~A few minutes~
Il
modo più banale e scontato per iniziare a raccontare un evento passato.
Lo
vidi per la prima volta in una piovosa sera d’autunno.
Eppure, anche pensandoci bene, non
saprei in che altro modo cominciare. Perché davvero lo vidi per
la prima volta in una sera di Novembre in cui pioveva che Dio la mandava.
Non ricordo granché, a parte l’odore d’acqua e fango calpestati da chissà
quanti piedi che ristagnavano sui pavimenti plastificati dell’autobus.
Oh, sì. Ricordo l’ombrello che gocciolava. E io che ne
tenevo il cordoncino zuppo ben stretto in mano, per paura di dimenticarlo
quando fossi scesa.
Ripensandoci bene, fu una serata un po’ fuori dell’ordinario. Perché solitamente non mi concentro mai sulla gente che mi siede
accanto. Preferisco guardare fuori dal
finestrino, anche quando la pioggia è così fitta che non riesco a vedere nulla
a parte i contorni indistinti e sfuggenti delle luci all’esterno.
Quel giorno però il mio vicino di posto si sporse invadente verso di me,
strofinò l’avambraccio contro il vetro del finestrino per poter vedere oltre al
velo di vapore acqueo, e lanciò un’occhiata veloce fuori, prima di tornare alla
sua precedente posizione.
“Due fermate ancora.”
Mossi la testa in un distratto cenno d’assenso, senza distogliere lo sguardo
dalla strada in movimento.
“Mi auguro per lei che smetta di piovere.”
“Perché?”
Strinsi le spalle. Di chiacchierare non mi andava, e nemmeno di rispondere a
domande di quel genere. Avevo semplicemente detto la prima cosa che mi era passata
per la mente, buttato lì una frase di circostanza.
“Non si muore per un acquazzone,” continuò
raccogliendo la valigetta dallo spazio cavo al di sotto del sedile.
L’uomo era sceso pochi minuti dopo.
Se quella sera mi aveste chiesto com’era fatto il mio vicino
di posto, non avrei saputo rispondervi. Non lo avevo nemmeno guardato in faccia
se non quel tanto che mi era casualmente toccato quando
si era sporto verso di me.
Il giorno dopo, pochi minuti più tardi, salii sulla stessa linea. Era l’unica
che collegava il mio ufficio all’appartamento che condividevo con mia sorella.
Dieci minuti dopo, lo stesso uomo era seduto accanto a me. Mi guardai discretamente intorno, ed effettivamente non c’erano
altri posti disponibili se non quello che avevo affianco. Se
non altro, non si era seduto accanto a me appositamente per attirare la mia
attenzione.
Quella sera non pioveva, dunque riuscivo a vedere comodamente fuori dal finestrino. Purtroppo constatai dai clacson che
ruggivano in lontananza, dai fari quasi incessantemente rosso sangue e
dall’incedere a passo d’uomo della vettura, che il traffico era quasi
completamente congestionato. Ebbi il mio bel guardare di continuo l’orologio,
toccandomi insistentemente i capelli ed esibendomi nel mio campionario di gesti
di nervosismo, prima di accorgermi che l’uomo accanto a me mi
osservava divertito.
“Non ha fretta?”
“No,” rispose il mio vicino con una smorfia.
“C’è troppo traffico.”
“E’ vero.”
“Tutti questi fari rossi mi innervosiscono”
“A me,” ribatté l’uomo con un’alzata di spalle, “ricordano le luci natalizie.”
Luci natalizie.
Sospirai, accostando nuovamente il naso al vetro.
“Sì, sai,” continuò lui, “Quando monti l’albero di
Natale prima dell’otto Dicembre, e prima delle palline devi posizionare le
luci, e poi inserisci la spina per controllare che funzionino tutte…”
Sorrise, come se gli fosse venuto in mente un ricordo malinconico. “Un anno,
messa la spina, si accesero solo quelle rosse.”
“Ne ha comprate una nuova serie, quell’anno?”
“No, mi sono accorto che l’effetto era più bello. Ricordano un po’ le bacche di
vischio in mezzo alle foglie. Da quell’anno, le ho montate sempre e solo rosse.”
Sorrisi, mentre l’autobus
riprendeva a muoversi.
“Forse abbiamo superato l’ingorgo,” mormorai,
sollevata.
L’uomo si strinse ancora una volta nelle spalle.
“Come fai ad apprezzare la destinazione, se non ti godi il tragitto?”
Allungai le braccia per distenderle, abbracciandomi le ginocchia.
“E’ solo un viaggio in autobus.”
L’uomo inarcò un sopracciglio, divertito. Poi, senza alcun preavviso, chiese:
“Hai fretta di morire?”
Le labbra mi rimasero semichiuse per quella che mi era sembrata una retorica
domanda fuori luogo.
“Dovrei?”
“Hai detto che questo è solo un viaggio in autobus.
Potrei dire lo stesso della vita. E’ solo un viaggio. Solo che al capolinea non
puoi scendere e tornartene a casa.”
Non sapevo il suo nome. Non sapevo la
sua età, anche se probabilmente osservandone un po’ meglio i lineamenti avrei
potuto tentare di indovinare. Effettivamente, anche il suo aspetto fisico non
era poi così degno di nota. Anzi. Probabilmente, se l’avessi incontrato fuori dall’autobus, non l’avrei nemmeno riconosciuto.
Però ogni giorno era sempre lì. Saliva sempre alla
solita fermata, scendeva alla stessa, e, non so dirvi
per quale motivo, riusciva sempre a trovare posto accanto a me. Se mi sedevo
accanto a qualcuno, puntualmente l’occupante del posto accanto al mio si alzava
prima che salisse lui.
E, che la vettura passasse per la mia fermata dieci
minuti prima o mezz’ora dopo il solito, lui era sempre lì. Chiamatelo come
volete, casualità, destino, accanimento. Tant’è.
Il mio vicino di posto non mi infastidiva mai con
chiacchiere incessanti, come faceva, o meglio, tentava di fare, cert’altra gente. Si limitava a qualche frase buttata giù in
momenti del tutto casuali, su argomenti del tutto casuali.
Aveva sempre una massima per tutto, che fosse sua, che fosse
di Van Gogh o di Wilde o di qualcun altro. Sempre puntuale, sempre
originale. Ogni tanto si divertiva a farmi domande a cui non sapevo rispondere
e, quand’anche lo facessi, si divertiva a rovesciare la frittata con qualcuno
di quei suoi discorsi simili a quello sulle lucine
natalizie.
A volte mi ripeteva, in altri modi più o meno simili,
quel suo un po’ banale aforisma della vita come viaggio, non come destinazione.
E quasi riuscì a convincermi ad apprezzare quei venti
minuti (di più se c’era traffico) di tragitto in autobus.
“Non ha un’auto?”
“Sì che ce l’ho”
“Si preoccupa della benzina? O forse non le piace guidare?”
Anche quella volta aveva scosso le spalle.
“In macchina non puoi parlare con nessuno, quando il sedile accanto al tuo è
vuoto.”
Non sapevo
che lavoro facesse. D’altronde, osservai dopo settimane di quella strana
conoscenza che si limitava ai venti minuti del viaggio, che fosse un avvocato,
uno spacciatore, un banchiere o il gestore di un night
club, non era importante. Tutto ciò che succedeva al di fuori di quell’autobus,
al di fuori di quei precisi venti minuti, diventava
ininfluente.
Ci sono cose, però, che si intuiscono naturalmente,
come quando tua sorella torna a casa quasi ogni sera con i lividi sugli zigomi,
o le labbra o il naso sanguinanti, e ti spiega che è caduta dalle scale con un
sorriso che vorrebbe ridere della propria imbranataggine, quando invece grida
aiuto.
Un giorno, avendo dimenticato il
telefono cellulare in ufficio, fui costretta a tornare indietro a prenderlo.
Quando tornai alla fermata, vidi la vettura che dovevo
prendere sfrecciarmi accanto.
Dovetti attendere quaranta minuti circa perché ne
passasse un’altra.
Sicura che quella volta il mio vicino di posto non
sarebbe salito, trassi un libro dalla borsa e iniziai a leggere. In realtà, non
era importante cosa leggessi, ma il leggere in sé. Avevo una strana abitudine: compravo un
libro solo e solo se mi piaceva la copertina. Il titolo, il contenuto, non
importava. Leggevo e basta.
“Amrita?”
Chiusi il libro con un sorriso.
“Mi piaceva la copertina. Ha dei bei colori.”
Il mio vicino di posto annuì. “Azzurro e viola”. Tacque. “Ti piacciono i colori freddi”
“Oggi ha fatto tardi anche lei?”
“Vuoi la risposta vera o quella di circostanza?”
M’inumidii le labbra, sorridendo appena.
“Tutte e due”
Ci sono cose
che si intuiscono naturalmente. Come un uomo vestito con una
vecchia giacca e una camicia non stirata, che perde appositamente un autobus
per trascorrere venti minuti scambiando poche casuali parole con la sua vicina
di posto.
Un uomo che ha la macchina ma usa i mezzi pubblici
perché sono pubblici.
Un uomo la cui unica famiglia è composta dagli
sconosciuti il cui cammino si incontra con il suo solo
per venti minuti al giorno.
Ogni
tanto ci pensavo, al mio vicino di posto, quando non ero su quell’autobus. E ci penso ancora. Alla sua barba incolta,
alle sue camicie spiegazzate, al suo odore tenue di disinfettante. Alla
calda serata in cui si sfilò la giacca e si tirò su le maniche, ai segni di aghi sulla sua pelle abbronzata che non mi sfuggirono.
“Pensi
mai alla tua destinazione?”
“Se non scegliessi una destinazione, non potrei
decidere che tragitto percorrere per raggiungerla.”
“Vero. Ma ce n’è una che ben pochi hanno la sventura di scegliersi.”
Si accarezzò il mento, la cui peluria, al contatto con i polpastrelli, produsse
un leggero rumore di raschiamento.
“Ti auguro di non dover mai pensare a quale scegliere”
Dopo aver mormorato queste parole, si alzò, mi sfiorò la spalla con una mano, e
si alzò. Quella volta scese una fermata prima del solito, facendomi un cenno
con la testa prima di attraversare le porte a soffietto.
Finsi di non vedere che non era sceso
alla sua solita fermata. Come fino a quel momento avevo finto di non sapere che
quella a cui saliva era davanti all’Ospedale Centrale.
D’altronde gli attimi immediatamente precedenti al
momento in cui saliva sulla vettura, e quelli immediatamente successivi al
momento in cui scendeva, l’ho detto, erano
ininfluenti. Non facevano parte della nostra curiosa relazione, che si
protraeva solo per i venti minuti del viaggio.
Dopo quel
giorno non ho più rivisto il mio vicino di posto.
A volte fingo di non pensare che la fermata a cui è sceso
era stranamente vicina ad un ponte.
A me piace pensare che si sia trasferito, o magari che non abbia più bisogno di
prendere un autobus davanti all’Ospedale Centrale.
Sì, mi piace pensare che stia continuando il suo
viaggio, conversando amabilmente con qualcun altro.
Disclaimers: Il libro Amrita, sopraccitato, è un
romanzo di Banana Yoshimoto edito dalla Feltrinelli.
Tutti i restanti fatti, persone e cose appartengono alla fantasia (?)
dell’autrice.