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Autore: Andrewthelord    09/12/2012    3 recensioni
Agghiacciante cross-over tra il film “Fracchia la Belva Umana” e l’anime “Kaitou Saint Tail” (Lisa e Seya).
È arrivato in Giappone il più importante dipinto del novecento italiano, un Osvaldo Paniccia originale. Non solo Saint Tail (Seya), anche la Belva Umana (Paolo Villaggio) è sulle sue tracce. Riusciranno Asuka jr (Alan) e il Commissario Auricchio (Lino Banfi) ad impedire l’ennesimo furto? E Giandomenico Fracchia (Paolo Villaggio) verrà ancora utilizzato dal suo sosia per i suoi loschi piani?
Non si tratta, come potrebbe sembrare, di una fan fiction nonsense, ma di una vera e propria storia in cui i personaggi sono loro stessi e non delle caricature.
Sono ben graditi i commenti, anche brevi!
Genere: Comico, Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
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«Maledetto De Simone! Sta’ tranquillo, manneggia a te, maledetto! Quella ci vuole freghere!». Auricchio digrignò i denti e mostrò i pugni al suo sottoposto, cercando di calmarlo.

«Ma commissario!», protestò quasi urlando il trentenne capellone, «ha detto che c’è una bomba! La Belva vuole ucciderci!». Pochi istanti prima, infatti, la ladra gentildonna aveva lanciato il suo avviso accorato: «SOTTO IL PONTE HANNO PIAZZATO DELL’ESPLOSIVO!!! LA BELVA VUOLE UCCIDERVI TUTTI!!!».

«Stei chelmo! Vuole che ci fermiemo. Quella o è una complice della Belva oppure vuole freghere noi e prendersi il quedro lei. Stei chelmo!», confermò Auricchio, che si girò verso il ragazzino alla guida, un poliziotto diciannovenne alla sua prima uscita al di fuori dell’Italia, «Alberto, andiemo aventi!».

Ma Alberto, contravvenendo alle indicazioni del commissario, inchiodò in quel preciso istante, di colpo, facendo sbattere i suoi superiori sul retro dei sedili davanti. Non frenò per spirito di disobbedienza o di testardaggine, ma perché l’auto che viaggiava di fronte a lui aveva appena fatto altrettanto. Non conosceva ancora bene Auricchio, non sapeva che vette riuscivano a raggiungere le sue ire, dunque, tra un duro tamponamento e il contravvenire a un ordine preciso, scelse il secondo partito.

«Che diemine!» imprecò il commissario. Di fronte a lui un torpedone di auto confuse: alcune si erano toccate, altre avevano virato, sgommando, invadendo l’altra corsia. Aprì lo sportello e saltò giù dal veicolo, pregando la Madonna Addoloreta[1] di vedere, più avanti, qualche automobile della polizia, giapponese, italiana o persino peruviana il cui conducente non se la fosse fatta sotto e che avesse avuto il fegato di continuare a correre per acchiappare quel dannato criminale. Ma uno sbrillucicchio catturò la sua vista. Si girò verso destra, e la vide. Sopra un’auto svolazzante – “Eppure non ho bevuto” – tenuta in volo da una specie di salvagente rosa di diversi metri di diametro, stava in piedi una ragazzina con lunghi guanti neri e una calzamaglia dello stesso colore. Sulla pista ciclabile/marciapiede, invece, a terra come un povero idiota, il buon Asuka Daiki Junior.

«Che diemine sta facendo!», urlò Auricchio al suo vice, i cui capillari del viso cessarono di rompersi per la rabbia e iniziarono a farlo per la paura, «non sta inseguendo la Belva per prendergli il quedro… E rimane qui, a portata di mano nostra», gridò ancora, quasi piangendo.

Saint Tail spiccò un balzo, che per la mente del commissario fu infinitamente più veloce che per il cuore confuso del giovane detective giapponese. La ragazza, dapprima levatasi in aria, a braccia aperte, iniziò la sua discesa, fino a sparire dagli occhi di quelli che la guardavano da sopra il ponte. Auricchio corse, scavalcò con un salto all’Olio Cuore – notevole per la sua età e per la sua stazza fisica – il parapetto che separava la carreggiata per le auto dalla pista ciclabile/marciapiede per velocipedi[2] e pedoni, e si sporse, occhi verso il basso, oltre l’ultimo scorrimano di sicurezza. L’oscurità della tarda serata gli permise di vedere solo i flutti del fiume nero agitati dal vento.

Poi un calore improvviso lo pervase. Anzi, per l’esattezza, gli scaldò il collo e la lucida nuca. Tra le onde nere un’improvvisa e sgargiante luce riflessa. Alzò il viso verso il cielo con un movimento improvviso, accusando per qualche istante persino un balzo di pressione: alla sua età, con lo stato delle sue coronarie, cosa più che comprensibile.

Una palla di fuoco illuminava il cielo, sopra la sua testa. Da quell’incendio, pigramente, come se andassero al rallentatore, calarono pian piano, come resti luminosi di un fuoco d’artificio, alcune scie gialle e rosse, spegnendosi un poco alla volta. Un lungo crepitio, come di legna sul fuoco, accompagnò quell’insolito spettacolo.

Il commissario crollò, col sedere a terra. «Aveva regione… Aveva regione lei…», e con un fazzoletto così esteso che avrebbe potuto fungere da bavaglino per Giuliano Ferrara, iniziò ad asciugarsi febbrilmente i sudori dalla fronte.

«Ci ha salvati tutti». Vicino a lui, Asuka Daiki Junior provò a rialzarsi, ma cadde nuovamente sulle ginocchia, viso a terra. «Ci ha salvati tutti». Le lacrime iniziarono a cadere a terra copiose. Era vivo. Ma che vita senza di lei?

«Insomma, reghezzo», ansimò Auricchio, «vuoi dire che ha tolto la bomba e l’ha fetta sperire in eria?». Il ragazzo annuì, tra un singhiozzo e l’altro. «E lei è…» non completò la frase. Guardò il ragazzo, abbassò gli occhi e comprese. “Ce ne fossero di più di ledri così. Ledri che muoiono per salvere i poliziotti. Certo che in Gieppone sono molto aventi come civiltà” pensò il commissario, il quale, le poche volte che pensava, lo faceva comunque in stretto accento pugliese.

Le ricetrasmittenti, ancora a tutto volume, accese dentro le macchine parcheggiate alla rinfusa lungo la carreggiata del ponte sospeso, iniziarono a ruggire furiosamente tutte insieme.

«Qui il Brigadiere Esposito», esordì l’eroe di Nassiriya con la sua parlata marcatamente meridionale, «sono già fuori dal ponte. In lontananza vedo la macchina della Belva che si è ribaltata ed è attualmente fuori strada. Ripeto: l’auto della Belva è ribaltata e fuori strada».

Auricchio, come il mostro di Frankenstein prese vita in un lampo grazie alla scossa di un fulmine, si rianimò in un istante, saltò nuovamente il parapetto, entrò nella prima auto di fronte a lui, con una gomitata stese un poliziotto giapponese per appropriarsi in fretta della ricetrasmittente che teneva in mano.

«ESPOSITO!!!» urlò. «Sei sicuro?», e attese la risposta come se da questa dipendesse tutta la sua vita. E in effetti, così era.

«Affermativo commissario», confermò il fiero carabiniere.

«E LUI È ANCORA DENTRO?» gridò a pieni polmoni, come se urlando la sua voce potesse arrivare prima, a poco più di trecento metri di distanza, dove il carabiniere, il primo ad aprire il corteo delle forze dell’ordine, poteva raggiungere la Belva ad un tiro di schioppo.

«Affermativo commissario. Forse c’è stato un problema meccanico. Fatto sta che ha colpito un carretto, è scivolato su un campo e ha sbattuto contro un albero. Potrebbe essere ferito. O forse anche morto».

«NON MUOVERTI!!! ARRIVIEMO!!!», ululò Auricchio, spinto dall’orgasmo della situazione. Il sacrificio di un’anonima ladruncola giapponese era passato in secondo, anzi, in terzo piano. Ma c’era da comprenderlo. Da anni Auricchio si svegliava pensando alla Belva, faceva colazione in compagnia delle immagini delle vittime della Belva, andava a lavoro temendo eventuali ritorsioni della Belva, assisteva alle partite di calcio del figlio quattordicenne pregando perché gli artigli della Belva non lo raggiungessero mai. La prospettiva che tutto stesse per finire lì lo mandò in estasi. “È fatta!”, giubilò. E iniziò a correre come un disperato verso la fine della sua caccia pluriennale, con le braccia di Zanardi, il cuore di Pistorius e la gambe di Usain Bolt.

«C’E’ QUALCUNO CON LUI!!! IO VADO!!!» la voce dallo spiccato accento meridionale del brigadiere Esposito tornò a rimbombare tra una ricetrasmittente e l’altra. Né Auricchio, né De Simone, né i suoi uomini risposero alla comunicazione, troppo impegnati a correre. Prendere un’auto ormai impossibile: tra gazzelle tamponatesi l’una con l’altra, volanti in testacoda e poliziotti giapponesi che vomitavano per la tensione e lo scampato pericolo in mezzo alla strada, il modo più veloce di muoversi era proprio utilizzando i piedi.

“E adesso chi c’è?”, pensò il commissario, il cui unico modo per velocizzare i tempi entro i quali avrebbe ottenuto l’agognata risposta era quello di correre più veloce. Sperando che Esposito mettesse a bada quel “qualcuno”. “Un complice?” La sola eventualità lo angosciava. I complici della Belva erano il fior fiore dei criminali e dei figli di buona madre che l’umanità produce e seleziona con tanto affetto e cura. Forse, proprio in quel preciso momento, Esposito stava affrontando qualcosa di ben più pericoloso di un criminale ferito dentro ad una macchina rovesciata.

Asuka Daiki Junior non si unì alla corsa preoccupata ma a tratti liberatoria di quei poliziotti. Anzi, quasi non si accorse di quel trambusto. Saint Tail non c’era più. E in quel momento nulla aveva senso. Quello stupido distintivo di bigiotteria donatogli dal sindaco, le sue notti insonni a caccia di un’ombra, quel suo desiderio di acciuffare quello sfuggente codino. In tutti i sensi. Pensieri vani. Lei non c’era più. Ma a farlo imbestialire, a fargli sbattere per terra i pugni fino a sanguinare, il viso inondato e trasformato in una maschera gelatinosa da un fiume di lacrime, il fatto che lei era morta per salvare lui. Sì, ne era sicuro. Quell’ultimo invito ad essere felice. Era morta per lui. E lui avrebbe dovuto trascorrere tutta la vita in perenne debito con un fantasma. Più che una vita, una condanna all’ergastolo.

«De Simone… Corri disgrazieto!». In quel frangente tutti gli osservatori esterni avrebbero dato qualche anno in meno al commissario barese e molti anni in più al suo vice capellone. Auricchio saltò giù dal marciapiede e iniziò a correre per quel campo di terra scoperta. Aveva piovuto: l’auto della Belva aveva scavato un solco profondo, prima di schiantarsi contro quell’albero. Lanciò un’occhiata più avanti. Esposito se ne stava in piedi, dritto come un fuso. Sotto di lui, disteso, come una preda in una foto ricordo che i cacciatori solgono farsi fare dopo una giornata fruttuosa, un uomo dai capelli d’argento, il cui lucido e prezioso vestito bianco era simile all’abito di arlecchino per una serie variopinta di macchie. Rosa per gli strappi, rosso per il sangue, nero per la morchia e l’olio motore, marrone per il fango – e non solo. L’agognata Belva attendeva soltanto di essere pesata prima di finire, con la testa impigliata, sopra il caminetto della casa di montagna di Auricchio. Il commissario pugliese già si immaginava la scena, fregandosi le mani di gusto.

Unico particolare che non rientrava, in quella scena comunque caotica, il bagagliaio dell’auto ribaltata, completamente spalancato.

«Che è successo, Esposito?». La scena era commovente: mai, nella storia del genere umano, un poliziotto si era rivolto con così tanta stima, fiducia e ammirazione nei confronti di un carabiniere. Mai.

Il militare in borghese, a cui solitamente mancava solo quel vecchio cappello alla Napoleone per potersi tuffare di diritto in una cartolina di fine ottocento, fisso come una statua, rispose marzialmente: «Se n’è andata, commissario». «Chi?» digrignò viso e bocca Auricchio, come se il carabiniere avesse proferito una frase in lingua berbera.

A poche centinaia di metri di distanza, Asuka Daiki Junior osservava l’asfalto di quel ponte. O meglio, avrebbe potuto farlo se i suoi occhi non si fossero ridotti a una crosta umidiccia e arrossata di dolore. Per lui era tutto finito. Quei minuti di puro dolore, in ginocchio, piegato verso terra, iniziavano a provocargli delle fitte spaventose ai muscoli della schiena. Ma non gli importava. Anzi: avrebbe gradito di buon grado se qualcuno avesse deciso di appoggiargli qualche bastonata o se l’avesse preso a schiaffi. La sua salute mentale non gli permetteva di farsi del male fisicamente come certi ragazzini fanno, soggiogati dal dolore. Troppo prezioso il sacrificio della sua amata – “Sì, amata”, avrebbe gridato al mondo Asuka – per disprezzarlo. Però, se prima d’allora avrebbe giudicato come appestati i suoi coetanei che arrivavano all’autolesionismo, ad incidersi le carni com’era di moda tra i ragazzini di metà anni ’00, dopo quella sera la sua mente sarebbe stata assai più comprensiva.

In quell’apogeo di dolore mentale, che si ripercuoteva sotto forma di spasmi e crampi anche a livello fisico, percepì – forse uno scherzo dei nervi? – un tocco vellutato sul suo collo. Caldo e delicato, come la caduta di un petalo di ciliegio. Quasi una carezza. Forse era la mamma morta che dal cielo gli voleva stare vicino. Sì, era una carezza. Forse era Saint Tail che, sempre dal cielo, voleva fargli sapere che stava bene. Non era molto religioso, ma sapeva che Saint Tail sarebbe andata sicuramente in paradiso. Rimase come pietrificato, come un bambino ferito a un ginocchio diventa una statua di ghiaccio quando la mamma gli passa il disinfettante sulla sbucciatura. Troppo reale. Realizzò. Quel profumo di vaniglia? Lei? Alzò di scatto la testa, saltò in piedi come una molla. Quasi svenne quando i polmoni di colpo gli si aprirono per dare un improvviso sospiro e riprendere in pochi secondi litri e litri d’ossigeno persi. Si guardò ovunque, si girò, mosse la testa a destra e a sinistra, corse su se stesso fino ad avvertire i prodromi di un capogiro. Non c’era nessuno. Si era illuso. Nuovamente. Abbassò il volto, e si odiò per quell’ultima flebile speranza. Un gioco di luce, un riflesso, un lampo. Si girò di scatto a quarantacinque gradi, verso la direzione dalla quale il plotone di Auricchio era giunto a spron battuto per inseguire e catturare la Belva.

Il classico stormo di palloncini di diversi colori e dimensioni trasportava, leggiadra e bella come non mai, la misteriosa ladra Saint Tail. Sotto il braccio sinistro, tra l’ascella e il polso, il quadro di Osvaldo Paniccia. Volava a bassa quota, a pochi metri da lui, sopra il fiume, parzialmente nascosta dall’oscurità di quella sera. Era sana, era viva. Il codino, però, era più scapigliato del solito, e sopra la calzamaglia marrone scura, tendente al nero, c’era ben più di uno strappo. Anche la sua presenza era un po’ più arrancante del previsto. Non era morta, ma c’era mancato poco.

Aveva il quadro. “All’inferno anche il quadro”, concluse velocemente il giudizio della sua coscienza Asuka junior. L’importante che fosse viva. Che le cacce fossero continuate. Che quei biglietti fossero ancora arrivati. Ancora per molto. Per sempre.

«Grazie, Saint Tail-sama», urlò a squarciagola il giovane detective, ignorando tutta una serie di regolamenti e dettami, a partire, ovviamente, dalla norma non scritta che vietano agli uomini di legge di ringraziare i criminali a squarciagola. Ma se qualcuno, in quel momento, gliel’avesse fatto notare, Asuka Daiki junior gli avrebbe mostrato in pochi istanti il lato più triviale e sconveniente di sé. “Era viva”. Fece un passo in avanti, non per inseguirla, ma per poterla vedere ancora più a lungo, ma il vento, con uno scossone improvviso d’aria fresca, mosse qualcosa che produsse un sonoro fruscio alle sue spalle.

Cos’era? Un’altra folata, sentì qualcosa “tirargli” la giacca, dietro la schiena. Comprese. Aveva qualcosa attaccato alla giacca blu da cantante di balera. Con difficoltà riuscì a strappare un foglietto attaccatogli alle spalle con una puntina. “Possibile che prima? La carezza?” Ma la carezza era sul collo… Era stata Saint Tail? Ma perché? Era troppo buio per leggere: estrasse dalla tasca il cellulare e con il display illuminò il pezzo di carta.

V’era scritto, con una grafia veloce e disordinata, ma spiccatamente femminile, un messaggio che pareva una presa in giro. «Ma è impossibile!» urlò Asuka junior, prima di scattare in direzione contraria, verso i poliziotti, verso Auricchio, suo padre e De Simone, «ma allora lui dov’è? E allora perché questo? Ma che diamine sta succedendo?». Portava, stretto in pugno, quel foglietto, consegnatogli personalmente da Saint Tail. Testo del messaggio: «彼らはフラッキアの目です[3]Sono gli occhi di Fracchia».

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Ecco a voi la puntata 34. Un commentino è sempre gradito.

Vi auguro in anticipo un Buon Natale e un felice 2013 ricco di soddisfazioni!



[1] Non l’Addolorata, ma proprio l’Addoloreta, venerata a Barletta.

[2] Le biciclette per quelli che lavorano nella Polizia Locale. Conosciuti anche come Vigili Urbani.

[3] Credits Google Translate

   
 
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