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Autore: Sarah Collins    03/12/2012    3 recensioni
Mi chiamo Cassidy e vivo in California.
Da bambina avevo un amico immaginario; Misha.
E' stato con me per anni, riempiendo il vuoto lasciato da mio padre.
Credevo in lui ma più passava il tempo più cambiava.
Era diverso, stanco, distante.
Non riuscivo più a guardare i suoi occhi.
Non riuscivo più a toccarlo.
E alla fine mi lasciò sola.
***
Sono passati sei anni e adesso devo ritornare in quella villa.
Il mio primo sguardo fu verso la finestra della mia vecchia camera.
Lo cerco, pregando di non vederlo.
Ma so che è lì.
So che non se ne è mai andato veramente.
So anche che ho paura ma tutto questo è solo l'inizio.
Genere: Fantasy, Mistero, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Che dire, che fare.
6


Ho passato il pomeriggio a guardare serie tv random. Il divano in pelle ha ancora la forma del culo impressa, per tutte le ore che ci son stata.

Guardo negli occhi mia madre mentre addenta una cotoletta, davanti a me.
Il volume della televisione non è molto alto, serve giusto per avere qualche suono di sottofondo. E' comodo a cena.
Si accorge che la sto fissando e come una stupida, apre la bocca per farmi vedere il molliccio lì dentro.
"A maaaaaa! Mioddio eddai!", sbraito distogliendo lo sguardo. "Non sfidarmi!"
"No, ferma!", mi dice lei inghiottendo. "Fai troppo schifo quando ti ci metti."
"Oggi ho visto una presenza al supermercato." Gli confesso, buttandola non proprio sul vago.
"Macché, i fantasmi mica esistono. Tuo padre sarebbe già venuto a cercarci allora, non trovi?"
"Perché devi metterlo in mezzo?"
Mi alzo da tavola sotto il suo sguardo e vado a sedermi sulle scale.
Nonostante siano passati anni dalla morte di mio padre, deve sempre metterlo in mezzo a ogni frase.
Mi urta questa cosa perché poi il discorso diventa triste e l'argomento va a farsi fottere.
Mi guardo gli stivaletti neri e punto i piedi sullo scalino più in basso; mi sento in colpa per averla lasciata a cenare da sola.
Siamo solo noi due e mi dispiace che adesso lei è lì, a pensare.
Sto giusto per alzarmi per raggiungerla ma dall'ingresso la vedo sparecchiare e, quando il suo sguardo si posa su di me, sorride.
Credo sia tutto apposto, nessun rimorso, giusto?

Salendo in camera passo in rassegna i miei libri cercandone qualcuno da leggere.
Mia madre canta quando fa i lavori di casa perciò, per non sentirla storpiare canzoni degli anni ottanta, accosto la porta.
La stanza è poco illuminata; giusto la lampada da terra al lato del letto è accesa e la sua luce è flebile. Se mi guardo allo specchio sono arancione, sono quasi nell'oscurità.
Non ho paura del buio, no, nemmeno in questa stanza, nemmeno dopo che Misha ha detto quelle cose.
Il letto mi chiama, lo sento, è lì che mi vuole tutta.
Rido da sola al pensiero di un letto perverso ma lo accontento, buttandomici sopra di pancia.
Un lungo sospiro riscalda il cuscino risbattendomi sul viso, è un modo nuovo per scaldarsi da soli, un modo stupido, sì.
I capelli profumano e con la corrente che passa tra la finestra aperta e la porta, mi ricadono sulle guancie bollenti.
Stavo giusto per addormentarmi quando sento uno schiocco ovattato.
E certo, il cuscino del mio videogioco preferito è caduto accidentalmente sul mio culo.
Come no..
Di scatto mi alzo a sedere e noto il cuscino per terra e, appoggiato alla scrivania di fronte al letto, vedo Misha.
"E quindi?" Gli chiedo infastidita.
Lo vedo portarsi una mano alla pancia e chiudersi in avanti per ridere.
Uno squittio silenzioso, molto carino.
"Oh!", sbraito ancora. "Sono questi i modi?"
"E' solo un cuscino. Ti ho fatto male?"
"Sai una cosa? Me ne fai continuamente!"
"Che significa?" Mi chiede chiudendo con un dito la porta e venendosi poi a sedere ai piedi del letto.
"Non sto a dirti cosa hai sbagliato!"
Proprio non lo sopporto, è così difficile capire che mi ha spaventata stamattina? Non glielo dico, e se non lo capisce da solo beh, è finita.
Giocasse con un altro pupazzetto, non sono più disponibile.

Lui mi guarda con gli occhi socchiusi e dischiude leggermente le labbra.
"So cosa ho fatto. Non chiedo scusa per essermi preso cura di te, ancora."
Rido, rido forte. Prendersi cura di me?
"Non c'è bisogno di ridere, certe cose con me non si fanno. Nemmeno il pensiero, non è così che devono andare le cose." Il suo tono si fa via via più serio e autoritario, tanto da farmi smettere di ridere.
"Sono cresciuta con te, questo fa di me una tua pupilla. Una di quelle sbrilluccicose e speciali. Ti ho avuto da sempre e la tua assenza mia ha uccisa. Poi è passato tutto, sai? Però poi riecco che torno io e torni tu. Non ho cercato di baciarti; in realtà credo che anche se mia madre non fosse entrata, avrei indietreggiato." Ammetto con voce bassa, intima.
"Perfetto." Taglia corto Misha.
"Dici solo questo?"
"Cosa devo dirti?! Che mi dispiace? Che anche tu mi sei mancata? Io nopn ho provato dispiacere quando te ne sei andata perché come ho già detto, se ci sei io ci sono. Ma se te ne vai allora me ne vado anche io. E' una catena, noi, siamo una catena. Il fatto che puoi vedermi poi è tutt'altro discorso."
"E prendiamolo questo discorso!" Sputo evitando di pensare che non gli sono mancata affatto. Passiamo oltre che è meglio.
"Non ora, non capiresti."
"Sono abbastanza grande per capire!"
"Ma non è l'età, è che deve ancora succedere."
"Ma cosa?!"
"Non ancora."

Detto questo svanisce lasciandomi come una merda secca al sole.
Per la rabbia tiro via le coperte e stravolgo il letto, mi ributto a pancia  sotto e spiaccico un cuscino sopra la testa.
E' fresco e piacevole, profuma anche! Che bello.
Qualcuno però me lo toglie e questo qualcuno mi accarezza i capelli.
Le mani che lo fanno sono più fredde del cuscino di prima e quando sento i polpastrelli toccarmi la nuca, un brivido di freddo mi invade ovunque.
"Mi dispiace, non riesco ancora a capire come toccarti senza farti venire i brividi."
"Ti dispiace? Credevo che non provassi dei sentimenti." Sbotto subito; purtroppo esce fuori una voce da stupida dato che ho la bocca coperta dal cuscino.
"Forse ho un po' esagerato prima, forse qualcosa provo."
"Qualcosa in che senso?"
"Credo sia bene. Il bene, o come lo chiamate voi. E' così giusto?"
"Vediamo, da uno a dieci quanto bene provi?" Gli chiedo, approfondendo la questione; più si avvicinava al dieci più era amore, ovvio.
"Non saprei, cinque forse."
"Apposto."
"Che c'è?" Fa lui, ignaro.

Non ho ricavato nulla, come si può dare cinque a un sentimento? Ma anche per finta non si da mai cinque. Il sei come minimo, giusto per non ferire la persona che te lo chiede.
Sbuffo sotto le mani ghiacciate che ancora mi accarezzano i capelli.
Più ci provo più noto questa eterna differenza tra me e lui.
C'è e ci sarà sempre; ora devo solo capire se vale la pena insegnargli qualcosa sui sentimenti.
Non saprei, è come parlare a un bambino e per la cronaca, io i bambini li odio.
  
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