Lady
Cora, nei suoi tanti anni come moglie di Lord Grantham, aveva
sicuramente imparato come disporre in maniera ottimale i propri
ospiti a tavola. Lady Siobhan era perfettamente visibile da tutti i
commensali, dato che era lei l'oggetto del pettegolezzo e della
curiosità, e in fondo anche l'ospite d'onore. Suo marito era
seduto
poco distante, ma in un posto dal quale fosse in grado di poter
scambiare occhiate significative. I Robertson erano relegati
dall'altra parte: non era necessario che parlassero con i loro amici,
ma che socializzassero con gli altri e non interferissero nei
discorsi di Lord e Lady Glenravel. Edith era vicina a Caitlin e
Marcus a Matthew. Lady Violet aveva la prospettiva perfetta: era in
grado di vedere tutti, ma di parlare solo con gli ospiti d'onore e
con il proprio figlio e la propria nuora. Mary, così come
Branson,
costituivano la linea di confine tra i due gruppi di invitati, cosa
che alla figlia maggiore di Lord Grantham non risultò troppo
lusinghiera. Tom Branson, invece, era ben felice di essere in grado
di scambiare due parole sia con gli amici scozzesi che con quelli
irlandesi.
Lady
Siobhan, nonostante le aspettative e le speranze di tutti, restava
silenziosa nel suo posto, annuendo e sorridendo alle parole degli
altri ma senza contribuire nelle discussioni. Suo marito, invece,
diceva poche parole, tutte fin troppo pungenti per permettere agli
altri di replicare, il più delle volte.
«Com'è
dunque la situazione, nell'Ulster?» domandò
Matthew a Lord
Glenravel, attirando subito lo sguardo di disapprovazione di Violet e
Robert, e quello incoraggiante di Branson.
«L'Irlanda
del Sud è in tumulto, Mr Crawley. Per quanto mi riguarda,
immagino
che sia giunto il tempo in cui la nostra Regina diventi più
una zia
che una madre per questo popolo...» affermò Lord
Gregory, mentre
gli anglicani ammutolivano e i cattolici, o meglio solo Branson,
esultavano.
«L'unico
punto su cui potremmo essere mai d'accordo»
replicò pronto Tom
Branson, mentre Lady Siobhan e Caitlin Robertson ascoltavano in
silenzio e Marcus Robertson sorrideva contento di saperli sulla
stessa lunghezza d'onda.
«Tom
Branson ha fatto di tutto per sconsigliare il mio matrimonio, questo
è poco ma sicuro» spiegò Lord Glenravel
a Matthew, che era di
fatto il suo interlocutore.
«Per
fortuna, non era suo compito decidere in merito» lo
apostrofò
Sybil, però con un sorriso «e abbiamo partecipato
alla loro festa,
dopo la cerimonia» concluse poi.
«Lady
Siobhan» la chiamò Lady Cora, dopo qualche istante
in cui le
conversazioni si fecero meno generali «siete piuttosto
silenziosa...
c'è qualcosa che non va?» domandò con
tono gentile. Lady Siobhan
si voltò verso di lei con quell'aria disinteressata con cui
aveva
squadrato tutti gli uomini della casa, appena velata da un pizzico di
disapprovazione nel venire interpellata così direttamente.
«Perdonate
mia moglie, Lady Cora» intervenne Lord Glenravel, che ottenne
subito
uno sguardo e un sorriso da quella silenziosa creatura forestiera
«quando arriviamo in un luogo nuovo, Siobhan deve
ambientarsi,
conoscere gli altri, e questo spesso le impedisce di dire
alcunché
per molte ore»
«Capisco...»
risponde semplicemente la padrona di casa, con un'espressione
soddisfatta che non sente affatto.
«Immagino
che spesso il rumore della propria voce sia troppo assordate per
poter sentire quella degli altri» si intromise Lady Violet,
con uno
dei suoi interventi.
«Non
è soltanto la voce, milady» rispose Lady Siobhan,
catalizzando
immediatamente l'attenzione di tutti, con tono musicale
«essendo
l'ospite, è per me normale attirare gli sguardi e le
orecchie di
coloro che mi offrono la loro compagnia. Se è la mia voce a
risuonare nella stanza, gli altri possono conoscere me ma io resto
ignara di coloro con cui parlo, perché essi sono troppo
concentrati
su di me. Questo è ciò che detta il mio
comportamento, nulla di
più» specificò, lasciando il resto
della piccola congrega in
silenzio, per qualche istante, tranne Violet.
«Credete
dunque che ciò che dite voi sia più interessante
di quel che dicono
gli altri?» domandò la contessa.
«No,
probabilmente non sono più interessante di chiunque altro.
Sono gli
altri a credere che ciò che ho da dire sia più
interessante delle
loro risposte» replicò pronta Siobhan, osservando
eloquentemente
Lady Cora e Lady Mary, come se fosse a conoscenza delle loro
obiezioni alla sua venuta.
«Si
vede che non siete mai venuta a Downton Abbey» la apostrofa
Lady
Violet, procurando in Siobhan, invece di un momento di stizza e
rabbia, la più piacevolmente maliziosa delle
curiosità.
«Attendo
dunque di sentire queste risposte, Milady. Ma non questa
sera»
concluse l'ospite, come a mettere un freno al discorso. Lady Violet
fu molto dispiaciuta di non avere l'ultima parola.
Regnava il silenzio nei corridoi della casa: la luna illuminava appena, in lame di luce flebile, i tappeti elegantemente appoggiati a terra. La servitù doveva ritirarsi, ora che ogni cosa era stata pulita e sistemata. Mrs Hughes riservò una delle stanze del suo corridoio a Mrs Kennedy e Jenna, mentre Mr Carson mostrava a Jim il luogo in cui avrebbe dormito finché fosse stato al servizio di quella famiglia. Thomas lo osservò come si osserva una rosa rossa in mezzo a un campo di sue gemelle tutte gialle ed avvizzite, come un gioiello in mezzo a pacchiana bigiotteria. Ma il suo occhio era ingannato, il suo cuore era ancora impreparato. Quel giovane biondino era uno “per ragazze”, non di certo della sua specie. Desmond McGrath superò Thomas Barrow osservando prima lui e poi l'oggetto delle sue attenzioni. Non disse nulla, ma con un'espressione del viso disinteressata, incontrò i suoi occhi con uno sguardo che si può solo definire di un'animale selvatico. Thomas si sentì arrossire, senza una determinata ragione, e Jimmy il nuovo arrivato si dileguò dalla sua mente come del fumo spazzato via da un forte soffio di vento, mentre Desmond scompariva oltre una porticina bianca.
Il
bosco era immerso in quel misto di luce e oscurità del
crepuscolo.
Il cielo era blu e le stelle iniziavano ad accendersi timidamente,
mentre gli alberi diventavano giganti magri e scheletrici, neri come
il buio. Le foglie dell'autunno formavano un manto scricchiolante
sotto i loro piedi; una ragazza e un bambino camminavano tra i
tronchi, i fusti, i funghi e le foglie, in direzione di una casetta.
La ragazza si fermò, sentendo qualcosa, nell'ombra.
«Comprate,
comprate!» delle voci gridavano. Erano lievi ma stridule,
acute
quanto sibilanti, leggere eppure udibili.
«Stammi
vicino» disse la ragazza, allungando il braccio e trattenendo
il
ragazzino vicino alle sue gonne «Non dobbiamo ascoltare
queste
grida, non dobbiamo comprare nulla da loro»
Il
ragazzino, però, aguzzò l'orecchio. Voleva
vedere, voleva capire, e
insieme voleva scappare e mettere in salvo la ragazza, insieme a se
stesso. Percorsero il loro sentiero e superarono una collinetta: da
lì potevano vedere la piccola radura al centro del bosco. La
luna si
levò, l'oscurità calò su di loro e gli
occhi si posarono sul
piccolo crocchio di creature intorno al fuoco scoppiettante. Avevano
panciotti ricamati e catenelle alle tasche, brache di colori scuri e
scarponcini eleganti, ma il loro aspetto non era del tutto umano: uno
aveva il muso di un gatto al posto del viso, un altro la coda liscia
e nuda di un ratto, un altro ancora gli occhietti neri e la pelle
viscida di una lumaca.
«Non
guardarli, non guardarli!» disse il più giovane,
cercando di
nascondersi nelle pieghe del vestito della più grande, che
però ora
era distratta: il suo viso trasmetteva curiosità e bramosia.
«Eppure...
i loro frutti sono così belli e rotondi... maturi, succosi,
invitanti...» diceva con meraviglia la ragazza. La luna
guardava la
scena, algida e distaccata. Il ragazzino riuscì a
distogliere la sua
compagna di viaggio da quella visione e la condusse alla casetta,
storta, di pietre dure, con il tetto di paglia.
Ma il
giorno seguente la ragazza era sola. Il suo piccolo amico era nella
casetta, ma osservò impotente la scena. I folletti
camminavano per
il bosco, seguendo la luce che cercava di nascondersi oltre
l'orizzonte, tra gli alti e sottili alberi.
«Comprate,
comprate!» gridavano, esaltando le qualità della
loro merce. La
ragazza si avvicinò cauta, e i folletti, come una nuvola di
nebbia
leggera, le si affollarono intorno lenti e armoniosi. Si guardavano
tra loro come spiriti maligni, come piccoli demoni in procinto di
creare piccoli ma non per questo banali malesseri. La ragazza
guardava, con i suoi occhi verdi, le pesche e le bacche e le mele,
come non ne aveva visti eguali.
«Buona
gente» disse la ragazza, in troppa fretta «non ho
monete né di
rame né d'argento nella mia borsa, né ho
dell'oro, neppure sul mio
capo, che di pece è colorato» confessò,
portandosi una mano tra i
capelli, neri e divisi in centinaia di ciocche.
«La
nostra merce puoi comprare, se un ricciolo perfetto ci puoi
donare»
pronunciò la vocina di un ometto-ratto. La ragazza
sentì un sospiro
riempirle il torace... pianse una lacrima di perla, e
consegnò una
preziosa spirale dei suoi capelli, e assaggiò i loro frutti.
Più
dolci del miele, più forti del vino, più chiari
dell'acqua della
fonte. Assaggiò e le sembrò di non aver mai
mangiato nulla di
simile prima. Li mangiò, li spolpò ancora e
ancora, finché finì
la sua porzione. I folletti le se ne erano già andati, e lei
tornò
a casa.
«Non
dovresti essere ancora fuori, Agnes» disse il ragazzino,
sulla
soglia, gli occhi lucidi «non ricordi cosa è
successo a Laura, che
ha assaggiato i frutti dei folletti e indossato i loro fiori, e oggi
è sottoterra, diventata grigia e secca come una pianta
morta?»
Agnes
si chinò e lo abbracciò stretto.
«No,
Robert, non piangere così» replicò lei,
asciugando le lacrime del
ragazzino con le sue dita e stringendolo ancora «Ho
assaggiato i
loro frutti eppure la mia bocca è ancora rosa, le mie guance
non
hanno perso il loro colore. Domani ne comprerò anche per
te»
aggiunse, con una carezza.
I due
si coricarono insieme, nel grande letto dalle lenzuola bianche,
chiusi come in un nido, caldo e profumato di bucato fresco, nel
silenzio della calma.
Il
giorno successivo passò in fretta, nelle faccende di ogni
giorno,
nelle letture e nei racconti che Robert non riusciva a ricordare,
come tutti gli altri. Agnes non sentì il richiamo dei
folletti;
Robert lo udì:
«Non
oso guardare, non oso seguire quel richiamo. Torna in casa, torna qui
con me e non indugiare oltre» le disse, prendendola per mano.
Agnes
restò in piedi solo qualche altro istante, con il cuore
pesante: se
non poteva più udire il loro grido, significava che non
poteva più
comprare nulla?
Seguì
Robert e si coricarono, ma quando il ragazzino fu assopito, Agnes
digrignò i denti e nel silenzio che li aveva cullati la sera
prima,
pianse senza un rumore.
Giorno
dopo giorno, notte dopo notte, Agnes non sentì
più il grido dei
folletti, non vide più i loro passi tra le foglie, non
assaggiò più
quei frutti. Tutti i suoi compiti eseguiva, tutti i suoi doveri
esperiva, ma cibo non toccava, frutto non mangiava, acqua appena
beveva. E mentre il tempo passava e lei dalla finestra osservava, il
nero dei suoi capelli scoloriva, la testa le si ingrigiva, la vita
piano piano la lasciava...
Lord
Grantham si svegliò di soprassalto. Il ragazzino si stava
avvicinando ad una Agnes grigia e sofferente, senza sapere cosa
fare... perché era passato troppo tempo, troppe cose erano
successe
e lui aveva dimenticato il finale di quella storia, e quel ragazzino
aveva spinto il se stesso più anziano a cercare il modo di
salvarla.
Lady
Cora non si era mossa, non aveva dato segno di essere stata
disturbata, nel sonno, da suo marito. Robert era agitato, ma si
riappoggiò al cuscino e cercò di tornare a
dormire. Per quanto
cercasse di rilassarsi, non ci riusciva: ogni volta che chiudeva gli
occhi, vedeva solo il buio, non riusciva a trovare l'oblio e
dimenticare il viso dolente e i capelli ingrigiti di zia Agnes. Il
ragazzino del sogno gli stava impedendo di arrendersi e gli imponeva
di fare qualcosa, e così riaprì gli occhi e si
alzò. Prese la
vestaglia e, nel modo più silenzioso possibile, si
avviò verso il
proprio studio. I suoi passi non risuonarono nel vuoto e nel buio
della casa, neppure la porta del suo studio cigolò. Si
avvicinò
allo scaffale dove sapeva di aver sistemato “Il mercato de'
folletti”, la storia che aveva sognato, ma trovò
uno spazio vuoto.
Ricordò, d'improvviso, il volume di Christina Rossetti tra
le mani
di Sybil e Caitlin Robertson, e si risolse a cercare nel salottino di
sotto, nella speranza che le due l'avessero dimenticato proprio
lì,
dopo cena. Quasi lanciò un grido quando si diresse verso
l'uscita
opposta: si era forse riaddormentato? No, non poteva essere. Quella
piccola creatura non era zia Agnes: i suoi capelli erano troppo
corti, la sua camicia da notte, seppur ugualmente bianca, troppo
diversa da quella che Robert conosceva. Gli occhi però,
quando si
aprirono, sembrarono gli stessi, per un istante. Verdi e brillanti,
vennero celati più e più volte dalle palpebre che
si aprirono e si
richiusero. Lady Siobhan si tirò su a sedere, pur con le
gambe sul
divano, stropicciandosi il viso e rendendola agli occhi di chi aveva
di fronte, molto più giovane di quanto non fosse.
«Dove
sono?» chiese, un poco annoiata, e forse un po' frustrata,
come se lo scenario le fosse fin troppo famigliare. Robert
non risposte, ma restò a guardarla.
«Oh,
siete voi. È il vostro studio, questo?»
domandò ancora lei,
guardandosi intorno. La sua camicia da notte era molto ampia e la
copriva da capo a piedi, nascondendo questi ultimi nelle sue pieghe,
così che sembrava un piccolo fantasma.
«Dormivate
qui?» continuò la ragazza, e a questo punto Robert
rispose.
«No,
io... ho avuto un incubo» disse Lord Grantham, non sapendo
bene
perché glielo stesse dicendo «piuttosto,
perché stavate dormendo
voi qui?» aggiunse poi. La ragazza alzò le spalle.
«Devo
averlo sognato, e io cammino nel sonno. Forse per via di Christina
Rossetti» spiegò, terminando la frase con un
brivido ben evidente.
Prima di rendersene conto, Lord Grantham si era tolto la vestaglia e
gliel'aveva poggiata accanto: mentre Siobhan la prendeva e si
circondava di quella stoffa calda, lui evitò il suo sguardo
e si
guardò a sua volta intorno, per decidere il da farsi. Non
poteva
farsi trovare lì, anche se non era successo niente. Non
poteva
riaccompagnarla semplicemente alla sua stanza? Non sapeva qual era e
forse neanche lei lo ricordava e se lei era veramente sonnambula, non
avrebbe riconosciuto la strada per tornare da sola.
«Mio
marito verrà a prendermi, appena si accorgerà che
mi sono alzata.
Ho avuto un incubo anche io, credo... o forse era un'ombra.
Restereste con me, finché Gregory non arriva?»
domandò, in un tono
che raggelò per un attimo il padrone di casa, che si sedette
di
fronte a lei, con una tonalità più pallida della
precedente sul
viso.
«Perché
mi avete guardato così, quando sono arrivata?»
chiese ancora lei,
come se fossero entrambi in una normalissima conversazione di fronte
a un tè, in pieno giorno e senza alcuna sconvenienza.
Robert,
nel buio penetrato solo da un fuoco flebile da poco acceso, dalla
luna che si infiltrava tra gli infissi e dalle candele che aveva
appena acceso, aggrottò la fronte e non rispose.
«Mi
avete guardato come se fossi un fantasma. Come se qualcuno, tanti
anni fa, avesse avuto le mie sembianze, o simili, e fosse arrivata
qui con una percezione diversa di questo posto, rispetto
all'ammirazione e alla deferenza» spiegò ancora
lei, decisa ad
avere una replica «il fantasma di chi, mi chiedo»
«Che
tipo di percezione?» chiese lui, conoscendola perfettamente.
«Di
essere giunti in una gabbia, seppur d'oro. Come l'usignolo
dell'imperatore cinese» concluse, citando una favola che
stranamente
anche Lord Grantham conosceva.
«Il
libro della Rossetti doveva essere di questo fantasma»
immaginò
lei, stringendosi ancora di più nella vestaglia. Si chiese
se il suo
interlocutore aveva freddo, ma non indagò. Doveva arrivare
in fondo
a questa storia: c'era come uno spirito inquieto dietro i suoi occhi
che poneva quelle domande.
«Lo
era» confessò Lord Grantham «ma quando
lei se ne andò, mia madre
lo fece bruciare. La copia che abbiamo ora la comprai io, anni dopo,
quando anche quella era già vecchia di qualche
anno» raccontò,
senza riuscire a fermare le proprie parole, che lei raccolse come un
mendicante arraffa le monete cadute da una tasca sotto il suo naso.
«Non
posso pensare a niente di più crudele di bruciare un
libro» disse
lei, senza guardarlo.
«Io
non posso pensare a niente di più crudele di bruciare quel
libro»
le fece eco lui, attirando di nuovo la sua attenzione
«è stata una
crudeltà inutile, l'ultimo legame che avevo con lei spezzato
per
sempre»
«Vi
aveva lasciato il libro?» chiese Siobhan, impercettibilmente
portando avanti il busto.
«Mi
aveva lasciato molto di più, ma l'ho scoperto soltanto
dopo»
rispose, in una maniera enigmatica che non sentiva sua, ma in una
maniera semplice e diretta, che era molto più sua.
«Posso
sapere il suo nome?» domandò poi la ragazza,
addolcendo il suo
tono.
«Agnes»
replicò Lord Grantham «Agnes Crawley, nata
Lewis»
«Credo
che sentirai la sua storia un'altra volta, Siobhan» disse una
voce
profonda ma leggera, nell'oscurità. Lord Glenravel era
giunto dalla
porta socchiusa, con una candela tra le mani proprio come Lord
Grantham. Si avvicinò alla moglie e le porse una mano, che
lei prese
e si alzò in maniera elegante e fluente. Sembrava in balia
di lui,
come un burattino nelle sue mani, ma era solo un'impressione
superficiale. Siobhan lasciò la vestaglia di Lord Grantham
sul
divano vicino a lei e suo marito la aiutò a entrare nella
sua
vestaglia, che lei si allacciò.
«Lizzie
andò dai folletti e non mangiò i loro frutti. I
folletti tentarono
di farla mangiare, spargendo il succo e la polpa del loro frutti sul
suo viso, cercando di infilarglieli in bocca. Lizzie tornò
da Laura,
sua sorella, che mangiò la polpa e bevve il succo di quei
frutti dal
viso della sorella. È l'amore a salvare la ragazza del
mercato de'
folletti, milord. Forse anche voi riuscirete a salvarla
così»
concluse Siobhan, facendo una piccola riverenza e seguendo il marito
fuori, lasciando Robert Crawley, Lord Grantham, solo con i suoi
ricordi, pensieri e sogni.