro pensiero al riguardo :)
Vi lascio con due immagini bellissime:
Un banner realizzato dalla mia Ellina (Elle Sinclaire) per i nostri Romina e Fabrizio:






E l’ipotetica copertina di Piovre versione libro, progettata da Giulia (Giulia Butterphil)



Se non conoscete le loro storie leggetele, sono meravigliose.
A presto
 
Matisse

PS: nel capitolo avrete trovato alcune frasi inserite tra parentesi quadre. No, non sono impazzita xD
Anche in questo caso mi sono ispirata al libro Jack Frusciante dove, talvolta, i pensieri del protagonista venivano inseriti tra parentesi improvvisate. Mi piaceva l’idea :)
La citazione riportata da Margherita e Andrea è di Sergio Pitol, mentre la canzone di Billy Corgan (cantante degli Smashing Pumpkins, ndr.) è Tonight, tonight.
Per qualsiasi cosa vi ricordo il mio gruppo:

https://www.facebook.com/groups/265306233568958/permalink/300121050087476/?notif_t=like

Se volete sarete le benvenute :)

 
 
 
   
 
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