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Autore: elecam28    19/06/2007    6 recensioni
"Dove sono Bartemius, Regulus, Aberforth, Nicholas e Tom,
il rigido, il secondogenito, l’originale, il dotto e l’arrogante?
Tutti, tutti, dormono sulla collina."
Fanfic liberamente ispirata al capolavoro di Edgar Lee Masters “Antologia di Spoon River”, una rivisitazione personale in chiave HarryPotteriana. Da collocarsi anni dopo la sconfitta di Voldemort. E Harry? Vedrete alla fine.
Genere: Generale, Malinconico, Poesia | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Harry Potter, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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Rodolphus Lestrange

 

 

Sono convinto, sono sicuro

di essere il solo a non amare la Collina.

Persino la mia consorte,

nella sua folle e irreale pazzia,

apprezza quest’erba e questo silenzio.

Forse sente meglio le risa nel suo animo, chi può dirlo.

Ad ogni modo, è me che state osservando,

e di me vi parlerò.

Non che mi interessi, ma meglio far capire a voi,

sciocchi e stupidi babbani e maghi,

che a chi mi riposa affianco.

Io non amo la Collina.

Avrei voluto terra fredda e polvere,

per i resti del mio misero cadavere dilaniato dai colpi e dai morsi delle furie.
Lui mi portò qui.

Lui, che per voto e vita era mio nemico.

Potrei odiare la Collina se la sua fosse stata ipocrisia,

ma non ho detto che l’odio.

Ho detto, non l’amo.

Perché la sua non fu pietà, ma indomita e innata compassione.

E potevo forse oppormi io, putrido cadavere che marcisce sotto la pioggia?

E dunque, eccomi,

lapide silenziosa all’uomo tra lapidi che come me tacciono.

E’ un cliché banale,

la mia storia.

Figlio di carne che appartiene alle tenebre,

promesso e venduto alle stesse.

Serpeverde, come era naturale fossi.

Assassino.

Bugiardo.

Torturatore.

Mostro.

Io, io, ancora e sempre io.

Una bestia.

Non sentite il mio tono, ma lo dico sereno,

con orgoglio, persino.

Troppi coloro che rinnegarono il mio Signore,

quando cadde.

Io allora non sapevo che era una pazzia, il seguirlo.

Non sapevo che colui che sopravvisse avrebbe trionfato, poi.

Sapevo solo che la mia anima era marchiata come la mia pelle,

e tenni fede al mio patto.

Col sangue, con la pazzia.

La prigionia devastò la mente di colei che per occulta legge magica fui costretto a sposare,

figlia di sangue puro, come me,

figlia di nomi votati alla morte e di cuori aridi e vuoti.

Come me.

Così simili e così distanti,

uniti da un legame che di vero non aveva nulla.

Affetto, complicità, attrazione.

Sognate, se credete vi fossero.

Un nome,

un ideale.

Null’altro.

Azkaban ci unì più del matrimonio.

Lei perse se stessa, tra quei gemiti devastati.

Io resistetti.

Non sapevo come né perchè,

ma quando tornammo,

quando il nostro Signore ci riprese con sé,

lo capii.

Volevo il pulsare delle vene farsi sempre più debole sotto le dita,

volevo sentire le grida disperate degli amanti separati e uccisi,

volevo percepire l’odore acre e tetro del disfarsi delle carni,

volevo vedere le iridi farsi chiare, sparire nel bianco e annullarsi in se stesse,

volevo gustare il sapore del sangue.

Sangue, sangue nella bocca e sulle labbra fiere.

Sangue sulle mani, sulle mie mani pallide.

Volevo la morte,

volevo l’Olimpo.

E il mio Signore me li diede,

e la passione mi bruciò le vene,

inarrestabile, insopprimibile.

Uccisi.

Ridendo, uccisi.

Mia moglie si tolse lo sfizio di demolire una delle ultime colonne portanti della Speranza,

uccidendo il sangue cattivo e traditore,

cavandoselo dalla mente e dal cuore come uno sputo amaro.

E io,

uccisi a mia volta.

Tra maghi e babbani,

col sole e con la luna.

si venne poi alla battaglia finale,

e quando iniziò già vidi un bagliore ignoto, un brillare furente che mi disorientò.

Poi, quando spezzai altre vite,

me lo rividi davanti.

E pensai che no,

c’era uno sbaglio,

perché come poteva la Speranza avere negli occhi l’essenza stessa del tormento?

Come poteva la nostra guerra risultare vana?

E come potevamo noi perdere,

noi,

burattini dai fili spezzati,

noi,

bambole riposte in credenze laccate per poi cadere a terra, in frantumi,

la cui intera vita era il Male?

Non avevamo altro.

Non avevo altro.

La mia vita, tutto ciò in cui disperatamente e follemente credevo,

cadde in pezzi,

cadde e svanì nella terra pregna di morte.

Poiché nessuno poté vincere il Fato,

e il Fato,

delicato e furente dio delle vite,

mi guardava,

ci guardava,

da dietro le Sue spalle.

Con lui.

Non con me.

Quel bagliore che mi accecò,

poi mi uccise.

In un cenno,

il mio cuore cessò di battere.

Non ho e non voglio ricordi di quell’istante.

A volte sento ancora il fragore dello scontro,

le grida,

i pianti,

e la Sua voce.

Oh, ma la sua voce la sento sempre.

Vi sarà già stato detto che viene ogni giorno.

Ci parla.

Non ha altri, ormai.

Rammento che io non ero dissimile,

quando ancora frequentavo Hogwarts.

Non avevo nessuno.

Mio fratello Rabastan,

del resto,

era nessuno.

E come il nessuno morì infine.

Egli non mi parlò né mi aiutò mai,

in quei lontani sette anni.

Sbagliai e vinsi da solo,

bozzolo non ignaro del suo destino di falena.

Intravidi in Silente il nemico,

e nei Potter il mezzo,

ma non capì la fine.

Non le credetti quando si presentò ad Halloween,

anni e anni fa.

Infante, la Speranza vinse una prima volta.

Nessuno dette peso a questa cruda realtà.

Mitigammo e sminuimmo la sua forza,

la sua leggendaria fortuna.

Fortuna?

Sorrido, anche se non mi vedete.

La fortuna non da potere.

E Lui di potere era il veicolo,

la fonte e la sorgente.

Così quando ripenso a che mi uccise,

ancora invidio quella forza.

L’odio è ormai scemato, col tempo.

Ancora credo che la fine fu sbagliata,

sapete.

Il Male non nasce per contrapporsi al Bene,

benché sia questo che insegnano ai figli.

Nasce per il potere,

per l’assoluta e meravigliosa sensazione che da il sentirsi superiori.

Che il Bene voglia lo stesso per altri fini è la lotta,

ma nessuno è nel giusto o nello sbagliato.

Due forze,

due Poteri, se volete.

Perdemmo noi,

come sempre avviene nelle storie narrate dinanzi al fuoco.

Dite, vinse mai il cattivo,

uccidendo l’eroe?

Così noi cademmo.

Ma credete forse che loro vinsero?

Nessuno rimase!

Pochi, lontani dalla battaglia,

e di quella, solo Lui.

Come capite, nessuno vinse realmente.

Solo perdenti sulla terra Madre.

Curioso come la bandiera di chi si arrende sia bianca.

Io mi sono ormai arreso all’evidenza

– non ce l’avremmo mai potuta fare –, 

eppur il mio animo è nero.

E la Speranza perse, dicevamo.

E pensò a noi,

ricordi sbiaditi di vite vuote,

ci diede lapidi e incisioni e ore del suo tempo.

Ci diede se stesso, che lo volessimo o meno.

Io ancora non lo voglio,

ma non posso oppormi.

Ancora lui si da a me,

instancabilmente.

Parla di cose che non hanno senso,

di ricordi che condivido solo per conoscenze,

e di sentimenti che non provo.

Io non amo la Collina.

Amavo il buio, la tenebra, il dolore inferto.

Amavo incutere terrore.

No, io non amo la Speranza come mi chi precede,

e chi mi viene dopo.

Ma ora,

passati tanti anni e tante ore,

trascorse così tante stagioni e piogge,

e momenti per pensare,

la rispetto.

E anch’io ascolto il silenzio dei fili d’erba.

  
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