«Maledetto De
Simone! Sta’ tranquillo, manneggia a te, maledetto!
Quella ci vuole freghere!». Auricchio digrignò i
denti e mostrò i pugni al suo sottoposto, cercando di calmarlo.
«Ma
commissario!», protestò quasi urlando il trentenne capellone, «ha detto che c’è
una bomba! La Belva vuole ucciderci!». Pochi istanti prima, infatti, la ladra
gentildonna aveva lanciato il suo avviso accorato: «SOTTO IL PONTE HANNO
PIAZZATO DELL’ESPLOSIVO!!! LA BELVA VUOLE UCCIDERVI TUTTI!!!».
«Stei chelmo! Vuole che ci fermiemo. Quella o è una complice della Belva oppure vuole freghere noi e prendersi il quedro
lei. Stei chelmo!»,
confermò Auricchio, che si girò verso il ragazzino alla guida, un poliziotto
diciannovenne alla sua prima uscita al di fuori dell’Italia, «Alberto, andiemo aventi!».
Ma Alberto,
contravvenendo alle indicazioni del commissario, inchiodò in quel preciso istante,
di colpo, facendo sbattere i suoi superiori sul retro dei sedili davanti. Non
frenò per spirito di disobbedienza o di testardaggine, ma perché l’auto che
viaggiava di fronte a lui aveva appena fatto altrettanto. Non conosceva ancora
bene Auricchio, non sapeva che vette riuscivano a raggiungere le sue ire,
dunque, tra un duro tamponamento e il contravvenire a un ordine preciso, scelse
il secondo partito.
«Che diemine!» imprecò il commissario. Di fronte a lui un
torpedone di auto confuse: alcune si erano toccate, altre avevano virato,
sgommando, invadendo l’altra corsia. Aprì lo sportello e saltò giù dal veicolo,
pregando la Madonna Addoloreta[1] di
vedere, più avanti, qualche automobile della polizia, giapponese, italiana o
persino peruviana il cui conducente non se la fosse fatta sotto e che avesse
avuto il fegato di continuare a correre per acchiappare quel dannato criminale.
Ma uno sbrillucicchio catturò la sua vista. Si girò
verso destra, e la vide. Sopra un’auto svolazzante – “Eppure non ho bevuto” –
tenuta in volo da una specie di salvagente rosa di diversi metri di diametro,
stava in piedi una ragazzina con lunghi guanti neri e una calzamaglia dello
stesso colore. Sulla pista ciclabile/marciapiede, invece, a terra come un povero
idiota, il buon Asuka Daiki Junior.
«Che diemine sta facendo!», urlò Auricchio al suo vice, i cui
capillari del viso cessarono di rompersi per la rabbia e iniziarono a farlo per
la paura, «non sta inseguendo la Belva per prendergli il quedro…
E rimane qui, a portata di mano nostra», gridò ancora, quasi piangendo.
Saint Tail spiccò
un balzo, che per la mente del commissario fu infinitamente più veloce che per
il cuore confuso del giovane detective giapponese. La ragazza, dapprima levatasi
in aria, a braccia aperte, iniziò la sua discesa, fino a sparire dagli occhi di
quelli che la guardavano da sopra il ponte. Auricchio corse, scavalcò con un
salto all’Olio Cuore – notevole per la sua età e per la sua stazza fisica – il
parapetto che separava la carreggiata per le auto dalla pista ciclabile/marciapiede
per velocipedi[2]
e pedoni, e si sporse, occhi verso il basso, oltre l’ultimo scorrimano
di sicurezza. L’oscurità della tarda serata gli permise di vedere solo i flutti
del fiume nero agitati dal vento.
Poi un calore
improvviso lo pervase. Anzi, per l’esattezza, gli scaldò il collo e la lucida nuca.
Tra le onde nere un’improvvisa e sgargiante luce riflessa. Alzò il viso verso
il cielo con un movimento improvviso, accusando per qualche istante persino un balzo
di pressione: alla sua età, con lo stato delle sue coronarie, cosa più che
comprensibile.
Una palla di
fuoco illuminava il cielo, sopra la sua testa. Da quell’incendio, pigramente,
come se andassero al rallentatore, calarono pian piano, come resti luminosi di
un fuoco d’artificio, alcune scie gialle e rosse, spegnendosi un poco alla
volta. Un lungo crepitio, come di legna sul fuoco, accompagnò quell’insolito
spettacolo.
Il commissario
crollò, col sedere a terra. «Aveva regione… Aveva
regione lei…», e con un fazzoletto così esteso che
avrebbe potuto fungere da bavaglino per Giuliano Ferrara, iniziò ad asciugarsi
febbrilmente i sudori dalla fronte.
«Ci ha salvati
tutti». Vicino a lui, Asuka Daiki Junior provò a
rialzarsi, ma cadde nuovamente sulle ginocchia, viso a terra. «Ci ha salvati
tutti». Le lacrime iniziarono a cadere a terra copiose. Era vivo. Ma che vita
senza di lei?
«Insomma, reghezzo», ansimò Auricchio, «vuoi dire che ha tolto la
bomba e l’ha fetta sperire in eria?».
Il ragazzo annuì, tra un singhiozzo e l’altro. «E lei è…»
non completò la frase. Guardò il ragazzo, abbassò gli occhi e comprese. “Ce ne
fossero di più di ledri così. Ledri
che muoiono per salvere i poliziotti. Certo che in Gieppone sono molto aventi come civiltà” pensò il
commissario, il quale, le poche volte che pensava, lo faceva comunque in
stretto accento pugliese.
Le
ricetrasmittenti, ancora a tutto volume, accese dentro le macchine parcheggiate
alla rinfusa lungo la carreggiata del ponte sospeso, iniziarono a ruggire
furiosamente tutte insieme.
«Qui il
Brigadiere Esposito», esordì l’eroe di Nassiriya con la sua parlata
marcatamente meridionale, «sono già fuori dal ponte. In lontananza vedo la
macchina della Belva che si è ribaltata ed è attualmente fuori strada. Ripeto:
l’auto della Belva è ribaltata e fuori strada».
Auricchio, come
il mostro di Frankenstein prese vita in un lampo grazie alla scossa di un
fulmine, si rianimò in un istante, saltò nuovamente il parapetto, entrò nella
prima auto di fronte a lui, con una gomitata stese un poliziotto giapponese per
appropriarsi in fretta della ricetrasmittente che teneva in mano.
«ESPOSITO!!!»
urlò. «Sei sicuro?», e attese la risposta come se da questa dipendesse tutta la
sua vita. E in effetti, così era.
«Affermativo
commissario», confermò il fiero carabiniere.
«E LUI È ANCORA
DENTRO?» gridò a pieni polmoni, come se urlando la sua voce potesse arrivare
prima, a poco più di trecento metri di distanza, dove il carabiniere, il primo
ad aprire il corteo delle forze dell’ordine, poteva raggiungere la Belva ad un
tiro di schioppo.
«Affermativo
commissario. Forse c’è stato un problema meccanico. Fatto sta che ha colpito un
carretto, è scivolato su un campo e ha sbattuto contro un albero. Potrebbe
essere ferito. O forse anche morto».
«NON MUOVERTI!!!
ARRIVIEMO!!!», ululò Auricchio, spinto dall’orgasmo della situazione. Il
sacrificio di un’anonima ladruncola giapponese era passato in secondo, anzi, in
terzo piano. Ma c’era da comprenderlo. Da anni Auricchio si svegliava pensando
alla Belva, faceva colazione in compagnia delle immagini delle vittime della
Belva, andava a lavoro temendo eventuali ritorsioni della Belva, assisteva alle
partite di calcio del figlio quattordicenne pregando perché gli artigli della
Belva non lo raggiungessero mai. La prospettiva che tutto stesse per finire lì
lo mandò in estasi. “È fatta!”, giubilò. E iniziò a correre come un disperato
verso la fine della sua caccia pluriennale, con le braccia di Zanardi, il cuore
di Pistorius e la gambe di Usain
Bolt.
«C’E’ QUALCUNO CON LUI!!! IO VADO!!!» la voce dallo spiccato
accento meridionale del brigadiere Esposito tornò a rimbombare tra una
ricetrasmittente e l’altra. Né Auricchio, né De Simone, né i suoi uomini
risposero alla comunicazione, troppo impegnati a correre. Prendere un’auto
ormai impossibile: tra gazzelle tamponatesi l’una con l’altra, volanti in
testacoda e poliziotti giapponesi che vomitavano per la tensione e lo scampato
pericolo in mezzo alla strada, il modo più veloce di muoversi era proprio
utilizzando i piedi.
“E adesso chi
c’è?”, pensò il commissario, il cui unico modo per velocizzare i tempi entro i
quali avrebbe ottenuto l’agognata risposta era quello di correre più veloce.
Sperando che Esposito mettesse a bada quel “qualcuno”. “Un complice?” La sola
eventualità lo angosciava. I complici della Belva erano il fior fiore dei
criminali e dei figli di buona madre che l’umanità produce e seleziona con
tanto affetto e cura. Forse, proprio in quel preciso momento, Esposito stava
affrontando qualcosa di ben più pericoloso di un criminale ferito dentro ad una
macchina rovesciata.
Asuka Daiki Junior non si unì alla corsa preoccupata ma a tratti
liberatoria di quei poliziotti. Anzi, quasi non si accorse di quel trambusto.
Saint Tail non c’era più. E in quel momento nulla aveva senso. Quello stupido
distintivo di bigiotteria donatogli dal sindaco, le sue notti insonni a caccia
di un’ombra, quel suo desiderio di acciuffare quello sfuggente codino. In tutti
i sensi. Pensieri vani. Lei non c’era più. Ma a farlo imbestialire, a fargli
sbattere per terra i pugni fino a sanguinare, il viso inondato e trasformato in
una maschera gelatinosa da un fiume di lacrime, il fatto che lei era morta per
salvare lui. Sì, ne era sicuro. Quell’ultimo invito ad essere felice. Era morta
per lui. E lui avrebbe dovuto trascorrere tutta la vita in perenne debito con
un fantasma. Più che una vita, una condanna all’ergastolo.
«De Simone… Corri disgrazieto!». In
quel frangente tutti gli osservatori esterni avrebbero dato qualche anno in
meno al commissario barese e molti anni in più al suo vice capellone. Auricchio
saltò giù dal marciapiede e iniziò a correre per quel campo di terra scoperta.
Aveva piovuto: l’auto della Belva aveva scavato un solco profondo, prima di
schiantarsi contro quell’albero. Lanciò un’occhiata più avanti. Esposito se ne
stava in piedi, dritto come un fuso. Sotto di lui, disteso, come una preda in
una foto ricordo che i cacciatori solgono farsi fare dopo una giornata
fruttuosa, un uomo dai capelli d’argento, il cui lucido e prezioso vestito
bianco era simile all’abito di arlecchino per una serie variopinta di macchie.
Rosa per gli strappi, rosso per il sangue, nero per la morchia e l’olio motore,
marrone per il fango – e non solo. L’agognata Belva attendeva soltanto di
essere pesata prima di finire, con la testa impigliata, sopra il caminetto
della casa di montagna di Auricchio. Il commissario pugliese già si immaginava
la scena, fregandosi le mani di gusto.
Unico particolare
che non rientrava, in quella scena comunque caotica, il bagagliaio dell’auto
ribaltata, completamente spalancato.
«Che è successo,
Esposito?». La scena era commovente: mai, nella storia del genere umano, un
poliziotto si era rivolto con così tanta stima, fiducia e ammirazione nei
confronti di un carabiniere. Mai.
Il militare in
borghese, a cui solitamente mancava solo quel vecchio cappello alla Napoleone
per potersi tuffare di diritto in una cartolina di fine ottocento, fisso come
una statua, rispose marzialmente: «Se n’è andata, commissario». «Chi?» digrignò
viso e bocca Auricchio, come se il carabiniere avesse proferito una frase in lingua
berbera.
A poche centinaia
di metri di distanza, Asuka Daiki Junior osservava l’asfalto
di quel ponte. O meglio, avrebbe potuto farlo se i suoi occhi non si fossero
ridotti a una crosta umidiccia e arrossata di dolore. Per lui era tutto finito.
Quei minuti di puro dolore, in ginocchio, piegato verso terra, iniziavano a
provocargli delle fitte spaventose ai muscoli della schiena. Ma non gli
importava. Anzi: avrebbe gradito di buon grado se qualcuno avesse deciso di
appoggiargli qualche bastonata o se l’avesse preso a schiaffi. La sua salute
mentale non gli permetteva di farsi del male fisicamente come certi ragazzini
fanno, soggiogati dal dolore. Troppo prezioso il sacrificio della sua amata –
“Sì, amata”, avrebbe gridato al mondo Asuka – per disprezzarlo. Però, se prima
d’allora avrebbe giudicato come appestati i suoi coetanei che arrivavano
all’autolesionismo, ad incidersi le carni com’era di moda tra i ragazzini di
metà anni ’00, dopo quella sera la sua mente sarebbe stata assai più
comprensiva.
In quell’apogeo
di dolore mentale, che si ripercuoteva sotto forma di spasmi e crampi anche a
livello fisico, percepì – forse uno scherzo dei nervi? – un tocco vellutato sul
suo collo. Caldo e delicato, come la caduta di un petalo di ciliegio. Quasi una
carezza. Forse era la mamma morta che dal cielo gli voleva stare vicino. Sì,
era una carezza. Forse era Saint Tail che, sempre dal cielo, voleva fargli
sapere che stava bene. Non era molto religioso, ma sapeva che Saint Tail sarebbe
andata sicuramente in paradiso. Rimase come pietrificato, come un bambino
ferito a un ginocchio diventa una statua di ghiaccio quando la mamma gli passa
il disinfettante sulla sbucciatura. Troppo reale. Realizzò. Quel profumo di
vaniglia? Lei? Alzò di scatto la testa, saltò in piedi come una molla. Quasi
svenne quando i polmoni di colpo gli si aprirono per dare un improvviso sospiro
e riprendere in pochi secondi litri e litri d’ossigeno persi. Si guardò
ovunque, si girò, mosse la testa a destra e a sinistra, corse su se stesso fino
ad avvertire i prodromi di un capogiro. Non c’era nessuno. Si era illuso.
Nuovamente. Abbassò il volto, e si odiò per quell’ultima flebile speranza. Un
gioco di luce, un riflesso, un lampo. Si girò di scatto a quarantacinque gradi,
verso la direzione dalla quale il plotone di Auricchio era giunto a spron battuto per inseguire e catturare la Belva.
Il classico
stormo di palloncini di diversi colori e dimensioni trasportava, leggiadra e
bella come non mai, la misteriosa ladra Saint Tail. Sotto il braccio sinistro,
tra l’ascella e il polso, il quadro di Osvaldo Paniccia.
Volava a bassa quota, a pochi metri da lui, sopra il fiume, parzialmente
nascosta dall’oscurità di quella sera. Era sana, era viva. Il codino, però, era
più scapigliato del solito, e sopra la calzamaglia marrone scura, tendente al
nero, c’era ben più di uno strappo. Anche la sua presenza era un po’ più
arrancante del previsto. Non era morta, ma c’era mancato poco.
Aveva il quadro.
“All’inferno anche il quadro”, concluse velocemente il giudizio della sua
coscienza Asuka junior. L’importante che fosse viva. Che le cacce fossero
continuate. Che quei biglietti fossero ancora arrivati. Ancora per molto. Per
sempre.
«Grazie, Saint Tail-sama», urlò a squarciagola il giovane detective,
ignorando tutta una serie di regolamenti e dettami, a partire, ovviamente,
dalla norma non scritta che vietano agli uomini di legge di ringraziare i
criminali a squarciagola. Ma se qualcuno, in quel momento, gliel’avesse fatto
notare, Asuka Daiki junior gli avrebbe mostrato in
pochi istanti il lato più triviale e sconveniente di sé. “Era viva”. Fece un
passo in avanti, non per inseguirla, ma per poterla vedere ancora più a lungo,
ma il vento, con uno scossone improvviso d’aria fresca, mosse qualcosa che
produsse un sonoro fruscio alle sue spalle.
Cos’era? Un’altra
folata, sentì qualcosa “tirargli” la giacca, dietro la schiena. Comprese. Aveva
qualcosa attaccato alla giacca blu da cantante di balera. Con difficoltà riuscì
a strappare un foglietto attaccatogli alle spalle con una puntina. “Possibile
che prima? La carezza?” Ma la carezza era sul collo…
Era stata Saint Tail? Ma perché? Era troppo buio per leggere: estrasse dalla
tasca il cellulare e con il display illuminò il pezzo di carta.
V’era scritto,
con una grafia veloce e disordinata, ma spiccatamente femminile, un messaggio
che pareva una presa in giro. «Ma è impossibile!» urlò Asuka junior, prima di
scattare in direzione contraria, verso i poliziotti, verso Auricchio, suo padre
e De Simone, «ma allora lui dov’è? E allora perché questo? Ma che diamine sta
succedendo?». Portava, stretto in pugno, quel foglietto, consegnatogli
personalmente da Saint Tail. Testo del messaggio: «彼らはフラッキアの目です[3] – Sono gli occhi di Fracchia».
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Ecco a voi la puntata 34. Un
commentino è sempre gradito.
Vi auguro in anticipo un Buon
Natale e un felice 2013 ricco di soddisfazioni!