“Convivendo in… capsule”
EPISODIO
VIII
La pelle era un secondo tessuto che i rovi
artigliavano e strappavano via insieme ai brandelli di raso della camicetta,
come cani famelici invasati di furore e di odio, come uno stupratore spuntato
dal buio voglioso di arrivare al sodo, neanche avessero anima ed istinto nei
loro rami adusti e spinosi.
Laddove le gambe e le braccia erano nude si
abbeveravano direttamente al suo sangue con sadismo ulteriore.
Eppure in quella corsa forsennata rischiarata dai
flebili raggi della luna erano un tocco carezzevole e quasi materno in
confronto alla spaventosa minaccia che l’aveva presa di mira, poiché questa
aveva gambe per incalzarla, braccia robuste per brandire una sega a motore, e
sufficiente follia per insinuare il dubbio che quell’uomo, apparso innanzi
all’unica casa che nella zona boschiva aveva le finestre rischiarate, avesse
natura umana dietro la sua maschera di cuoio.
Bulma aveva il cuore che batteva non meno del
pendolo di un metronomo posizionato sull’ultima incisione, lo sguardo atterrito
orientato in un unico punto in avanti, né una destra né una sinistra nella
quale guadagnare distanza, col buio che le incombeva dietro la schiena e la
cognizione cruda e grottesca che tranciare i rovi con quell’attrezzo era per il
persecutore come arrotare la lama di un coltello prima di allestire un
banchetto a base di bistecche.
La donna non aveva neanche avuto il tempo di
avvedersi del pericolo spuntato dal buio.
Era la morte che arriva come un ladro senza
preavviso, in un giorno iniziato con una gita senza meta precisa purché lontana
dai trambusti cittadini, e terminato a corto di benzina nel mezzo dei boschi e
col sole prossimo al declino.
E se così poco vale la vita di una donna, mentre si
incomincia a correre non si ha tempo di fare domande al proprio aguzzino e di
sapere per cosa si muore, se mai esista una ragione più ovvia per cui
trapassare quando sono altri a decidere il giorno, l’ora ed il come.
Il rumore della motosega, che affettava le urla
della donna ed era insistente tanto da smorzare il forte boato seguito ad un
fulmine, era una percezione sonora, ossessiva e molesta, come quella delle
unghie strisciate su una lastra di ardesia.
Il corpo scorticato dai rami scheletrici e rotolato
nel fango, ancor prima di essere scuoiato, era già carne da macello.
L’istinto di sopravvivenza è un’ancora a cui
aggrapparsi, è l’ultima fatica e talvolta un fragile inganno: Bulma era certa
che non ci sarebbe stato scampo, che inutile era la corsa e vano l’affanno.
Aveva tanta di quella tensione in corpo che l’unico
modo per scrollarsene fu quello di muovere la mano a tentoni vicino ad un
fianco e poi all’altro, alla ricerca di un attrezzo più efficace e diretto.
Ma giacché non trovava ciò di cui aveva bisogno,
mentre la motosega si approssimava ad ultimare il massacro, si gettò in avanti,
allungò il braccio e spense il televisore.
Restarono il fiato corto, il cuore in gola, e
l’acquazzone scrosciante contro i vetri.
Stava lavorando sul divano col suo computer
portatile ed aveva finito per farsi adescare da un vecchio film dell’orrore
proiettato in seconda serata.
Contro la penombra realizzata dalle luci del
giardino si stagliò il suo profilo inquieto e guardingo, che non perse tempo ad
alzarsi e a rischiararsi il percorso fino alla camera da letto per colpa di
quella tensione che le bolliva ancora nel sangue e che era certa si sarebbe
sedimentata fino allo spuntar del giorno, perché la visione di certi film non è
consigliabile prima di andare a coricarsi senza averli smaltiti in qualche
modo, esattamente come non lo è per un abbondante pasto a cena.
Aprì la porta della stanza ed un fulmine le diede la
visione istantanea dell’uomo che occupava il letto.
Con le braccia incrociate dietro la testa dava
l’impressione di non essersi addormentato e che stesse prestando attenzione
allo strofinio che i jeans producevano contro le gambe mentre la donna se ne
disfaceva con un equilibrio goffo e barcollante.
Bulma si mosse ad afferrare il pigiama sotto al
cuscino quando ai piedi del letto inciampò contro qualcosa di morbido e di
vivo.
L’ansito che emise fece sussultare il saiyan in
realtà addormentato che meccanicamente portò una mano contro la fronte e se la
sorresse come avesse un cerchio doloroso alla testa, annaspando nel vuoto
mentale dell’ultima mezz’ora di tempo.
“Si può
sapere come Bra è finita addormentata sullo scendiletto?” sibilò sotto voce,
come il vento tagliente che spifferò tra le imposte e si ridusse ad un tocco
carezzevole a contatto con le tendine.
Vegeta scattò seduto sul letto e si sporse incredulo
per constatare la presenza della figlia.
Bulma si meravigliò di come una bimbetta di quasi
due anni prendesse da sola certe iniziative, ma Vegeta, tornata vivida la
memoria al dissiparsi della caligine intorno alle tempie, risaltò per
un’espressione dapprima interdetta, poi rischiarata da un tenue bagliore di
rincrescimento ed infine adombrata dalla maschera arcigna di sempre, pronta
subito a rivendicare il suo posto neanche le altre fossero rughe che si
concedeva tanto per mantenere elastica la pelle:
“Forse non dovevi toglierle le sbarre!” le rimandò
sullo stesso tono.
“Era una culla, non un carcere…” l’abatjour che
accese sul comodino mostrò la bambina rannicchiata a piedi nudi con un coniglio
di pezza tra le mani dall’orecchio rattoppato.
Bulma conosceva bene la paura di Bra per i temporali
e per qualsiasi cosa rintronasse in cielo ma non riusciva a spiegarsi perché
non avesse svegliato il padre, né aveva voglia in quel momento, ad un passo
dalle invitanti coperte, di analizzare i fatti avvenuti mezz’ora prima.
Vegeta aveva pensato fosse stato il vento a
sospingere la porta, visto che dalla sua posizione supina non aveva scorto
nessuno entrare.
Si era rigirato dall’altro lato, troppo addormentato
per indagare oltre, fino a quando non aveva percepito dietro la schiena, oltre
il materasso, una presenza che respirava ed attendeva in timoroso silenzio un
suo cenno.
“Che diavolo vuoi, Bra?” aveva chiesto impastato e
continuando ad offrirle con predeterminata noncuranza la schiena.
“Ho paùa io…” aveva mugugnato continuando a
stringere il vecchio coniglio di pezza, che aveva avuto la fortuna di non
finire nella pattumiera perché assolveva l’importante compito di conciliarla al
sonno tutte le sere.
Trunks la prendeva amorevolmente in giro dicendo che
quel coniglio era più somigliante ad una scimmia tanto era penzolante negli
arti ed imbruttito.
Bulma allora lo rimbrottava con un’occhiataccia al
primo segnale della piccola di allestire il teatrino delle lacrime comode e pronte, prendeva ago e cotone, lei che non
aveva mai cucito un bottone in vita sua ed avrebbe potuto comprare a sua figlia
un’intera fabbrica di conigli di pezza, e lo rammendava al meglio, auspicando
tra sé e sé, con un sorrisetto contraffatto, gusti più decenti e pretenziosi almeno
nell’abbigliamento, quando sarebbe stata più grande.
Trunks concludeva dicendo che quel povero pupazzo
aveva tante di quelle suture di colore diverso, a seconda della matassa di
cotone che le capitava a tiro, da sembrare in ultima analisi un pappagallo
tropicale.
L’uomo si era limitato ad aprire una palpebra:
“E di cosa?”
“Otti..” tornò a mordicchiare l’orecchio
rappezzato del coniglio.
“Non sono botti, sono soltanto tuoni ed io voglio
dormire” si era lamentato stringendosi di più al cuscino e corrugando le
sopracciglia contrariate fino ad unirle.
“Pure io…” aveva scalpitato in tono di supplica la
bambina, tirando il lenzuolo come fosse la corda di un campanello che serviva a
farlo mantenere sveglio.
La pioggia, battendo a raffica contro le imposte, era
stata tagliata in due da un lampo ed aveva realizzato, attraverso le fessure
dell’imposte, l’istantanea di una bimbetta dal pigiama bianco e le stelline
rosse, con la capigliatura arruffata che seguiva la piega indomita di due
codini sciolti.
Bra aveva sussultato al fragore del tuono ed aveva
incominciato a battere i piedini nudi a terra e a frignare:
“Ti pego papi, paùa io sola!”.
Ma Vegeta non le aveva risposto e questa volta il
suo silenzio non era stato intenzionale, né egoistico o infame, aveva smesso di
sentirla, la sua vocina era divenuta un’eco in lontananza come la pioggia
contro i vetri, catturata e distorta nel dolce intrigo del sonno.
Il saiyan non avrebbe mai creduto di potersi
addormentare con quella lagna in sottofondo, aveva sempre pensato che il suo
pianto nel cuore della notte avesse le stesse potenzialità dannose di una
scoria radioattiva.
Per la prima volta ebbe la certezza che quel tappo
di bambina non era così pericoloso, che poteva essere ignorato senza subire
nessun attacco terroristico, e al risveglio quella constatazione gli fece
provare per qualche secondo un insano godimento.
Alla povera Bra non era rimasto altro che tirare su
col naso, dopo aver tentato invano di salire sul letto, mordicchiare l’orecchio
del suo coniglio di stoffa, neanche fosse il fegato che rosicava per la
sconfitta, e raggomitolarsi sullo scendiletto a righe rosse.
Meglio quel cantuccio che la sua stanzetta solitaria
ed enorme.
Ma sarebbero arrivate le braccia materne a
riscattarla, il principe dei saiyan non l’avrebbe mai avuta vinta così
facilmente a discapito della cocca di casa.
Ed infatti Bulma non attese a prenderla in braccio,
la dondolò quando diede segno di aprire gli occhi e la mise al suo posto
rimboccando le coperte:
“Perché non la porti nella sua stanza?” fece l’uomo
contrariato.
“Si risveglierebbe” sussultò Bra all’ennesimo tuono
stringendo di più l’amico di pezza “non ho voglia di andare avanti ed
indietro”.
“Ed allora vai tu a dormire con lei” ma Bulma aveva
ancora nelle orecchie l’inquietante rumore della motosega.
Lo sapeva che quel film sarebbe stato indigesto
quanto un’insalata di peperoni consumata prima di andare a letto.
Non riusciva a pensare a niente di diverso e a poco
serviva convincersi che fosse soltanto uno stupido film.
Vegeta seguì senza capire i suoi movimenti, la vide
andare dal lato suo, o meglio dal lato dove sarebbe dovuto essere visto che
senza sapere come si era ritrovato ad occupare il centro del letto, scoprire le
coperte e sistemarsi vicino a lui.
“Vi siete
messe d’accordo per cingermi d’assedio?” fiatò il saiyan e dovette farlo con
moderazione per non svegliare la figlia e subire altri mugugni, ma la vena
pulsante sulla tempia lasciava intendere sola la metà della rabbia che stava
montando dentro.
Tornò a gettarsi all’indietro e guardò il soffitto
perché gli suggerisse il punto più lontano della casa in cui passare il resto
della notte:
“Voglio dormire vicino a te” si accucciò contro la
sua spalla e le sue gambe furono percorse dall’ultimo fremito di freddo prima
di intrecciarsi al calore dei suoi muscoli.
“Bra ha paura dei tuoni, tu quale altro problema
avresti?” sputò sarcasmo con un’occhiata sbieca.
Bulma alle volte amava fare gli stessi capricci di
sua figlia, petulante ed appiccicosa nella stessa misura.
“Stavo vedendo un film dell’orrore” spiegò
sottovoce e con una certa gravità “mi
ha messo addosso una brutta sensazione” tracciò con un dito una scia invisibile
sul torace nudo dell’uomo alla ricerca di una distrazione.
Al seguito di un lampo abbagliante immaginò di vedere
la motosega tranciare in due la finestra e così spostò lo sguardo irrequieto
sul profilo rassicurante del saiyan.
“E chi te lo ha prescritto?” le rimandò tagliante.
“Mi ha incuriosito, tutto qui” socchiuse gli occhi.
“I film sono solo stupide invenzioni” le disse in
tono di rimprovero più che di conforto.
Lei sollevò il capo per argomentare meglio:
“Sì, ma questo è tratto da una storia vera, forse
per questo mi ha inquietata di più. Un’intera famiglia scuoiava le sue vittime
e ne realizzava orrendi cimeli come arredo della casa” pensò che parlarne
avrebbe smorzato di più la tensione “quello più folle rincorreva come un
indemoniato la povera ragazza che urlava con tutto il fiato che aveva in gola
brandendo una sega a motore” fece tremare il braccio tanto era immedesimata nel
racconto “ho spento, non ho resistito oltre… Non riesco a credere che la natura
umana possa partorire crimini talmente atroci ed assurdi, per cosa poi?
Togliamo pure la finzione cinematografica, che di certo sarà presente in buona dose,
ma davvero possono esistere individui talmente spregevoli e malati?” Vegeta
ascoltò assorto le sue parole che non pretendevano risposta, e mosse lo sguardo
accigliato in direzione della finestra ad osservare la pioggia scrosciare
gagliarda contro i vetri.
Possibile non si rendesse conto di quello che aveva
appena detto?
Era folle, ingenua o viveva in un mondo a parte?
Vegeta si chiese come si sarebbe comportata se in
risposta le avesse raccontato quello che aveva visto lui.
Certe urla non si dimenticano facilmente, lui le
ricordava eccome, soprattutto se ascoltate nel silenzio pesante della notte,
nell’atmosfera polverosa e tetra di un pianeta desolato, la cui terra esala il
lezzo del sangue appena versato ed il vento lo mescola al fumo degli edifici diroccati.
Non si dimenticano se scandite dal ticchettio
affrettato della scarpe sull’asfalto, se si dà vantaggio alla propria vittima
soltanto per il gusto di una caccia.
Quella donna era caduta due volte ed altrettante si
era rialzata per riprendere disperata la corsa, ma quando il gioco si era fatto
seccante, si era ritrovata il suo persecutore davanti agli occhi.
Se avesse guardato una pietra avrebbe visto meno
freddezza.
La morte non sempre arriva come un ladro senza
preavviso, qualche volta ti dà il tempo di correre, di pregare e di inorridire.
Aveva due grandi occhi verdi e la pelle dello stesso
colore, ma andava bene comunque.
Era stata trascinata con i capelli fino al luogo in
cui si trovavano gli altri due compagni, era stata lasciata in vita per dimostrare
di non aver preso una carcassa qualunque.
La donna piangente e straziata si era ritrovata
accerchiata da tre uomini dalle lunghe code fulve, e in una lingua a loro
sconosciuta aveva invocato pietà e misericordia.
Qualsiasi fosse l’idioma, loro avevano inteso la
supplica.
Alla morte si parla in un’unica lingua.
Sarebbe stato meglio per lei se avessero avuta
un’altra voglia, ma in quel momento avevano soltanto… fame.
“Ed ora di cosa hai paura?” chiese guardando un
punto impreciso della stanza, mentre sotto al naso ritornò il profumo dei suoi
capelli.
Lei si strinse di più e sorrise rassicurata:
“Di nulla quando sono vicino a te”.
Quella stessa espressione beata si dipinse sul volto
paffuto della bambina, che lasciò l’orecchio del coniglio, emise un mormorio
incomprensibile accompagnato da un adorabile sbadiglio e si strinse al braccio
di suo padre.
Vegeta non osò turbare la quiete e frangere quella
convinzione, seppellì il ricordo dell’inseguimento e del misfatto perpetrato di
mano sua.
Anche tra due braccia immonde talvolta il sonno
giunge gradito e la paura trova conforto.
FINE
Il film a cui assiste Bulma è un classico del cinema horror, “Non aprite quella porta”, datato 1974.
Per
chi non le avesse già viste, andando nel mio account d’autore, potete trovare i
links delle vignette che la bravissima Crazybulma ha realizzato ispirandosi a
due miei racconti.