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Autore: Federico    18/11/2012    2 recensioni
Salve! Dopo molti mesi torno conq uesta AU, la prima storia western che scrivo.
Stati Uniti, 1870: Zoro, un giovane orfano di guerra che desidera diventare il più grande pistolero del West per mantener una vecchia promessa, viene sconfitto dall'enigmatico Drakul Mihawk, che lo incita a perseguire il suo sogno e ad allenarsi per superarlo.
Anni dopo, troviamo un Zoro più esperto e maturo, che vaga per l'America lla ricerca di sfide sempre più difficili, e ne seguiamo le avventure fino allo scontro finale...
Se vi piace il genere, leggete e recensite! Ciao a tutti!
Avvertenze:
1) Questa storia non è un elogio alla diffusione delle armi in America. Tutt'altro.
2) Mihawk e altri personaggi sono un po' OOC.
3) In un capitolo un personaggio pronuncia frasi dal contenuto estremamente razzista. Ovviamente non condivido simili posizioni, non è la mia ideologia.
Genere: Avventura, Azione, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Roronoa Zoro, Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Spazio autore
Ebbene, anche stavolta siamo giunti alla fine di una fic. Ringrazio tutti quelli che fino ad ora mi hanno seguito o recensito, o si sono anche solo dati la pena di leggere qualche capitolo di questa storiella. Che vi sia piaciuta o no, mi piacerebbe conoscere le vostre opinioni tramite recensioni.
Non so quando sarà la prossima volta che ci vedremo: mi piacerebbe riuscire a terminare qualcosa entro le vacanze di Natale, ma non ci conterei troppo. In ogni caso, le mie priorità vanno a quelle AU di Bleach e Naruto che vado annunciando da tempo, anche se a dire la verità ci sono un paio di ulteriori progetti su One Piece che mi ronzano nella testa, e chissà cosa ne uscirà. Ora, però, vi lascio all’ultimo capitolo, in cui finalmente potrete assistere allo scontro che avete sempre aspettato fin dall’inizio. Ciao, alla prossima!
 

Long time no see

 
Contea di Polk, Iowa, 31 dicembre 1874
L’unica cosa che Zoro avrebbe desiderato in quel momento, e che non poteva ottenere, era una bella stufa con cui scaldarsi, al posto del suo vecchio cappotto ormai pieno di toppe e strappi attraverso cui fluivano correnti freddissime.
Con lo scopo di esporre al freddo tagliente la minor superficie corporea possibile, si era calcato il cappello a coprirsi bene fronte e nuca, si era annodato attorno al volto la bandana che usava nel deserto per non respirare la polvere e aveva sepolto le dita callose negli spessi guanti, ma nulla poteva scacciare dalle ossa il gelo che le faceva fremere e irrigidire.
Il suo cavallo, poveretto, che aveva condiviso con lui anni ed anni di fame e fatica, galoppando e marciando ogni giorno con dedizione e resistenza ammirabili, non poteva invece contare su altri indumenti che il pelo e la sua spessa criniera, ed affondava nella neve gli zoccoli pesanti come stivali di piombo, dilatando nervoso le froge da cui fuoriusciva un vapore biancastro.
Il pistolero, di nuovo a casa dopo tanti anni, osservò il paesaggio circostante e fu colto dai ricordi: tutto, come quel giorno, era nascosto alla vista da un candido mantello che imponeva alla natura un silenzio irreale, da cui emergevano pochi alberi, anch’essi quasi completamente seppelliti dalla neve, come fantasmi di un tempo che non c’era più.
La terra, fredda, bianca, inospitale, era d’un tratto divenuta molto simile al cielo, sgombro di nuvole e popolato solo da un sole pallido e spento, un re morente.
Non poteva che augurarsi che stavolta l’esito della giornata fosse diverso.
Nel corso della sua lunghissima odissea, Zoro non era mai venuto in possesso di una vera sicurezza, calma e stabile, bensì ogni dì nel suo animo si alternavano sconforto e gioia, speranza e
timore, montagne in apparenza troppo alte per intravederne anche solo la cima e fiumi a prima vista profondissimi, ma in realtà facili da guadare.
Tante volte la sua determinazione era stata messa a dura prova, e spesso le parole gli avevano fatto molto più male delle pallottole, insinuandogli dubbi che si radicavano come cancri e nemmeno lunghi giorni di esercizio ed eclatanti vittorie potevano eliminare del tutto.
Passata l’euforia iniziale, la vittoria contro Shanks gli aveva dato molto da pensare durante il suo viaggio verso casa, attraverso le praterie del Dakota e del Minnesota, punteggiata da altre soste ed altri duelli: se l’era davvero meritata? Non aveva forse avuto fortuna? Non era che il famoso e temibile bandito si era rammollito col tempo, oppure le voci sul suo conto erano assai esagerate?
Per tanto tempo, teso solo a perfezionare la propria tecnica ed i propri riflessi, lo scontro con Occhi di falco era rimasta una prospettiva tanto lontana da apparire inverosimile, e la figura del canadese si stagliava titanica, ma di fatto intangibile; ora che era là, ora che aveva deciso di essere là, si chiedeva, molto umanamente, se non fosse il caso di tornarsene sui propri passi.
Per lunghi istanti il cavallo rimase immobile, il cavaliere che stringeva con veemenza le briglie, il viso contratto dall’ansia, quindi Zoro lo spronò nuovamente, perché aveva sempre cercato di essere coerente con se stesso, e in quel momento supremo doveva dimostrarlo.
Quel giorno avrebbe tentato, andasse bene o male; in caso di fallimento, si era già ripromesso che avrebbe ricominciato immediatamente a vagare e avrebbe battuto il West per altri dieci o vent’anni, se necessario, certo che Mihawk non si sarebbe tirato indietro di fronte ad un’eventuale proroga della sfida.
In ogni caso non sarebbe passato da casa prima dello scontro, ma dopo, a prescindere dall’esito, avrebbe quantomeno fatto una visita al padre e a Kuina, per rinnovare la promessa o informarli del suo adempimento.
Frattanto era giunto nei pressi del luogo designato, e dietro la vetta di una collina poteva già scorgere la vasta cima della quercia sotto le cui fronde aveva accettato la sfida.
Dalla sommità dell’altura, aguzzando l’occhio sano, notò un uomo appoggiato al tronco dell’albero, affiancato da un cavallo dal manto nero come la notte, e, sorridendo, gli andò incontro galoppando.
Quando fu nelle vicinanze della quercia rallentò l’andatura, e spinse il destriero fin sotto i rami, a pochi metri da Mihawk; il canadese per qualche secondo lo ignorò, per nulla invecchiato,il solito sguardo raggelante di sempre, quindi alzò lo sguardo e disse con un filo d’impazienza: “Mère de Dieu, alla buon’ora! E’ tutto il giorno che ti aspetto, e stavo cominciando a pensare seriamente che mi avresti dato buca come gli altri anni”.
Il giovane non poté fare a meno di ammirare la grandezza di quell’uomo, che aveva scrupolosamente tenuto fede alla parola data e per quattro anni di fila aveva sopportato il freddo e la neve in sua attesa.
“Scusami, ma ci è voluto un po’ dal Montana a qui… Sai, ho incontrato e battuto Shanks il Rosso. Ti saluta!”.
Un timido accenno di sorriso distorse le labbra di Occhi di falco, che subito riacquistò l’abituale compostezza: “E’ caduto in basso, per perdere contro uno che ha la metà dei suoi anni. Al nostro prossimo incontro non mancherò di farglielo notare. In ogni caso, il fatto stesso che tu sia qui testimonia la tua lealtà e la tua costanza. Prima però, devi rispondere alla domanda che sai.
Roronoa Zoro, hai ucciso qualcuno durante i tuoi viaggi? Sii sincero”.
Tremando non perché stava per mentire, ma perché era emozionato nel rivolgergli la parola, il ragazzo rispose: “Piuttosto che stroncare una vita, ho permesso che mi portassero via quest’occhio sinistro che non mi vedi più. No, mai. Sia che dovessi combattere per la vittoria che per la mia vita, non mi sono mai macchiato di una colpa simile”.
Mihawk annuì solennemente, quindi chinò il capo con aria turbata e sottomessa e disse: “Una volta, quando avevo pressappoco la tua età, e già da tempo facevo il pistolero, capitai in una piccola cittadina dell’Ontario. Brava gente, boscaioli perlopiù: così, tanto per scherzare, organizzai un duello con lo sceriffo locale. Anche quella volta vinsi, ma è stata l’unica volta in cui avrei venduto l’anima pur di perdere”.
Alzò gli occhi giallastri, e fu allora che il giovane credette di avervi intravisto delle lacrime: “Subito dopo gli spari, udimmo un pianto sommesso e un tonfo. La figlia della sceriffo, una graziosa bambinetta dai riccioli d’oro, era sfuggita alla madre per seguire il papà, e una delle mie pallottole l’aveva colpita. Avrei dovuto accorgere mene prima: sono o non sono Occhi di falco? Fu tutto inutile e, per quanto lo sceriffo continuasse a sostenere che si era trattato solo di un terribile incidente, fuggii lontano, e per qualche tempo fui perseguitato da incubi rimorsi, arrivando addirittura a pensare di rinunciarne alle armi o di togliermi la vita. E’ proprio per questo che non uccido mai nessuno: negli occhi spaventati dei miei avversari continuo a vedere quelli di lei”.
Zoro era assolutamente incredulo; abituato com’era a collocare Mihawk in una specie di Olimpo terreno, senza problemi ad angustiarlo, scopriva adesso in lui una storia tormentata ed un animo capace di soffrire e penare come tutti gli altri, che fosse o no il più grande.
Il canadese drizzò di nuovo fieramente il mento e disse: “C’è qualcos’altro che mi preme conoscere: hai mai fatto il sicario o la guardia prezzolata? Hai mai accettato denaro come ricompensa? Come ti sei mantenuto in questi anni?”.
Di fronte a quelle domande, che dimostravano principi morali ferrei, di nuovo il ragazzo dell’Iowa non ebbe problemi a rispondere: “Se ho guadagnato dei soldi è stato solo lavorando onestamente, senza dire a nessuno che ero un pistolero se non era necessario. Ogni tanto sono andato a caccia di ricercati, ma più che altro perché volevo fare piazza pulita di quei maledetti, e spesso ho dato i soldi della taglia a chi ne aveva più bisogno di me. Tutte le volte che ho aiutato deboli e indifesi contro banditi e prepotenti ho sempre rifiutato il denaro, accettando come ricompensa solo cibo od ospitalità”.
“Eccellente” osservò Occhi di falco in tono compiaciuto, anche se non era nella sua natura darlo troppo a vedere. “Chi è troppo attaccato al denaro finisce per dimenticare tutto il resto, e persone come noi hanno già un fine nella vita. A mio giudizio, chi si affida alla pistola per fare fortuna non è che un brigante come gli altri. Credi che ricchi rancheros e latifondisti non mi abbiamo mai contattato per eliminare i loro rivali? Credi che presidenti, dittatori e generali non mi abbiano mai corteggiato perché facessi il mercenario alle loro dipendenze? Io ho sempre risposto no a tutti. Gli Argentini volevano che scacciassi gli indios della Patagonia dalle loro terre, i Cileni che li aiutassi a reprimere gli scioperi dei minatori, gli Spagnoli che collaborassi alle operazioni contro gli indipendentisti cubani… Ma perché sparare a gente povera e oppressa per conto di chi ingrassa sulle loro miserie? Non è nel mio stile, come non lo è impicciarmi nelle beghe fra Stati. Quando una quindicina d’anni fa qui in America scoppiò la guerra civile, sia Nordisti che Sudisti cercarono
di portarmi dalla loro parte, ma respinsi tutte le offerte. Qualche anno dopo ero in Messico: anche lì c’era la guerra civile, e l’Imperatore Massimiliano d’Asburgo mi promise una cifra faraonica e il grado di colonnello perché guidassi le sue truppe contro i repubblicani di Juarez. Io rifiutai. Ho sbattuto la porta in faccia perfino ai miei compatrioti, quando alcuni di loro progettavano di imbracciare le armi per separarsi dalla Gran Bretagna, e non me ne pento: la libertà non si ottiene ammazzando e devastando, quando esistono altri mezzi, ed io sono un tipo pacifico”.
“La tua esperienza è incommensurabile, lo convengo, e non riuscirei ad eguagliarla nemmeno viaggiando tutta la vita” replicò Zoro ostentando tranquillità, mentre le sue mani davano a vedere tutto il contrario, proseguendo a tormentare il cinturone.
“Quell’arma” disse d’un tratto Mihawk, indicandolo: “Ha un calcio davvero peculiare, con quelle decorazioni, e sembra un’arma di ottima fattura, roba da professionisti. Non mi sembra che ne possedessi una così all’epoca del nostro primo incontro. Dove te la sei procurata?”.
Il giovane, in tono modesto, prese a spiegare: “Me l’ha donata un grande pistolero di nome Ryuma. Era un uomo giusto ed onesto, che si era trovato su una brutta strada, non per sua colpa. Ho sconfitto chi lo aveva soggiogato ai propri loschi voleri, ma non ho avuto modi di salvare la vita di Ryuma che, per gratitudine, mi ha lasciato in eredità questa pistola”.
“Ormai sei grande, devo riconoscerlo” soggiunse il canadese, per poi farsi immediatamente più serio: “Ora però abbiamo parlato fin troppo. E’ giunto il momento che siano le Colt a farlo”.
“Anche se perderò di nuovo, non smetterò di ammirarti. Se sarà mio destino vincere, non ti umilierò” disse Zoro, e salutò l’altro togliendosi il cappello e misurando il terreno a grandi passi, al che l’altro rispose con lo stesso gesto: “Da te mi aspetto molto, mon ami. Vorrei un bel combattimento veloce e pulito, alla vecchia maniera. E non sottovalutarmi!”.
Quando furono in posizione, il ragazzo cercò di approfittare dell’esperienza della volta passata, e non guardò gli occhi di Mihawk, quelle rapaci iridi giallastre capaci di saettare dardi di puro terrore nel cuore di chiunque, lasciandolo come paralizzato, e preferì studiare attentamente la sua postura, i suoi piedi divaricati ed allineati che sprofondavano nella neve, il cinturone con le fondine quasi completamente coperto dal lungo soprabito violaceo.
Avrebbe potuto giurare che anche l’altro stava effettuando la medesima operazione, perché aveva capito che Occhi di falco era un tipo prudente e non avrebbe abbassato la guardia con un avversario che aveva ormai compreso essere competitivo e pericoloso.
“Ci siamo” era l’unico, inamovibile pensiero nella sua mente tesa ad unico obiettivo: si rendeva conto delle implicazioni che un nuovo fallimento avrebbe avuto, che rimediarvi sarebbe stato troppo difficile, che non poteva permettersi di sprecare un’occasione d’oro.
Aveva timore di sbagliare, di mettere un piede in fallo, di perdere la presa sul calcio delle rivoltelle a causa del sudore che copioso gli inumidiva le mani, di sbattere nel ciglia nel momento meno opportuno, di farsi beffare ancora una volta dalla velocità mitologica del canadese, ma sapeva anche che non provarci nemmeno lo avrebbe fatto sentire come un verme, un codardo: d’un tratto le parole di Smoker gli ronzarono nel cervello, e le scacciò a fatica.
Ora basta pensieri, però: l’altro era lì davanti a lui, rigido come una statua, non poteva permettersi distrazioni…
Come in quell’assolato pomeriggio di El Paso, tentò di riacquistare quella sensazione di comunione con l’ambiente circostante che aveva sviluppato nel corso degli anni, e d’un tratto il vento gelido,
la fioca luce solare e le ombre sulla neve gli apparvero chiari come le parole scritte nero su bianco nelle pagine di un libro.
Solo una cosa sfuggiva ai suoi tentativi di penetrazione: Mihawk.
Il suo respiro era regolare, non sudava, le pupille non erano divaricate per l’inquietudine.
Fu talmente veloce che non poterono accorgersene.
Entrambi scostarono le falde del cappotto, estrassero le pistole, le alzarono, come per una sorta di riflesso automatico, presero la mira con un’occhiata e premettero il grilletto.
Gli spari echeggiarono nell’aria invernale, propagandosi forti come cannonate fino al cielo.
Dopo aver preso la mira Zoro aveva chiuso l’unico occhio, sopraffatto dalla tensione e dal riverbero della luce sulla neve; quando lo riaprì, spalancò anche la bocca.
Anche se era lontano ed in controluce, non poteva essere un’illusione: Mihawk era disarmato.
Prima di poter esternare in qualsiasi modo la propria gioia, colto da uno strano sospetto, guardò le proprie mani e trovò che erano vuote, le rivoltelle che giacevano in mezzo alla neve.
Non c’erano né vincitori né vinti, perché si erano neutralizzati a vicenda.
Dopo aver rinfoderato le pistole, andarono l’uno incontro all’altro e si strinsero le mani.
“E’ incredibile” commentò il canadese, sempre gelido come un pezzo di ghiaccio. “Non avrei mai e poi mai immaginato una situazione del genere. Sei disposto a fare un nuovo tentativo?”.
Il giovane lo fissò a lungo, diede un’occhiata alla vecchia quercia, quindi rispose: “Vorrei, ma non credo che otterremmo un esito diverso. E’ un segnale. Vuol dire che ho ancora strada da fare”.
“E sia”- ridacchiò Occhi di falco- “anche se ho vinto tanto quanto te, penso di aver bisogno di un altro po’ di allenamento. Ma prima di lasciarci dimmi: cosa ti ha dato tanta forza?”.
“Il ricordo di mio padre, morto in guerra quando ero ancora un bambino, e quello di una mia cara amica, una ragazza di nome Kuina, che sicuramente sarebbe diventata un pistolero migliore di me se un fato infelice non se la fosse portata via. Sono sempre stati con me, in tutti questi anni, ed ora è giusto che vada a ringraziarli”.
Mihawk, slegato il proprio cavallo, vi montò in sella con un balzo e l’animale, riconoscendo il padrone, si impennò scalciando e nitrendo.
“Me ne torno in Canada, Roronoa Zoro, e da lì solo Dio sa dove finirò. Quanto a te, torna a casa, o continua a viaggiare, se preferisci. Ma ricorda: la nostra sfida è rinnovata. Ogni 31 dicembre mi farò trovare qui, che tu ci sia o no”.
“Conta pure su di me, vecchio!” gridò Zoro, anch’egli in sella alla propria cavalcatura, e galoppando in direzioni opposte, pieni di orgoglio, onore e commozione, si imbarcarono in un’avventura che forse non avrebbe mai avuto termine.
  
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