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Autore: lilly81    12/06/2007    24 recensioni
Brevi ed intensi racconti, capsule da mandare giù tutte d’un fiato, per narrare momenti qualunque della convivenza tra Bulma ed il principe dei saiyan. NUOVI AGGIORNAMENTI!
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bulma, Vegeta | Coppie: Bulma/Vegeta
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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“Convivendo in… capsule”

“Convivendo in… capsule

 

 

 

                                                              EPISODIO VIII        

 

 

 

La pelle era un secondo tessuto che i rovi artigliavano e strappavano via insieme ai brandelli di raso della camicetta, come cani famelici invasati di furore e di odio, come uno stupratore spuntato dal buio voglioso di arrivare al sodo, neanche avessero anima ed istinto nei loro rami adusti e spinosi.

Laddove le gambe e le braccia erano nude si abbeveravano direttamente al suo sangue con sadismo ulteriore.

Eppure in quella corsa forsennata rischiarata dai flebili raggi della luna erano un tocco carezzevole e quasi materno in confronto alla spaventosa minaccia che l’aveva presa di mira, poiché questa aveva gambe per incalzarla, braccia robuste per brandire una sega a motore, e sufficiente follia per insinuare il dubbio che quell’uomo, apparso innanzi all’unica casa che nella zona boschiva aveva le finestre rischiarate, avesse natura umana dietro la sua maschera di cuoio.

Bulma aveva il cuore che batteva non meno del pendolo di un metronomo posizionato sull’ultima incisione, lo sguardo atterrito orientato in un unico punto in avanti, né una destra né una sinistra nella quale guadagnare distanza, col buio che le incombeva dietro la schiena e la cognizione cruda e grottesca che tranciare i rovi con quell’attrezzo era per il persecutore come arrotare la lama di un coltello prima di allestire un banchetto a base di bistecche.

La donna non aveva neanche avuto il tempo di avvedersi del pericolo spuntato dal buio.

Era la morte che arriva come un ladro senza preavviso, in un giorno iniziato con una gita senza meta precisa purché lontana dai trambusti cittadini, e terminato a corto di benzina nel mezzo dei boschi e col sole prossimo al declino.

E se così poco vale la vita di una donna, mentre si incomincia a correre non si ha tempo di fare domande al proprio aguzzino e di sapere per cosa si muore, se mai esista una ragione più ovvia per cui trapassare quando sono altri a decidere il giorno, l’ora ed il come.

Il rumore della motosega, che affettava le urla della donna ed era insistente tanto da smorzare il forte boato seguito ad un fulmine, era una percezione sonora, ossessiva e molesta, come quella delle unghie strisciate su una lastra di ardesia.

Il corpo scorticato dai rami scheletrici e rotolato nel fango, ancor prima di essere scuoiato, era già carne da macello.

L’istinto di sopravvivenza è un’ancora a cui aggrapparsi, è l’ultima fatica e talvolta un fragile inganno: Bulma era certa che non ci sarebbe stato scampo, che inutile era la corsa e vano l’affanno.

Aveva tanta di quella tensione in corpo che l’unico modo per scrollarsene fu quello di muovere la mano a tentoni vicino ad un fianco e poi all’altro, alla ricerca di un attrezzo più efficace e diretto.

Ma giacché non trovava ciò di cui aveva bisogno, mentre la motosega si approssimava ad ultimare il massacro, si gettò in avanti, allungò il braccio e spense il televisore.

Restarono il fiato corto, il cuore in gola, e l’acquazzone scrosciante contro i vetri.

Stava lavorando sul divano col suo computer portatile ed aveva finito per farsi adescare da un vecchio film dell’orrore proiettato in seconda serata.

Contro la penombra realizzata dalle luci del giardino si stagliò il suo profilo inquieto e guardingo, che non perse tempo ad alzarsi e a rischiararsi il percorso fino alla camera da letto per colpa di quella tensione che le bolliva ancora nel sangue e che era certa si sarebbe sedimentata fino allo spuntar del giorno, perché la visione di certi film non è consigliabile prima di andare a coricarsi senza averli smaltiti in qualche modo, esattamente come non lo è per un abbondante pasto a cena.

Aprì la porta della stanza ed un fulmine le diede la visione istantanea dell’uomo che occupava il letto.

Con le braccia incrociate dietro la testa dava l’impressione di non essersi addormentato e che stesse prestando attenzione allo strofinio che i jeans producevano contro le gambe mentre la donna se ne disfaceva con un equilibrio goffo e barcollante.

Bulma si mosse ad afferrare il pigiama sotto al cuscino quando ai piedi del letto inciampò contro qualcosa di morbido e di vivo.

L’ansito che emise fece sussultare il saiyan in realtà addormentato che meccanicamente portò una mano contro la fronte e se la sorresse come avesse un cerchio doloroso alla testa, annaspando nel vuoto mentale dell’ultima mezz’ora di tempo.

 “Si può sapere come Bra è finita addormentata sullo scendiletto?” sibilò sotto voce, come il vento tagliente che spifferò tra le imposte e si ridusse ad un tocco carezzevole a contatto con le tendine.

Vegeta scattò seduto sul letto e si sporse incredulo per constatare la presenza della figlia.

Bulma si meravigliò di come una bimbetta di quasi due anni prendesse da sola certe iniziative, ma Vegeta, tornata vivida la memoria al dissiparsi della caligine intorno alle tempie, risaltò per un’espressione dapprima interdetta, poi rischiarata da un tenue bagliore di rincrescimento ed infine adombrata dalla maschera arcigna di sempre, pronta subito a rivendicare il suo posto neanche le altre fossero rughe che si concedeva tanto per mantenere elastica la pelle:

“Forse non dovevi toglierle le sbarre!” le rimandò sullo stesso tono.

“Era una culla, non un carcere…” l’abatjour che accese sul comodino mostrò la bambina rannicchiata a piedi nudi con un coniglio di pezza tra le mani dall’orecchio rattoppato.

Bulma conosceva bene la paura di Bra per i temporali e per qualsiasi cosa rintronasse in cielo ma non riusciva a spiegarsi perché non avesse svegliato il padre, né aveva voglia in quel momento, ad un passo dalle invitanti coperte, di analizzare i fatti avvenuti mezz’ora prima.

Vegeta aveva pensato fosse stato il vento a sospingere la porta, visto che dalla sua posizione supina non aveva scorto nessuno entrare.

Si era rigirato dall’altro lato, troppo addormentato per indagare oltre, fino a quando non aveva percepito dietro la schiena, oltre il materasso, una presenza che respirava ed attendeva in timoroso silenzio un suo cenno.

“Che diavolo vuoi, Bra?” aveva chiesto impastato e continuando ad offrirle con predeterminata noncuranza la schiena.

“Ho paùa io…” aveva mugugnato continuando a stringere il vecchio coniglio di pezza, che aveva avuto la fortuna di non finire nella pattumiera perché assolveva l’importante compito di conciliarla al sonno tutte le sere.

Trunks la prendeva amorevolmente in giro dicendo che quel coniglio era più somigliante ad una scimmia tanto era penzolante negli arti ed imbruttito.

Bulma allora lo rimbrottava con un’occhiataccia al primo segnale della piccola di allestire il teatrino  delle lacrime comode e pronte, prendeva ago e cotone, lei che non aveva mai cucito un bottone in vita sua ed avrebbe potuto comprare a sua figlia un’intera fabbrica di conigli di pezza, e lo rammendava al meglio, auspicando tra sé e sé, con un sorrisetto contraffatto, gusti più decenti e pretenziosi almeno nell’abbigliamento, quando sarebbe stata più grande.

Trunks concludeva dicendo che quel povero pupazzo aveva tante di quelle suture di colore diverso, a seconda della matassa di cotone che le capitava a tiro, da sembrare in ultima analisi un pappagallo tropicale.

L’uomo si era limitato ad aprire una palpebra:

“E di cosa?”

Otti..” tornò a mordicchiare l’orecchio rappezzato del coniglio.

“Non sono botti, sono soltanto tuoni ed io voglio dormire” si era lamentato stringendosi di più al cuscino e corrugando le sopracciglia contrariate fino ad unirle.

“Pure io…” aveva scalpitato in tono di supplica la bambina, tirando il lenzuolo come fosse la corda di un campanello che serviva a farlo mantenere sveglio.

La pioggia, battendo a raffica contro le imposte, era stata tagliata in due da un lampo ed aveva realizzato, attraverso le fessure dell’imposte, l’istantanea di una bimbetta dal pigiama bianco e le stelline rosse, con la capigliatura arruffata che seguiva la piega indomita di due codini sciolti.

Bra aveva sussultato al fragore del tuono ed aveva incominciato a battere i piedini nudi a terra e a frignare:

“Ti pego papi, paùa io sola!”.

Ma Vegeta non le aveva risposto e questa volta il suo silenzio non era stato intenzionale, né egoistico o infame, aveva smesso di sentirla, la sua vocina era divenuta un’eco in lontananza come la pioggia contro i vetri, catturata e distorta nel dolce intrigo del sonno.

Il saiyan non avrebbe mai creduto di potersi addormentare con quella lagna in sottofondo, aveva sempre pensato che il suo pianto nel cuore della notte avesse le stesse potenzialità dannose di una scoria radioattiva.

Per la prima volta ebbe la certezza che quel tappo di bambina non era così pericoloso, che poteva essere ignorato senza subire nessun attacco terroristico, e al risveglio quella constatazione gli fece provare per qualche secondo un insano godimento.

Alla povera Bra non era rimasto altro che tirare su col naso, dopo aver tentato invano di salire sul letto, mordicchiare l’orecchio del suo coniglio di stoffa, neanche fosse il fegato che rosicava per la sconfitta, e raggomitolarsi sullo scendiletto a righe rosse.

Meglio quel cantuccio che la sua stanzetta solitaria ed enorme.

Ma sarebbero arrivate le braccia materne a riscattarla, il principe dei saiyan non l’avrebbe mai avuta vinta così facilmente a discapito della cocca di casa.

Ed infatti Bulma non attese a prenderla in braccio, la dondolò quando diede segno di aprire gli occhi e la mise al suo posto rimboccando le coperte:

“Perché non la porti nella sua stanza?” fece l’uomo contrariato.

“Si risveglierebbe” sussultò Bra all’ennesimo tuono stringendo di più l’amico di pezza “non ho voglia di andare avanti ed indietro”.

“Ed allora vai tu a dormire con lei” ma Bulma aveva ancora nelle orecchie l’inquietante rumore della motosega.

Lo sapeva che quel film sarebbe stato indigesto quanto un’insalata di peperoni consumata prima di andare a letto.

Non riusciva a pensare a niente di diverso e a poco serviva convincersi che fosse soltanto uno stupido film.

Vegeta seguì senza capire i suoi movimenti, la vide andare dal lato suo, o meglio dal lato dove sarebbe dovuto essere visto che senza sapere come si era ritrovato ad occupare il centro del letto, scoprire le coperte e sistemarsi vicino a lui.

 “Vi siete messe d’accordo per cingermi d’assedio?” fiatò il saiyan e dovette farlo con moderazione per non svegliare la figlia e subire altri mugugni, ma la vena pulsante sulla tempia lasciava intendere sola la metà della rabbia che stava montando dentro.

Tornò a gettarsi all’indietro e guardò il soffitto perché gli suggerisse il punto più lontano della casa in cui passare il resto della notte:

“Voglio dormire vicino a te” si accucciò contro la sua spalla e le sue gambe furono percorse dall’ultimo fremito di freddo prima di intrecciarsi al calore dei suoi muscoli.

“Bra ha paura dei tuoni, tu quale altro problema avresti?” sputò sarcasmo con un’occhiata sbieca.

Bulma alle volte amava fare gli stessi capricci di sua figlia, petulante ed appiccicosa nella stessa misura.

“Stavo vedendo un film dell’orrore” spiegò sottovoce  e con una certa gravità “mi ha messo addosso una brutta sensazione” tracciò con un dito una scia invisibile sul torace nudo dell’uomo alla ricerca di una distrazione.

Al seguito di un lampo abbagliante immaginò di vedere la motosega tranciare in due la finestra e così spostò lo sguardo irrequieto sul profilo rassicurante del saiyan.

“E chi te lo ha prescritto?” le rimandò tagliante.

“Mi ha incuriosito, tutto qui” socchiuse gli occhi.

“I film sono solo stupide invenzioni” le disse in tono di rimprovero più che di conforto.

Lei sollevò il capo per argomentare meglio:

“Sì, ma questo è tratto da una storia vera, forse per questo mi ha inquietata di più. Un’intera famiglia scuoiava le sue vittime e ne realizzava orrendi cimeli come arredo della casa” pensò che parlarne avrebbe smorzato di più la tensione “quello più folle rincorreva come un indemoniato la povera ragazza che urlava con tutto il fiato che aveva in gola brandendo una sega a motore” fece tremare il braccio tanto era immedesimata nel racconto “ho spento, non ho resistito oltre… Non riesco a credere che la natura umana possa partorire crimini talmente atroci ed assurdi, per cosa poi? Togliamo pure la finzione cinematografica, che di certo sarà presente in buona dose, ma davvero possono esistere individui talmente spregevoli e malati?” Vegeta ascoltò assorto le sue parole che non pretendevano risposta, e mosse lo sguardo accigliato in direzione della finestra ad osservare la pioggia scrosciare gagliarda contro i vetri.

Possibile non si rendesse conto di quello che aveva appena detto?

Era folle, ingenua o viveva in un mondo a parte?

Vegeta si chiese come si sarebbe comportata se in risposta le avesse raccontato quello che aveva visto lui.

Certe urla non si dimenticano facilmente, lui le ricordava eccome, soprattutto se ascoltate nel silenzio pesante della notte, nell’atmosfera polverosa e tetra di un pianeta desolato, la cui terra esala il lezzo del sangue appena versato ed il vento lo mescola al fumo degli edifici diroccati.

Non si dimenticano se scandite dal ticchettio affrettato della scarpe sull’asfalto, se si dà vantaggio alla propria vittima soltanto per il gusto di una caccia.

Quella donna era caduta due volte ed altrettante si era rialzata per riprendere disperata la corsa, ma quando il gioco si era fatto seccante, si era ritrovata il suo persecutore davanti agli occhi.

Se avesse guardato una pietra avrebbe visto meno freddezza.

La morte non sempre arriva come un ladro senza preavviso, qualche volta ti dà il tempo di correre, di pregare e di inorridire.

Aveva due grandi occhi verdi e la pelle dello stesso colore, ma andava bene comunque.

Era stata trascinata con i capelli fino al luogo in cui si trovavano gli altri due compagni, era stata lasciata in vita per dimostrare di non aver preso una carcassa qualunque.

La donna piangente e straziata si era ritrovata accerchiata da tre uomini dalle lunghe code fulve, e in una lingua a loro sconosciuta aveva invocato pietà e misericordia.

Qualsiasi fosse l’idioma, loro avevano inteso la supplica.

Alla morte si parla in un’unica lingua.

Sarebbe stato meglio per lei se avessero avuta un’altra voglia, ma in quel momento avevano soltanto… fame.

“Ed ora di cosa hai paura?” chiese guardando un punto impreciso della stanza, mentre sotto al naso ritornò il profumo dei suoi capelli.

Lei si strinse di più e sorrise rassicurata:

“Di nulla quando sono vicino a te”.

Quella stessa espressione beata si dipinse sul volto paffuto della bambina, che lasciò l’orecchio del coniglio, emise un mormorio incomprensibile accompagnato da un adorabile sbadiglio e si strinse al braccio di suo padre.

Vegeta non osò turbare la quiete e frangere quella convinzione, seppellì il ricordo dell’inseguimento e del misfatto perpetrato di mano sua.

Anche tra due braccia immonde talvolta il sonno giunge gradito e la paura trova conforto.

 

 

FINE

 

 

 

Il film a cui assiste Bulma è un classico del cinema horror, “Non aprite quella porta”, datato 1974.

 

Per chi non le avesse già viste, andando nel mio account d’autore, potete trovare i links delle vignette che la bravissima Crazybulma ha realizzato ispirandosi a due miei racconti.

 

 

   
 
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