Crossover
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Autore: Jade MacGrath    20/06/2007    1 recensioni
[Crossover Battlestar Galactica/Stargate SG-1/Stargate Atlantis] [incompleta]Quando il capitano Kara Thrace si è diretta verso l'occhio di quella tempesta spaziale, aveva finalmente compreso che Leoben e l'oracolo avevano ragione: il suo destino l'attendeva dall'altra parte. Ma non aveva idea che includesse un anello di metallo chiamato Stargate, la città di Atlantis, e una guerra per la salvezza di due galassie...
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Telefilm
Note: Cross-over, What if? (E se ...) | Avvertimenti: nessuno
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Dopo un mese e mezzo, Kara non era più vicina a scoprire novità sugli Ori o sull’arma di Merlino di quanto fosse all’inizio della sua ricerca. Ed era frustrante da morire, come il non essere riuscita a trovare Castiana e Sahal, dove l’arma di Merlino probabilmente era nascosta, nonostante tutte le pronunce che lei e Weir erano riuscite a inventarsi.

Se Carson non le avesse dato l’ok per viaggiare con lo Stargate, con ogni probabilità sarebbe impazzita. Almeno con un P-90 in mano sapeva cosa fare. Fare ricerche era il pane di Jackson, non il suo... l’unico lato positivo era che aveva scoperto un sacco di cose interessanti su Kobol. Era stato uno dei primi avamposti ad essere colonizzati, ed era stata la scienza Antica a renderlo abitabile visto che in principio era solo una landa sterile e desolata, come diceva anche la sua religione. Aveva avuto la sua versione di Atlantis, anche se più in piccolo, e fino alla nascita degli insediamenti umani era stata l’unico segno di civiltà nel pianeta. Attraverso lo Stargate si tenevano contatti con la Terra e gli altri insediamenti, cosa che non era cambiata quando gli altri Antichi avevano deciso di andarsene nella galassia di Pegaso. Durante la guerra con i Wraith, Kobol aveva inviato scienziati, navi e soldati, e aveva dato asilo agli Antichi che non avevano voluto cercare rifugio sulla Terra. Aveva visto anche alcune delle ultime immagini degli Antichi che vivevano su Kobol. Hedda e Athia, due scienziate. Marin, una guaritrice. Orin, comandante delle forze armate. Un’immagine però l’aveva molto sorpresa, quella su una studiosa di storia che da Atlantis era andata a vivere su Kobol durante l’assedio dei Wraith alla città.

Pythia.

L’autrice dei Rotoli Sacri. Colei che aveva trascritto il viaggio della Tredicesima Tribù da Kobol alla Terra. Tutti ritenevano Pythia un oracolo che era vissuto nelle Colonie ai tempi della loro scoperta e colonizzazione, ma a quanto pare non lo era. Il suo file diceva anche che era affetta da una malattia degenerativa del sistema nervoso. Contando l’aspettativa di vita degli Antichi e le loro tecnologie mediche, doveva comunque aver vissuto a lungo. E poteva benissimo essere ascesa, prima, dopo o durante l’esodo, portando in seguito nelle Colonie il resoconto romanzato del suo viaggio… Nessuno, a parte Pythia in persona, poteva rispondere a quella domanda. E con ogni probabilità, non l’avrebbe mai fatto, accidenti agli Antichi e alla loro regola di non interferenza.

I rapporti che doveva fare al comando Stargate erano la parte che più odiava del lavoro. Dire a Landry ogni settimana che non era arrivata a capo di niente. Aveva la conoscenza, sapeva di fare le domande giuste… ma non arrivava lo stesso da nessuna parte. L’unica era aspettare Jackson, e sperare che lui sbloccasse la situazione. Era stato anche l’ordine di Landry, dopo aver visto l’aria stressata di Kara all’ultima comunicazione attraverso lo Stargate. Kara si sarebbe ammazzata piuttosto che apparire debole, ma ormai conosceva quella ragazza e sapeva che quando aveva una faccia del genere la crisi nervosa era alle porte. Sollevata da quell’incarico, Kara si trovò a dover scegliere se tornarsene sulla Terra, o restare lì fino a quando Jackson non si fosse ripreso e fosse venuto con la Odyssey assieme alla SG-1.

Decise di rimanere. E di affogare il senso di inadeguatezza che stava provando passando lo Stargate e andando in giro per la galassia. Weir era stata così gentile da inserirla in una delle squadre SGA, come lì definivano i team che andavano in esplorazione, ma le missioni migliori erano quelle in cui si accodava alla prima squadra, quella di John, McKay, Teyla e Ronon.

Il rapporto con Sheppard era diventato ancora più stretto. Kara non riusciva a credere a quanto realmente fossero simili, a partire dagli occhi, della stessa identica sfumatura di verde, un colore piuttosto raro da dove veniva Kara (che non lo aveva mai visto a parte che negli occhi dei membri della sua famiglia paterna). Entrambi erano piloti molto abili e molto indisciplinati, entrambi erano considerati teste calde, entrambi possedevano un personale codice di condotta che li aveva portati a disubbidire a ordini di superiori perché non li ritenevano ‘giusti’. Sheppard era finito in corte marziale una volta, ma anche se era stato assolto gli era rimasta una nota di demerito permanente nel fascicolo. Kara era stata una frequentatrice assidua della galera quando serviva nella Flotta Coloniale, e aveva una lista di richiami grossa quanto un romanzo di Tolstoj. John adorava la velocità, e Kara gli aveva raccontato delle multe che aveva collezionato sulla Terra, oltre a avergli mostrato una foto della sua moto. Kara si era sposata per le ragioni sbagliate, e anche lui. John aveva divorziato… e Kara dopo due anni si considerava  libera allo stesso modo. Tutti e due adoravano il gelato alla crema, e odiavano qualsiasi cosa potesse essere considerata cibo sano.

Ed entrambi amavano Atlantis. John di più, ovviamente, per via della sua maggiore permanenza nella città, ma anche Kara col tempo aveva iniziato a scorgere le piccole cose. Rumori, luci, l’acqua alla temperatura perfetta quando faceva la doccia al mattino… lei si prendeva cura di loro, come loro si prendevano cura di lei, riparando i suoi componenti e tenendola al sicuro dai suoi nemici.

Ovviamente non parlavano con nessuno di questo loro modo di vedere la città. Nessuno avrebbe capito esattamente cosa sentivano, o più semplicemente li avrebbero presi per matti. Rodney poi era sempre pronto a prenderli in giro ogni qualvolta non riuscivano a compiere qualche azione che necessitava un’interazione con la città. Non gli pareva vero di poter sfottere i due col gene più potente, lui che aveva dovuto ottenerlo con una terapia genica.

Alla sera poi, ogni singola volta, Rodney si trovava ad affrontare una doccia gelida e le porte rifiutavano di lasciarlo entrare o uscire, ma continuava a incolpare il caso e il sistema idraulico vecchio di diecimila anni. John e Kara in quei casi facevano del loro meglio per non scoppiare a ridere in sua presenza, e mandavano un silenzioso ringraziamento alla loro alleata.

Poi un giorno Carson andò trafelato da Elizabeth stringendo un foglio con i risultati delle analisi genetiche di Kara. Dopo aver appurato che aveva già il gene, Carson aveva deciso di farle un’analisi genetica comunque per vedere se c’erano differenze nell’evoluzione tra i Coloniali e i terrestri. Non era un’analisi prioritaria, e quindi si era preso tutto il suo tempo per eseguirla, senza contare le varie emergenze mediche che aveva dovuto affrontare con Sheppard, il quale ormai aveva un letto con letteralmente il suo nome sopra in infermeria, e la stessa Kara, sua degna compare. Quando i risultati erano arrivati dal laboratorio, non era per niente sorpreso. Erano perfettamente nella norma: Kara Thrace era umana al cento per cento, con tutti i pro e i contro della cosa.

Quello che gli fece sgranare gli occhi e spalancare la bocca, capitò per un errore di un suo collaboratore, che battendo un’errata combinazione di tasti soprappensiero avviò un confronto dell’esame genetico di Kara contro il database della spedizione, invece di archiviarlo.

Cercò di interrompere il raffronto, ma quando stava per riuscirci il programma si fermò da solo: aveva trovato un riscontro.

Subito andò a informare Beckett dell’errore, e rassicurato il giovane ricercatore il medico andò a vedere che cosa fosse successo. Quando guardò lo schermo del computer, non voleva crederci. Stampò una copia, e corse da Weir.

Elizabeth lesse il foglio con un sopracciglio alzato, e alla fine lo guardò in faccia. Era più incredula di lui.

“Ma com’è possibile?”

“Infatti. Non dovrebbe essere possibile! Rifarò gli esami a entrambi, ovviamente, ma se il risultato non cambia…”

“Ce ne occuperemo in quel caso.”

Elizabeth sperava in un errore. Altrimenti, non aveva idea di cosa fare. Come diavolo avrebbe fatto a spiegare al maggiore Thrace e al colonnello Sheppard che in base alle loro analisi genetiche, loro due erano parenti?

Ad ogni modo, né il maggiore né il colonnello si trovavano ad Atlantis in quel momento. John era fuori con la sua squadra, e Kara aveva sostituito Lorne, malato, a capo della sua. Entrambi avevano il ritorno previsto da lì a tre giorni, tempo sufficiente a far rientrare l’allarme… o per far preparare a Carson un discorso su come quella condizione fosse umanamente possibile.

 

Ma Kara, il terzo giorno, non tornò. Sheppard ritornò puntuale, con delle storie interessanti sul nuovo insediamento umano che avevano scoperto, ma quando chiese di Kara, che sarebbe dovuta rientrare un paio d’ore prima di lui, nessuno gli riuscì a dire niente.

Prima che McKay se la filasse, disse a Weir che avrebbero fatto un controllo sul pianeta dove Kara sarebbe dovuta essere, e riattraversarono lo stargate. Quello che videro non era per niente confortante: i Wraith avevano distrutto il villaggio e catturato tutta la popolazione. Se riuscirono a scoprire che Kara e la sua squadra erano ancora vivi e prigionieri nella nave alveare, fu solo perché sotto delle macerie trovarono un superstite che per caso aveva assistito alla loro cattura. Nonostante i soccorsi, l’uomo non sopravvisse fino ad arrivare al Jumper, e dopo aver seppellito la salma contattarono Atlantis con le novità. Subito misero in allerta i loro alleati, e nel giro di un paio d’ore l’ambasciatore Gareth Valorum di Varenia e Ladon Radim dei Genii vennero a parlare con Weir. I due, che tempo addietro avevano proprio firmato ad Atlantis un patto di non aggressione, acconsentirono a utilizzare la loro rete di informatori per cercare di scoprire il fato della squadra, ma era comunque un’operazione che avrebbe richiesto molto tempo.

Non avevano tenuto conto però di una cosa: quanto realmente Kara prendesse male l’essere imprigionata in una cella in mano ad una razza nemica. Se lo era ripromesso in quel letto nell’ospedale militare di Colorado Springs, appena ritornata negli Stati Uniti: nessuno, mai più, l’avrebbe tenuta prigioniera contro la sua volontà. Non importava se Cylon, umano, o in quel caso, Wraith. Sarebbe fuggita, in un modo o nell’altro.

La prima volta riuscì a fuggire con alcuni membri del team, e a provocare alcuni piccoli sabotaggi al generatore di energia prima di essere catturata. I due soldati che erano con lei erano stati uccisi, ma lei era stata risparmiata. Se l’era cavata con varie botte e contusioni, ma non era niente che non potesse gestire.

La seconda volta, uccise il suo carceriere. Quando la ripresero, quello che sembrava il capo l’afferrò per la gola e la spinse contro un muro della nave. Mise l’altra mano sopra il cuore di Kara, e iniziò a nutrirsi di lei. Kara non riusciva a respirare, era paralizzata dal dolore più intenso che avesse mai provato nella sua vita. Poteva sentire l’energia lasciare il suo corpo e andare ad alimentare il Wraith, sempre più soddisfatto delle urla di dolore e del terrore crescente che Kara provava. Quando la lasciò andare Kara cadde sul pavimento come un sacco vuoto. Il Wraith le disse che le aveva levato solo un paio di anni, poi disse alle guardie di portarla nell’ ‘altra’ cella, per farle vedere che sarebbe successo se ci avesse provato di nuovo.

Kara si sentì trascinare via per le braccia. Non aveva la forza di opporsi, vedeva tutto appannato. Due anni di vita… andati così. Due anni…

Venne scaraventata dentro una cella che non era quella di prima, e poi le guardie se ne andarono. Con fatica Kara si girò sulla schiena e chiuse gli occhi, respirando ancora affannosamente. Doveva recuperare in fretta. Doveva…

Dopo un po’ di tempo, smise di vedere tutto sfocato. E si accorse di non essere da sola. Sulle prime pensò ad un’allucinazione, perché quello che vedeva non aveva senso.

Poi sentì quella voce, e il suo cuore mancò un colpo.

“Ci incontriamo di nuovo, Kara Thrace.”

Seduto a terra all’altro capo della cella, pesto e sanguinante, c’era Leoben.

 

Le spie Genii, sempre efficienti, comunicarono a Ladon Radim che una nave Wraith aveva subito vari sabotaggi dall’interno nell’ultimo mese, e che era scesa varie volte su un pianeta per le riparazioni. Non era niente di preciso, e non era sicuro di voler comunicare la cosa ad Atlantis, ma se il maggiore Thrace gli era stata descritta esattamente c’era una possibilità che quegli atti di sabotaggio potessero essere stati opera sua.

Weir e Sheppard, scoprì, condividevano la sua opinione. Richiesero subito le coordinate di quel pianeta in modo da poter inviare la Daedalus con una missione di soccorso, e fu un’informazione che Ladon fu lieto di produrre.

Elizabeth non provò nemmeno ad impedire a John di partecipare alla missione. Nel mese passato a cercare Kara, aveva scoperto quell’assurdo legame di parentela tra di loro. Carson aveva confermato il risultato del primo esame, e questo aveva solo spinto Sheppard a cercare Kara con più foga. Quando si era trattato di spedire quei videomessaggi alle famiglie, lui non aveva mandato niente. A chi avrebbe dovuto mandarlo? I suoi amici erano morti a Kabul. Sua madre era morta che era adolescente. Durante la Corte Marziale, suo padre, militare di carriera, lo aveva in pratica disconosciuto da figlio. La sua ex moglie era fuori discussione.

Certo, aveva la sua nuova vita, i suoi nuovi amici, ma non poteva fare a meno di invidiarli, alle volte, per quello che avevano sulla Terra. O almeno era così fino a quando non aveva letto quel pezzo di carta che Carson gli aveva dato al cospetto di Elizabeth. Non aveva ascoltato nessuna delle teorie di Carson su come lui e Kara potessero essere imparentati. Quello che gli importava era trovare Kara, e dirglielo. Tutto il resto poteva aspettare.

 

Kara intanto, nel suo angolo della cella, stava facendo i conti con la sua parte di fatti incredibili.

Leoben, aveva scoperto, non era da solo. Assieme a lui c’erano anche Boomer, e una Numero Sei che chiamava Sarah. E tutti portavano i segni di una feroce tortura, soprattutto Sarah. Leoben spiegò che era impazzita a causa di tutto quello che i Wraith le avevano fatto. C’era voluto un po’ per decifrare i deliri sconnessi della donna, ma alla fine Kara capì che come O’Neil la sua testa era finita in uno di quegli affari degli Antichi, scaricando la loro intera conoscenza nel suo cervello, e sopravvivendo per raccontarlo. I Wraith l’avevano capito, ed era quello che volevano tirarle fuori dalla testa, in un modo o nell’altro.

Leoben veniva usato come cavia per qualche esperimento medico, e aveva contratto un virus che stava corrodendo i suoi organi interni, e si stava propagando anche sulla pelle. Su Boomer invece sperimentavano quante volte potevano nutrirsi da lei, prima di ucciderla.

Era surreale, ma si sentiva spiacente per loro. Nessuno, nemmeno i cylon, meritavano di essere torturati a quel modo dai Wraith.

Fu per questo che, quando John venne a liberare lei e gli altri, non disse niente e li portò ad Atlantis. Non aveva idea di cosa avrebbe fatto di loro, ma almeno non sarebbero stati in mano a quelli. Non lo faceva per Leoben, che una volta l’aveva tenuta segregata alla stessa maniera, o per Sarah, sepolta sotto strati di psicosi. Guardava Boomer, e vedeva Sharon, la sua Sharon. La madre di Hera e la moglie di Helo. Athena. La guardava, e sentiva nostalgia, come quando aveva visto le Dodici Colonie in quella rappresentazione olografica. E qualcosa di simile alla pietà per il suo nemico.

Starbuck non avrebbe mai fatto una cosa del genere. Ma Kara non era Starbuck. Non più.

 

***

 

Kara non capiva perché John non l’avesse lasciata un secondo da quando era ritornata ad Atlantis. Fin da quando era stata ricoverata in infermeria con gli altri – e con i cylon – John le era sempre rimasto accanto. Erano amici, d’accordo, ma non a questo punto. C’era qualcosa che le sfuggiva, e appena si sentì meglio andò da Weir. Elizabeth la fece sedere, e le spiegò dell’esame genetico.

Kara pensò che non avrebbe potuto sentirsi più paralizzata nemmeno se le avessero iniettato qualcosa in quel momento.

“Io e John siamo… cosa?!”

“Avete un grado di parentela ovviamente lontano, ma resta il fatto che c’è… e considerata la storia della tua gente, il fatto che ve ne siete andati da Kobol duemila anni dopo la tribù che è venuta sulla Terra, è una cosa incredibile. Beckett ti spiegherà nei dettagli, ma credo che ora sia il caso di parlare con John. È stato molto preoccupato per te.”

“Posso capirlo…” mormorò Kara, ricordando i discorsi che avevano fatto sulle cose che avevano in comune, che si applicavano anche alla loro sfortuna con i rapporti famigliari. Weir l’aveva lasciata andare poco dopo, e Kara era subito andata alla ricerca di John. Prima la famiglia, ai Cylon avrebbe pensato poi. Non erano comunque in condizione di nuocere a nessuno, in quel momento.

 

John era al balcone in cui di solito si incontrava con Weir e guardava l’oceano. Kara lo raggiunse e si appoggiò alla balaustra.

“Ehi.”

“Ehi.”

“Weir mi ha detto delle analisi genetiche.”

John si voltò a guardarla “Cosa ne pensi?”

“Che per quanto folle possa suonare, ha un suo senso. Non era Atlantis, eravamo noi. O se lo era…”

“…aveva già capito.”

“Esattamente.”

“Ma questo dove ci lascia, ora? Siamo parenti, d’accordo, ma… che genere di parenti?”

“Cugini, direi. Almeno credo. Carson che dice?”

“Carson ne sa quanto noi…”

“Sì, ma è un genetista, è il suo lavoro, se non lo sa lui…”

“Cugini mi sta bene. Non ho mai avuto una cugina.”

“Beh, neanch’io ho mai avuto un cugino. Sarà interessante.”

“Lo sai che significa che posso mettere bocca in tutto quello che fai e non potrai nemmeno impedirmelo?”

“Vale anche per me, John, quindi sta attento!”

Kara si voltò e si mise a guardare l’oceano con suo cugino, cercando di mettere ordine nella sua testa. Inutile… ogni volta che le capitava qualcosa di importante, finiva sempre per ripensare a quella tempesta. Da quando l’aveva passata aveva trovato una nuova famiglia, amici, un luogo a cui finalmente sentiva di appartenere… e l’unico consanguineo rimastole nella galassia.

Ma Kara non riusciva più a tacere. Le sarebbe piaciuto prolungare quel momento, ma doveva dire loro dei tre cylon.

John conosceva solo i Replicanti, quindi non capiva come avesse fatto a non accorgersi della differenza, visto che anche i Cylon erano macchine. E non capiva perché Kara li avesse portati lì… non dopo tutto quello che aveva raccontato di loro.

“Non lo so. Ma una di loro ha infilato la testa per sbaglio in uno di quei succhiatesta degli Antichi, come li definisce O’Neil… non solo ha retto la forza, ma da quanto ho capito aveva perfino iniziato a usare le nuove informazioni prima che venissero catturati. Nessuno conosce la portata di quel database… neanche O’Neil, e lui lo ha avuto in testa due volte.”

“È quasi morto, quelle due volte.”

“Ma Sarah no. Probabilmente proprio perché è una Cylon. Forse, se riusciamo a farla stare meglio, potremo scoprire molte altre cose sugli Antichi. E poi… e poi non augurerei quel genere di tortura a nessuno, John” disse Kara, tirando in basso il collo della sua maglietta e facendogli vedere la medicazione che nascondeva la ferita che le aveva inferto il Wraith quando si era nutrito da lei.

John guardò la medicazione, e poi guardò Kara “Non immagino nemmeno cosa devi avere sentito.”

“Meglio così. È un incubo che non mi sento di voler condividere” disse rimettendo a posto la maglietta. Riportò la conversazione sui Wraith, e i due andarono subito da Elizabeth. Anche la donna si dimostrò molto confusa dalle azioni di Kara, ma comprese il suo interesse sul modello Numero Sei.

“Ci sono settori e apparecchiature qui che vanno oltre la nostra immaginazione. Se lei ha la conoscenza degli Antichi, può esserci molto utile.”

“Sempre che si riesca a curarla” disse Kara. “Durante la prigionia diceva solo cose senza senso. Aveva i suoi momenti di lucidità, ma poca cosa. Leoben si occupava di lei.”

“Che puoi dirci di Leoben?”

Kara abbassò lo sguardo. Per un istante la cella dov’era stata rinchiusa in Iraq e l’appartamento di New Caprica si sovrapposero nella sua testa, ma si concentrò sul secondo pensiero e iniziò, per l’ennesima volta, a parlare di quel cylon.

“Leoben… che dire di Leoben... È molto intelligente. Un bugiardo e un manipolatore, il migliore che abbiate mai visto. Ma non mente e basta, sarebbe troppo semplice. Mischia bugie e verità. E la sua reale agenda non si capisce mai, fino a quando non è troppo tardi. La prima volta che l’ho incontrato mi ha fatto credere di aver nascosto una bomba nucleare in una nave della flotta. Mentiva. La sua agenda, in quel caso, ero io. Voleva entrarmi nella testa, farmi vedere le cose a modo suo. Quando hanno invaso New Caprica mi è venuto a cercare. Per quattro mesi sono stata sua prigioniera, e li ha passati a cercare di convincermi che mi amava, che la sua religione era l’unica religione. L’ho ucciso sei volte, è sempre ritornato, e non mi ha mai fatto del male… nel senso fisico del termine. Alla sesta sono riuscita a scappare, grazie ad un blitz della resistenza.”

Weir annuì con la testa, soppesando le informazioni che aveva appena ricevuto. Chiese anche della donna che Kara chiamava Boomer, e il maggiore la identificò come un Modello Otto.

“Sharon era un pilota. Una recluta che aveva appena ricevuto le ali. Non sapeva di essere una cylon, era un’agente dormiente. Quando è stata attivata, ha piantato due pallottole nel petto dell’Ammiraglio. Un membro dell’equipaggio l’ha ammazzata poco dopo. Qualche tempo più tardi, ho incontrato un’altra Sharon. L’aveva trovata il mio amico Karl quando era dato per disperso su Caprica, e pensando fosse la ‘nostra’ Sharon l’ha riportata indietro con lui. A quell’epoca Sharon era incinta…”

“Scusa, fammi capire bene” interruppe Sheppard. “Mi stai dicendo che queste macchine, questi cylon… possono riprodursi come gli esseri umani? Ma come diavolo è possibile?”

“Non come gli esseri umani, John. Con gli esseri umani. Secondo loro… la cosa che serve è l’amore. Hanno compiuto altri esperimenti di ibridazione, ma hanno sempre fallito. C’erano fattorie, su Caprica… sperimentavano sulle donne umane sopravvissute.”

Elizabeth non riusciva a credere alle proprie orecchie. Conosceva suo malgrado i Replicanti, ma i Cylon sembravano anche loro molto pericolosi. Forse proprio perché si sforzavano così tanto di assomigliare agli umani.

“Sharon ha avuto una bambina” continuò Kara “che la Presidente Roslin ha nascosto facendo credere a tutti che fosse morta. È stata rapita dai cylon, ma i suoi genitori se la sono ripresa. Hera aveva poco più di un anno l’ultima volta che l’ho vista.”

“E non conosci Sarah.”

“Mai sentita nominare.”

“L’SGC se non sbaglio ha un dossier su tutto quello che i cylon hanno fatto, più i risultati delle autopsie sui cadaveri trovati su Kobol. Me li farò mandare. Credi che non siano soli?”

“Non mi spiego come siano riusciti a saltare fin qui. Le Basestar cylon hanno motori iperluce molto avanzati, ma non da saltare in un’altra galassia. E se c’è una basestar, non credo sia sopravvissuta ad un attacco Wraith. Anche lei è un organismo vivente, in un certo modo.”

“Non ho intenzione di costringerti, ma sei l’unica che sa come affrontarli...”

“Lo capisco, dottoressa Weir.”

“Se in qualsiasi momento pensi di non riuscirci, dimmelo subito” disse John. “Questo è un consiglio e un ordine, capito?”

“Capito.”

 

 

  
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