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Autore: _LilianRiddle_    21/11/2012    3 recensioni
- Prenditi cura di lei. Prendi in mano la sua vita, per piacere. Non farle compiere pazzie e fatti ascoltare. - disse Robyn prendendo tra le mani il viso di Desiree e parlando alla sua fronte. - E tu, - riprese rivolgendosi al suo petto, un po' spostata a sinistra, - non fare pazzie e ricordati che sei troppo fragile per resistere ad un'altra guerra persa. Ascolta il cervello, lui ha sempre ragione! -
Detto questo, posò un leggero bacio sulle labbra di Desiree, che si sentì demolire e allo stesso tempo ricostruire. La guardò un'ultima volta negli occhi e sussurrò: - E tu, prenditi cura di quei due kamicaze che ti ritrovi al posto del cuore e del cervello. Starai bene. Sei troppo orgogliosa per permettere a qualcuno di cambiarti per sempre. Vedrai, ci ritroveremo e, quando succederà, riusciremo a sistemare le cose. -
- Tu sei la mia eccezione. - disse Desiree.
- Anche tu sei la mia eccezione. Ed è proprio per questo che non possiamo stare insieme. -
Allora, Desiree si sporse a sua volta verso Robyn e le rubò uno di quei baci che tutti vorrebbero avere, ma che pochi hanno veramente.
Poi prese e se ne andò. Ma non per sempre. Solo per un po'.
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Yuri
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Epilogo
 

E un giorno ti accorgi che la favola è leggermente diversa da come l'avevi sognata. Il castello beh, potrebbe non essere un castello. E non è tanto importante che la felicità sia eterna, ma che si possa essere felici al momento. Perché una volta ogni tanto, una volta può capitare che le persone ti sorprendano. Una volta ogni tanto le persone possono anche toglierti il fiato.

- Grey’s Anatomy.

 
E gli anni passarono, e passarono anche i giorni, così come i minuti e i secondi. Ancora una volta tutto passò. Ma questa volta. Alcune cose rimasero. I segni sul braccio di Desiree, piccole cicatrici indelebili. Gli occhi stanchi di Robyn. La tranquillità che avevano conquistato insieme. L’amore. Insieme, da sole, con altre persone.
Quella mattina, Desiree si alzò presto, con una strana sensazione che le contorceva lo stomaco. Ansia, felicità, qualcos’altro di indecifrabile. Silenziosamente, uscì dalla sua camera buia e si avviò verso la sala, dove la sera prima aveva lasciato il suo portatile rosso. Lo prese tra le braccia e lentamente ritornò in camera da letto. Si sedette alla scrivania e accese il pc. Aspettò quei buoni cinque minuti che ci metteva per caricarsi, mentre la gamba iniziava a tremarle dall’impazienza. Finalmente lo schermo si accese e lei entrò su Skype. Tutte le mattine, infatti, si alzava alle cinque del mattino per parlare con suo marito. Era un uomo alto, biondo e dagl’occhi scuri, profondi. Gentile e generoso, anche, ma sapeva molto bene come tenerle testa. Era l’unico, a parte Robyn, che era riuscito a domarla. Faceva il militare. Era un Marines dell’esercito statunitense e amava il suo lavoro. Desiree un po’ meno. Pensare che suo marito sarebbe potuto rimanere ucciso in qualsiasi momento della giornata, era un’ansia che l’accompagnava sempre. Ma sapeva che Logan doveva aiutare gli altri per essere felice. E poi, stava cercando di rendere questo mondo un posto migliore dove crescere i figli di qualunque famiglia, discendenza o etnia.
Al pensiero dei suoi figli, la mano le corse subito verso il ventre e un timido sorriso le illuminò il volto. Quella mattina, gli avrebbe dato la bella notizia. Fra nove mesi avrebbero avuto un altro bambino. Il quinto, per la precisione. Il primo era arrivato inaspettatamente, tredici anni prima. Lo avevano chiamato Christopher Blaise ed era l’uomo di casa quando suo padre partiva per le missioni. Qualche mese dopo la nascita di Christopher, avevano deciso di adottare un bambino. Due anni dopo, dal brasile, arrivò Dominic Guilherme. Erano felici, una vera famiglia. I due piccolini erano scalmanati e davano tanto da fare ai due giovani genitori. Nonostante ciò, sei anni dopo, adottarono una bimba giapponese, abbandonata dalla madre in un cassonetto dell’immondizia. Aveva poche settimane e non aveva nome. Così, visto che era arrivata in autunno, la chiamarono Kasumi Akiko, ovvero bambina della nebbia d’Autunno. Tre anni dopo, una cara amica africana di Logan morì di parto, e Desiree, anche se Logan era un po’ contrario, visto che avevano già tre figli, convinse il marito ad adottare la piccola Sarabi, che vuol dire Miraggio. Adesso erano in sei, in famiglia e presto sarebbero stati in sette.
Il computer emise un trillo.
- Buongiorno, bambolina. – disse sorridente. Desiree sospirò. Logan stava bene. Quel grandissimo idiota era ancora vivo.
- Buongiorno, essere. – rispose con un sorriso.
- Allora, come sta la mia moglie preferita? –
- Stai insinuando che hai altre mogli di cui io non sono a conoscenza? –
- Beh, sai, qui ci sono tante belle ragazze. È difficile rimanere fedeli! –
- Ah, sì? Beh, vorrà dire che mi andrò a trovare qualche bel moro anch’io… -
- Cosa?! Non ti permettere, donna! Aspetta che ritorni, sta sera, e poi vedi! –
- Sì, certo uomo. Come no. A proposito, a che ora mi hai detto che torni oggi? –
- Alle 6:00! È così difficile per te ricordare un semplicissimo orario? –
- Certo! –
- Mi manchi, Dès. –
- Anche te, Lo. –
- I bambini come stanno? –
- Bene. Dormono. Christopher sta entrando in quella fase in cui dice solo no. A volte mi viene da prendergli la testa e spaccargliela contro il muro. E Dominic è uguale. Sai che non ho pazienza. –
- Sei un’ottima madre, Desiree. E le bambine come stanno? –
- Oh, le piccole stanno benissimo. Sono così belle. Anche Christopher e Dominic sono belli. Christopher, poi, è sempre più simile a me. Fa quasi paura, sai? Stessi occhi, stesso colore dei capelli… -
- Stesso carattere del cazzo… -
- Stesso carattere del cazzo… E tu? Avete subito altri attacchi? –
- No, tutto tranquillo. E siamo ancora tutti vivi. Tra un’ora prendiamo il camion che ci porterà all’aeroporto. Spero che vada tutto bene. –
- Senti, Logan… io devo dirti una cosa. –
- Dimmi. –
- Sono incinta. –
L’uomo non rispose per un bel po’. Guardava la moglie con un sorriso ebete sul volto, sussurrando calcoli fra sé e sé.
- Tre settimane fa, quindi. Quando sono tornato per quei pochi giorni. –
- Sì. Sei contento? –
- Da morire, amore mio. Sai già se è maschio o femmina? –
- Ma va! Lo sapremo tra un po’. Domani ho la visita dal ginecologo. –
- Bene, ci andiamo con tutti i piccoli? –
- Certo, così gli facciamo vedere la loro nuova sorellina. –
- Ma se hai appena finito di dire che non sai ancora se è maschio o femmina! –
- Non è questione di sapere o non sapere. Io lo sento. Sento che sarà una bellissima bambina. E si chiamerà Ginger. –
- Ginger? Ma non era il secondo nome di… -
- Zitto. Non dirlo. Va bene così. –
- Quand’è che smetterà di farti male, Dès? –
- Penso mai. Ma ci sei tu, adesso, e io ti amo più di me stessa. –
- Anch’io ti amo. Adesso vado, ci vediamo sta sera. Dai un bacio ai bambini. –
La conversazione finì così com’era incominciata: con un click. La donna sospirò e chiuse il computer. Andò in bagno e aprì l’acqua della doccia. Si spogliò e, come le accadeva da un po’ di settimane, si guardò allo specchio. Ricordava come si sentiva da ragazza a guardare il suo corpo: inadeguata, brutta, grassa. Ricordava come cercava di nasconderlo, ricordava anche quando aveva smesso di mangiare. Ricordava quando mangiava solo per non destare sospetti e come dopo andava a vomitare. E ricordava perfettamente le litigate ingaggiate quando Robyn aveva scoperto quello che faceva a sé stessa. E ricordava i pianti, gli abbracci, le parole sussurrate e quelle mai pronunciate. Ricordava quel pomeriggio quando, l’aveva afferrata e, davanti a tutte le sue amiche, l’aveva abbracciata. E lei era scoppiata a piangere e per la prima volta Robyn non parlava, teneva la bocca chiusa, perché non c’era niente che potesse impedire quello che stava succedendo. Non c’era niente che poteva impedire che l’amore s’insinuasse nei cuori di quelle due giovani ragazze. Niente. E nel niente sfumò tutto. Desiree non aveva smesso di tagliarsi e Robyn non aveva smesso di preoccuparsi. Erano diventate una routine le discussioni. Anche prima lo erano. Il loro, era un rapporto molto conflittuale.
E adesso, Desiree ripensava a tutto quello che era stata per lei Robyn. Erano anni che non pensava a lei. Da quando aveva scoperto di essere incinta, però, i ricordi erano tornati. E insieme ai ricordi erano tornati anche profumi, voci e occhi. Visi, corpi, sensazioni. Desiree si sfiorò il ventre un po’ gonfio. Quella bambina avrebbe avuto il suo nome. Il suo secondo nome. Era giusto così. Doveva. Voleva chiamare sua figlia come lei. La sua ultima bambina. Con estremo dolore distolse lo sguardo dal suo passato, e ritornò al presente. Si buttò sotto la doccia, infreddolita più che mai. Ci passò la solita mezz’ora, poi uscì. Si asciugò i capelli lunghi e si rivestì in fretta.
Un rumore la fece sobbalzare. Poi, la porta del bagno si aprì ed entrò Christopher, assonnato come non mai.
- Chris, amore, cosa c’è? È ancora presto per andare a scuola. –
- Ho fatto un brutto sogno. E poi tanto non riuscivo a dormire. –
Già. Sembrava che il ragazzo avesse preso proprio tutto dalla madre: anche l’insonnia. In questo sperava che la bambina che sarebbe arrivata tra nove mesi sarebbe stata più simile al padre. Logan ci impiegava cinque minuti ad addormentarsi e poi dormiva per tutta la notte. Niente lo svegliava. Proprio niente. A parte le lacrime della moglie. O i suoi incubi. I terribili incubi che ancora la prendevano e che molto spesso vedevano morire una ragazza troppo simile a Robyn. Chissà perché, poi. Chissà perché proprio lei.
- Dai, vieni qui. Abbracciami. Gli abbracci salvano le vite, sai? –
Il bambino corse tra le braccia della madre come le onde del mare s’infrangono sugli scogli. La scena si ripeteva uguale ogni mattina, quasi alla stessa ora. Christopher arrivava con gli occhi rossi di lacrime e raccontava alla sua mamma perché era lì e poi si rifugiava tra le sue braccia minute in cerca dell’amore che solo una madre può donare al proprio figlio.
- Ma se gli abbracci salvano le vite, perché papà usa i fucili per salvare le vite dei bambini africani? –
- Perché purtroppo le persone non sanno ancora come si fa ad usare un abbraccio. È una ricetta segreta, come quella della torta di mele della nonna. Tutti sanno, alla fine, che cosa c’è dentro, come si fa, ma non sanno qual è l’ingrediente speciale. E allora tentano in tutti i modi di fare quella torta, facendosi aiutare da altre persone, ma vedi, si impara solo da soli. Solo da soli si impara ad abbracciare. –
- Ma mamma, è una cosa che si fa in due. Abbracciare, intendo. Non è che uno si abbraccia da solo. Ci si abbraccia sempre in due. –
- Sì, ma per poter esser capace di abbracciare qualcun altro, devi prima riuscire ad abbracciare te stesso. E questa è una delle poche cose che nella vita bisogna affrontare da soli. Ma purtroppo, amore mio, la maggior parte delle persone ha paura di abbracciarsi da sola. Così ricorrono alle armi da fuoco. –
- Ah, è triste. Però papà sa abbracciarsi da solo, vero mamma? –
- Certo! Ma che domande sono queste? È logico, è mio marito! Non lo avrei mai scelto se non mi avesse dimostrato che sapeva abbracciarsi da solo. –
- E tu sai abbracciarti da sola? –
- Naturale. E vedrai che imparerai anche te ad abbracciarti. Per adesso, vedo se ti riesco ad insegnare qualcosa io. –
- Mamma? –
- Sì? –
- Sono quasi le 7.00. –
- Di già?! Vatti a vestire, Christopher, mentre io vado a svegliare i tuoi fratelli. –
La donna percorse svelta i corridoi della grande villa a tre piani, eredità della sua famiglia. Salì velocemente le scale che separavano la sua stanza da quella dei bambini e aprì la grande porta arancione che aveva davanti. Entrò in una grande cameretta piena di giochi e di lego, disordinata come la camera di ogni bambino. Si avvicinò al grande letto e iniziò a scuotere il figlio.
- Nick, svegliati è tardi, ti devi alzare. –
- Mmm… - un grugnito fu la sua unica risposta.
- Dominic? Forza. Alzati. Ho preparato i pancake. –
Il bambino finse di non sentire, ma poi si girò, gli occhi ben aperti.
- Davvero? – chiese con un gran sorriso.
- Certo, riccio. E se ti muovi a vestirti te ne faccio ancora. –
Detto questo, Dominic saltò giù dal letto e corse in bagno.
La donna allora uscì dalla cameretta e si avviò verso una grande porta lilla.
L’aprì e si avvicinò al piccolo lettino. Dentro, una piccola bimba orientale dormiva tranquillamente. Era il suo cartone animato giapponese preferito.
- Akiko, tesoro, svegliati. –
- Mamma, ciao. –
Quella bambina era incredibile. Ti bastava chiamarla una volta, ed era già sveglia e pimpante come se fosse sveglia da ore. Desiree non si capacitava della cosa. Chissà come faceva.
- Buongiorno gioia mia. Ha sognato qualcosa di bello, ‘sta notte? –
La bambina si alzò a sedere e una cascata di capelli neri come la pece invase il suo visino tondo, nascondendo i suoi incredibili occhi verdi e a mandorla. Con un gesto veloce delle manine se li tirò indietro.
- Ho sognato tantissime farfalle. – disse sorridendo. – Erano di tutti i colori e volavano tutte intorno a me. Ad un certo punto mi hanno alzata da terra e mi portavano in giro. Sono andata anche sulla Luna con le mie farfalle tutte colorate, sai? –
- Addirittura sulla Luna? – esclamò la madre sorpresa. – E hai visto la Terra da lassù? –
- Sì, certo. Era una piccolissima pallina blu acceso. Un giorno credi che potrò andare anch’io sulla Luna? –
- Ma certo, Akiko. Potrai andare dovunque vorrai. –
La bambina sorrise ancora di più e, canticchiando, scese dal letto e andò in bagno.
- Mammaaaaa! – urlò Dominic dalla cucina, al pianterreno della casa. – Dove sono i pancake? –
- Adesso arrivo, Dominic. Siediti e non urlare. –
La donna entrò quindi nell’ultima stanza del corridoio, di un accesso verde mela. Nel centro, in un piccolo lettino, una bimba color ebano la guardava con i suoi grandi occhioni scuri, strofinandoseli con le piccole manine.
- Ciao mio piccolo miraggio. È stato tuo fratello a svegliarti? –
- Uhm. Sì. – e si aprì in una magnifica risata. – Mi sa che ha fame! – esclamò continuando a ridere.
- Mammaaaaaaaaaaaa! –
Rise anche la donna.
- Mi sa anche a me che ha fame! –
- Oggi ci porti al lavoro? –
- Certo. Chi era quel bambino con cui giocavi l’altro pomeriggio? –
- Si chiama Leo. – disse la piccola alzandosi dal lettino. – Ed è il mio fidanzato. –
La madre finse un’aria sorpresa e offesa allo stesso tempo.
- Davvero?! E perché non me lo hai detto prima? – esclamò.
- Perché è un segreto, mammina. Lui non lo sa ancora e non lo deve sapere! –
La donna guardò sua figlia e scoppiò a ridere fino a farsi venire le lacrime agli occhi. Amava i bambini. Eccome se li amava.
 
 

***

 
- Ciao Meredith. Novità? – domandò Desiree entrando con i suoi figli nel palazzo. Come ogni sabato mattina svegliava presto i suoi bambini e li portava al lavoro con lei. Bisogna specificare che Desiree faceva un lavoro molto particolare: lavorava come insegnante d’asilo per un’associazione che aiutava le famiglie in difficoltà. In America non ce n’erano molte di associazioni di quel tipo, soprattutto perché non solo accoglievano le famiglie in difficoltà, ma anche madri e padri single con bambini, o giovani donne, o adolescenti scappati di casa. Chiunque, insomma, che avesse bisogno d’aiuto. L’associazione era formata da una serie di palazzine dove le persone alloggiavano finché non trovavano una nuova sistemazione. Nella palazzina principale c’era l’asilo, le scuole medie e superiori, il dottore, lo psicologo e anche la sala ricreazione dove tutti, la sera, si ritrovavano per parlare, per stare tra amici.
- Questa notte è arrivata una nuova famiglia. Si tratta di due ragazze e una bambina. –
- Perché non mi hai chiamata? Sarei venuta a darti una mano. –
- Desiree, sono quasi due mesi che non dormi decentemente. Da quando è scoppiata quella bomba vicino alla postazione dell’unità di tuo marito. Hai bisogno di riposare. -
- Uff, balle. Lesbiche? –
- Penso di sì. Stanno insieme, comunque. Per ora non ci sono appartamenti liberi. Questa notte le ho sistemate nella camera dei giochi, ma dobbiamo trovare loro una sistemazione al più presto. –
- Ok. Le porto la colazione, così le conosco. –
- Prima devi compilare quei moduli, ricordati. –
- Non ti preoccupare! –
La donna si avviò verso il piccolo angolo cottura che avevano incastrato per ogni necessità in un angolo della hale.
- Chris! – urlò.
- Dimmi mamma! – esclamò il ragazzino, sbucando da dietro l’angolo con un pallone da calcio in mano.
- Tieni, vai a portare questo vassoio nella stanza dei giochi. Dallo alle persone che trovi lì. Digli che è la loro colazione. E bussa prima di entrare. Io arrivo subito! –
La donna si avviò verso il suo ufficio, mentre Christopher si diresse verso il piano superiore. Si accostò alla porta e bussò piano.
- Avanti. – disse una voce femminile.
Spinse con forza l’uscio ed entrò. Sul divano dove di solito stava seduta la mamma, c’era appoggiata una bellissima donna dai lunghissimi capelli biondi. Di fianco a lei, stava seduta un’altra donna, altrettanto bella, con corti capelli ricci. Appena i loro sguardi s’incrociarono, questa sussultò, come se avesse visto un fantasma.
- Ehm, buongiorno. Vi ho portato la colazione. – disse il giovane un po’ esitante.
Dopo i primi secondi di smarrimento, però, la ragazza mora si aprì in un magnifico sorriso.
- Buongiorno anche a te, fanciullo. Grazie mille per la colazione. L’hai fatta tu? –
- No, certo. Non so cucinare. – disse Christopher porgendole il vassoio. – L’ha fatta la mia mamma. –
- Ah, ho capito. E, se non sono troppo indiscreta, potrei sapere come ti chiami? –
- Christopher. Piacere. E tu? –
- Io sono Robyn. Lei è mia moglie Grace e quella ragazzina che vedi laggiù a leggere è mia figlia Eryn. –
Il ragazzo si voltò e vide la più bella ragazza che avesse mai visto. Aveva lunghi capelli mori, riccissimi. Alzò lo sguardò e anche lei lo vide. Aveva gli occhi azzurri come il cielo d’estate.
- Christopher, non disturbare gli ospiti. – esclamò una voce dal corridoio.
- Ma io non sto disturbando, mamma! –
La donna fece per ribattere, ma entrò nella stanza. Davanti a lei, seduta comodamente sul divano e con una tazza di caffè in mano, c’era Robyn. La sua Robyn.
- Robyn… -
- Desiree? –
- In persona. –
- Ommioddio! – esclamò la donna, abbandonando nelle mani della moglie la tazza di caffè e buttandosi fra le braccia di Desiree.
La donna si abbandonò completamente. Nulla era cambiato da quando si abbracciavano per i corridoi della scuola: le braccia di Robyn l’inghiottivano ancora completamente e il suo profumo l’avvolgeva proprio come allora.
- Mi sei mancata così tanto. – sussurrò Robyn.
- Anche tu. Dove sei stata tutto questo tempo? –
- Troppo lontana da te, ecco dove sono stata. –
Si staccarono.
- Hai una moglie. E anche molto bella, a quanto vedo. Io sono Desiree Eryn Phillips, piacere di conoscerti. – disse porgendo la mano alla donna bionda.
- Io sono Grace Nora Williams. – rispose con un gran sorriso quest’ultima. – E quella è nostra figlia Eryn. Ora capisco perché Robyn ha insistito tanto per darle quel nome. Sai, mi ha parlato tanto di te. –
Desiree sorrise ancora. E si volse verso la bambina.
- Ciao Eryn. Questo è mio figlio Christopher, penso che tu lo abbia già conosciuto. –
- Sì, certo. Ti va di mostrarmi un po’ questo posto? – domandò la ragazzina a Christopher. Il ragazzo diventò bordò e annuì, invitando la sua nuova amica ad uscire dalla stanza.
Desiree si sedette sulla poltrona posta davanti al divano e si fermò a contemplare Robyn. Non era cambiata neanche di una virgola eppure, in qualche modo a lei sconosciuto, sembrava essersi mutata in qualcosa di nuovo e completamente inaspettato. Era addirittura più bella di quanto ricordasse.
Stava per aprir bocca quando un tornado di bambini la invase.
- Mamma, mamma, Dominic mi ha fatto male! – esclamò piangendo la piccola Akiko.
- Dominic! Cosa le hai fatto? – rispose la madre.
- Niente. È lei che non mi voleva dare il gioco. Mi ha morso, guarda! – urlò il ragazzino mostrando il lieve segno del morso sul suo braccio.
- Ma insomma, Akiko! Non devi mordere. Sei in punizione, niente giocattoli fino a quando non torna papà. –
- Evvai! – esclamò Dominic.
- E tu, signorino, non tocchi la playstation per due giorni, capito? –
- Ma mamma! –
- Dominic, vai a giocare con tua sorella, adesso. –
- Io non voglio giocare con lei! – piagnucolò il bambino.
- Muoviti! Akiko, dai la mano a tuo fratello e andate a giocare. E non provate più a farvi male, o resterete in punizione fino ai quarant’anni! – comandò Desiree e i due bambini uscirono mogi mogi dalla stanza.
- Mi fai ancora paura, sai? – sussurrò Robyn. Le due donne si guardarono. E provarono qualcosa l’una per l’altra. Amore, di sicuro. Ma un tipo di amore strano, più profondo, più intimo. Sapevano già da tempo che erano destinate a stare insieme, se lo erano anche promesso. Avevano giurato di ritrovarsi e lo avevano fatto. E avevano anche adempito al compito di amarsi incondizionatamente, sempre, nonostante tutto. E si erano rifatte una vita, ma la più piccola ed importante parte di loro era rimasta sempre insieme. In realtà, loro non si erano mai dette addio veramente. E ora, con gli anni sulle spalle, e le fatiche, e la nuova famiglia, erano pronte ad amarsi di nuovo. A stare insieme ancora, per sempre. Fino alla fine.
Grace capì, notò il loro sguardo, e forse sentì anche i loro cuori che battevano all’unisono e le lasciò sole. Diede un bacio alla moglie ed uscì dalla stanza.
- Sei molto fortunata ad averla. Io non ti avrei mai lasciata da sola con una sconosciuta. –
- Ah, lo so. Ti conosco, Dès. Tu ti saresti messa precisamente di fianco a me, mi avresti preso la mano e avresti appoggiato la tua testa sulla mia spalla, invadendomi col tuo profumo. E saresti rimasta così, a parlare amabilmente con quell’altra povera persona che subiva il tuo sadismo e capiva che i suoi propositi di scopare erano andati a puttane. –
Una risata cristallina riempì l’aria.
- Già, è vero. E lo farei tutt’ora. Lo farò tutt’ora. –
- Allora quelli erano i tuoi bambini? Con quanti uomini sei stata in questi anni, Dès? – chiese maliziosa.
- Smettila, scema. Sono adottati! A parte Christopher. –
- Come se non si capisse. Cazzo, Dès, è la tua copia sputata! –
- Beh anche Eryn è uguale a te. –
- Già. Ma dov’è tuo marito? –
- Marines. È in Iraq. Ma torna oggi. –
- Beh, certo. Normale. Perché tu non stavi soffrendo già abbastanza per la mia lontananza. Insomma, Dès, sei sempre la solita masochista! –
- Lo so. Grace che lavoro fa? –
- È nelle forze d’aviazione. Fa la paracadutista. –
- Ecco. Idiota. –
- E tu? Giornalista o insegnante? –
- Insegnante. Basket o musica? –
- Basket. –
- Mi sei mancata così tanto, Robyn. –
- Anche tu. –
- Ti amo. -
- Ti amo. –
E si baciarono, come tanto tempo prima, durante quell’ultima notte insieme.
 

 
***
 

- Andiamo alle Twin Towers, sta mattina? – domandò entusiasta Desiree a Robyn quella mattina, mentre allattava la piccola Ginger, nata in una fresca notte di marzo.
- Ma sono a quasi un’ora di macchina da qui! –
- Dai Robyn! Devo fare delle commissioni e dobbiamo fare shopping a New York! –
- Logan, ti prego… - supplicò la donna verso l’uomo che giocava con i bambini. Logan era tornato mesi prima e aveva trovato una moglie finalmente tranquilla in compagnia di questa sconosciuta che in fondo conosceva da una vita. Desiree le aveva parlato tanto di lei. La donna, poi, aveva praticamente costretto Robyn e Grace a trasferirsi da loro e non le aveva più fatte andare via. Così, nel giro di pochi mesi, erano diventati tutti una grande famiglia.
- Grace, aiutami tu allora! –
- Lo sai che non posso farlo! Non cederà mai. E se non porterà te porterà o me o Logan, quindi, per il bene di tutti, vai con lei amore! –
La donna guardò i due con odio.
- Me la pagherete! –
- Oh, quante scene per niente! Forza Rob, andiamo! –
Strascicando i piedi, la donna uscì di casa, affiancata da quel nano saltellante che era la sua anima gemella. In questi anni erano state bene. Non c’era giorno che passava che non litigassero e che si lanciassero oggetti addosso. Poi arrivava a casa Logan che le prendeva in giro per la loro inutilità. Così le due si alleavano e torturavano Logan finché Grace non interveniva a riappacificare tutti. Erano una gran bella famiglia.
- Allora, gnomo, qual è la nostra prima tappa? –
- Te l’ho detto, devo andare da papà, alle Torri. –
Robyn mise in moto la macchina e partirono.
Arrivarono dopo un’ora e mezza, causa il traffico impossibile che c’era a quell’ora del mattino. Trovarono un posto in seconda fila e lasciarono lì la macchina.
- Dannazione, Robyn, siamo in ritardo! Sono quasi le 8:20! Papà aveva una riunione sta mattina! – esclamò correndo Desiree.
Attraversarono lo spiazzo che le separava dalla torre più alta ed entrarono. Robyn si stupiva ogni volta della grandezza di quel posto. Desiree degli idioti che ci lavoravano dentro. Non tutti, certo, ma quelli dei piani più alti proprio non li sopportava.
L’ascensore ci mise dieci minuti buoni ad arrivare al novantasettesimo piano. Quando uscirono, si diressero decise verso l’ufficio in fondo al corridoio.
Desiree non bussò neanche.
- Ciao papà! – esclamò.
- Oh, ciao piccola. Sei arrivata giusto in tempo, stavo quasi per andare a fare una riunione. Dimmi, cosa c’è? –
- Niente, mi chiedevo se potevi darmi i soldi che ti avevo prestato tre mesi fa. Mi servirebbero per fare un regalo ai bambini. –
- Ma certo, quant’era? –
- Non so, dammi la cifra che vuoi, fa lo stesso. –
Il padre tirò fuori l’assegno e lo compilò.
- Che giorno è oggi, Robyn? –
- È l’11, signor Phillips. L’11 settembre 2001. –
 L'ultima cosa che Desiree vide nella sua vita fu lo splendido sorriso di Robyn.
 

Fine.

Angolo dell’Autrice:
Questa storia è… finita. È strano vedere questa fine. Penso di esserne dispiaciuta. Molto.
Spero che sia piaciuta, questa storia, e che abbia donato un po’ di emozioni.
Baci, miei cari lettori,
Lily.





 

  
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