Capitolo 14
Il concerto stava per avere inizio.
Le farfalle svolazzavano impetuose e piene di vita nel mio stomaco. Tolsi gli anfibi e le calze rimanendo a piedi nudi.
Salii sul palco. Tutto lo spazio davanti era gremito di punk, rocker e gente normale, tutti lì per noi, per me. Mi aspettavo venisse anche Cloe, ma lei non c'era. Per una ragione a me sconosciuta, quando me ne resi conto, mi agitai.
Ormai non potevo fare altro che parlare. Afferrai il microfono. Scovai nella parte più profonda di me una voce sicura e potente e cominciai.
–Benvenuti a tutti!– annunciai. Si zittirono. Applaudirono. Allungai un braccio e si zittirono nuovamente. –Se ancora non lo sapeste io sono Ronny, l'autrice dei post del blog “Genio”, quella che ha scalato la statua, in parole povere– risero e alzarono cartelloni con la mia immagine –vedo che non c'è bisogno di presentazioni, comunque...– mi voltai verso le quinte e uscirono Guido e Diego. Applausi. –ma questo è un concerto! Siamo venuti qui per ascoltare buona musica, le canzoni sono tutte in italiano così potrete capire meglio cosa intendiamo con la nostra battaglia. Se qualcuno di voi volesse contattarci potete andare sul blog: “Geni incompresi”, ma vi basterà digitare “Genio” e lo troverete. È aggiornato giorno per giorno. Se volete più informazioni potete chiedere direttamente a me o a Guido o a Diego. Non siamo la Chiesa, noi vi rispondiamo di persona. Non vi chiediamo soldi per entrare e nemmeno vogliamo l'elemosina, questa è una causa giusta! Non è un modo per guadagnare!– feci una pausa e tutti mi osservarono zitti –Divertitevi!– esclamai.
Un boato si alzò. Guido e la sua band iniziarono a suonare. Avevo un caldo incredibile con quei pantacollant, Aliviero mi diede dei pantaloncini di jeans che aveva portato da casa. Ora stavo molto più fresca, calzai le All Star nere e corsi in mezzo al pubblico.
Molti, quel giorno, s'iscrissero al blog. Tanti mi fecero domande e vollero conoscere Debby, struccata e con il vestito nero privo delle borchie che lo avevano ricoperto. Aveva i capelli legati in una coda di cavallo. Noi siamo noi stessi, la Chiesa fa vestire, fa essere le persone come vuole Lei, noi vogliamo la libertà di scelta.
L'aria si rinfrescò e la sera giunse, continuammo a suonare fino all'una. Cantai diverse canzoni, mi riuscivano bene perché avevo la voce arrochita dallo stress della giornata.
Un ultimo accordo e avrei proclamato finito il concerto, senza ombra di Chiesa o società segrete a suo favore.
–Bene! Silenzio!– ordinai, dovevo smetterla con quel tono autoritario –Scusate, dicevo, la serata sta per terminare, spero vi sia piaciuta! Sappiate che io sono a vostra disposizione per qualsiasi tipo di domande– salutarono con urla e grida di gioia.
I visi stravolti sorridevano. Staccai i fili dall'amplificatore.
–Aspettate!– la gente si fermò e cercò di capire da dove proveniva quella voce così simile ad una di mia conoscenza.
–Cloe! Fatti vedere– dissi prendendo il microfono.
–Certo– una luce si accese proprio sopra di lei. Lo sapevo, la folla era ancora lì, lo spazio pieno.
–E' facile fare concerti e aprire blog? Ci scommetterei. Sono qui per farvi una proposta– di male in peggio –domenica prossima il Papa verrà al duomo di Milano per celebrare la Santa Messa, vuole conoscerti Ronny, vuole conoscere tutti voi– voleva farci cadere in trappola –e tu, che ti proclami tanto coraggiosa e giusta, non avrai paura di parlare con quel vecchietto di Ziegler, giusto?– 'inganno!' urlava la voce nella mia testa –O vieni o non vieni, devi dirmelo adesso, non hai scelta–.
Avrei potuto controbattere. Ero libera. Ma il pubblico m'incitava con lo sguardo, avrei pagato io se fosse stato necessario.
–Vengo, ma ad una condizione–
rise –Quale?–
–Prendetevela con me se proprio dovete, loro non sono implicati–
–Non c'importa di loro, il problema sei tu, loro sono solo tante piccole pecorelle dietro la pastorella– disse e svanì. Ma come faceva?!
Cloe, in ogni caso, si sbagliava: abituata alla mentalità cristiana era certa che, senza di me, gli altri non si sarebbero potuti muovere. La nostra forza consisteva, invece, nell'essere indipendenti l'uno dall'altro.
Avrei comunque dovuto preoccuparmi per me. Solo Dio sapeva cosa desideravano farmi. Non pregai.
Desideravo che quella settimana durasse per sempre. Ormai buona parte dell'anno scolastico era andato e io a scuola stavo rimontando, la primavera era alle porte e già faceva tanto caldo da svenire. Studiavo, leggevo, aggiornavo il blog. Non ne potevo più. Mi diressi al telefono fisso. Schiacciai i tasti tondi e telefonai a Guido.
–Pronto... Chi è?–
–Sono Ronny–
–Ronny, dimmi, successo qualcosa con Cloe?–
–No, devi studiare?–
Rise forte –No... perché?–
–Che ne dici se facciamo un giro?–
–Mi piacerebbe, ma ti sei dimenticata che devo incidere oggi– il CD!
Doveva andare in sala registrazione e incidere! Sarebbe stato meraviglioso!
–Posso venire?–
–Porta anche gli altri, sono sicuro che ne sarebbero felici–
–Arrivo in sala!–.
Mi alzai dalla scrivania abbandonando il giornale di barzellette. In bagno mi rinfrescai e rimarcai la matita, mi spazzolai i capelli e osservai i miei vestiti. Fuori faceva molto caldo, guardai nell'armadio e trovai una maglietta lunga e grigia con delle scritte in hawaiano colorate. I pantaloncini di jeans, le solite All Star e via.
M'intrecciai i capelli in una treccia particolare che avevo imparato a fare da poco e salutai Mr. Cloud.
Non trovai Aliviero. Uscii, corsi per la strada, saltai sulla bicicletta da città che adoravo tanto e mi fermai alla cioccolateria. Con la treccia che si disfaceva al vento, Debby al mio fianco e Diego che stava arrivando, pedalai per la città.
Poi, d'un tratto, avvertii un sibilo sordo, una bottiglia mi prese di striscio la testa facendomi quasi cadere. Abbandonai la bicicletta pronta ad aggredire il mio aggressore, ma cambiai idea appena lo vidi. Papà. Lo sguardo era confuso, ubriaco, avevo promesso che lo avrei ucciso se lo avessi rivisto, ma non così, era ubriaco, non se ne sarebbe neppure accorto.
Risalii sulla bici e partii con Debby sempre accanto che non capiva.
Non avevo alcuna voglia di spiegare quindi tacqui.
–Guarda!– urlò Debby, io scattai sull'attenti intimorita, ma lei m'indicava un negozio di vestiti vintage. Sorrisi scoprendo i denti.
–Non mi piace il vintage– dissi.
–Si nota– disse con finto disgusto –solo un'occhiata, troverò qualcosa che ti starà benissimo–.
I vestiti in vetrina erano indubbiamente graziosi...
–Ti prego...– pregò.
–Non pregare– pausa –ok– dissi scocciata –ma facciamo presto– saltellò felice. Saltellò? Scossi la testa ridendo.
Mi prese il braccio e mi trascinò all'interno del negozio. C'era odore di naftalina. Era colmo di gente, il cartello dei saldi faceva effetto.
Debby mi chiamò, aveva messo un cappello di paglia che la faceva sembrare una contadina. Le stava bene, però.
–Ma questa è una salopette?– domandò entusiasta –Ronny?–
–Sì?–
Spiegò un abito del colore del sole, con tante sfumature. Era leggero e terminava a metà coscia. La scollatura a oblò era perfetta e non aveva le maniche, non avrei potuto mettere le solite scarpe con quello.
–Provalo– ordinò
–No– dissi. Me lo sbatté spiegazzato sul petto e mi spinse nel camerino. Alla fine lo comprammo.
Tornammo sulla strada per andare in sala registrazione e arrivammo poco più tardi dell'inizio, Guido non se ne rese conto.
Presi una sedia e vi poggiai le ginocchia rannicchiandomi.
Suonava davvero bene, lo capii quando la mia anima scivolò via dal mio corpo e s'introdusse nella musica che stavo ascoltando.
Chiusi gli occhi, quando li riaprii fu perché Diego era arrivato e mi aveva sollevata baciandomi.
Come se fossi di piume si sedette e mi adagiò su di lui. Avvertivo il suo profumo muschiato, quello che si metteva sempre e che conoscevo solo io perché ne metteva talmente poco da accorgersene solo se ti avvicinavi fino a sfiorargli il collo.
La musica di Guido mi faceva perdere il contatto con la realtà, la mia mente scappò in un'altra dimensione con Diego, non avrei voluto essere in nessun altro posto. Solo con lui.
Correre lontano, soltanto io e te.
Correre lontano dagli occhi della gente.
Correre dove non c'è più niente.
Correre e vivere in un mondo strabiliante.
Soltanto io e te... mio cuore.
Oh, Diego... lui era legato a me da una corda così forte da non potersi rovinare, nemmeno il coltello più tagliente l'avrebbe recisa. Quando ancora non stavamo insieme mi accontentavo di pochi secondi con lui, mi accontentavo di quel pezzo di strada che dovevamo fare ogni giorno insieme e da soli, facevo finta di parlare e lo aspettavo finché non mi si avvicinava e andavamo via. Arrivati alla fine della strada io dovevo salire sul tram e lui continuava a parlare noncurante di ciò, non mi voleva lasciar andare e io nemmeno. Sapevamo di doverci separare, ma la corda rimaneva, si allungava, ma persisteva, non si slacciava. C'era sempre stata e sempre ci sarebbe stata. I suoi erano gli unici occhi che non avevo mai avuto timore di scrutare, mi fidavo di lui. Era come se facesse parte della mia anima da sempre, quando se ne andava un nodo mi stringeva gli organi, il respiro mancava per un attimo e ricacciavo in giù le lacrime. Non potevo sciogliere un legame tanto forte. Avevo bisogno di lui per vivere. Io avevo conosciuto l'amore. Non c'è bisogno di ali per volare, c'è bisogno di un cuore per amare.
Io di solito parlavo sempre, tenevo con chiunque le redini del discorso, lui, invece, lo lasciavo parlare, lo lasciavo guidarmi, mi sentivo completamente al sicuro, sorridevo mentre parlava. Eravamo la stessa persona: non c'era bisogno di comandare l'uno sull'altro. Di dimostrare superiorità. Con lui mi sentivo appagata, felice, a mio agio. Litigavamo praticamente ogni giorno per qualsiasi tipo di motivo, sapevamo fin dove spingerci, sapevamo che litigando ci saremmo conosciuti di più. Condividevamo le stesse emozioni, gli stessi pensieri, se uno voleva una cosa, l'altro gliela dava. Era il mio più grande amico, il mio gioiello più prezioso. Lo osservavo parlare, battere gli occhi, ridere, litigare e non dicevo niente, non ce n'era motivo.
La musica s'interruppe, il mio sogno era ancora lì, che mi teneva stretta e pensava a come ci eravamo conosciuti, pensava alla tenerezza di quella scena, pensava che era impossibile non pensare e sogghignava tra sé. Sono sicura che, se gli fosse successo qualcosa, l'avrei percepito.
Quella sera andammo tutti e quattro a vedere un film appena uscito. Tornammo alle undici, poi ci comprammo un gelato e ce lo gustammo seduti su un dondolo. Guido evitò di bere e la serata passò spensierata.
Mercoledì.
Giovedì.
Venerdì.
Sabato... mancava un giorno.
Domenica.
Il sole mi accecò aiutato dal vetro della finestra socchiusa. Sbadigliai. Mi stiracchiai gli arti indolenziti e scostai le coperte.
La piccola cameretta color beige dotata di armadio, scrivania, libreria e letto non mi dispiaceva affatto. Molto meglio di un'algida stanza tecnologica. Illuminata dai raggi solari sembrava di essere su un altro pianeta, uno molto più antico e affascinante. Aprii la lignea porta del bagno interno alla stanza che non aveva bisogno di interruttori segreti e vi entrai. Urlai, fortunatamente non c'era nessun cadavere impiccato, ma solo Debby che mi scrutava sospettosa.
–Cosa fai qui adesso?!– chiesi con il fiato corto.
–Parlami del segreto della tua bellezza– disse tranquilla.
–Che cosa?–
–La merda rosa, su su, voglio sapere come fai a conquistare tutti!– strillò eccitata con la sua voce dolce.
–Conquistare tutti? per conquistare l'unico che mi piace ci ho messo tre anni!–
–Mm e intanto gli altri cadevano ai tuoi piedi– disse.
–Ah sì?–
–Sì–
–Non me n'ero accorta...- ammisi cercando di oscurare l'orgoglio che si stava impossessando di me.
–Come?!–
–Lo sputacchiume!–
–Eh?– feci una pernacchia ancora più orgogliosa.
–Andiamo!– s'innervosì.
–Cosa c'è?!– chiesi esasperata.
–Voglio sapere qual è il tuo segreto!–
–Io non ho segreti, Debby! Ora lasciami che mi preparo per andare ad incontrare il Papa. E, ora che ci penso. lo dovresti fare anche tu!–
–Ecco!– le si accese la lampadina –Tu non hai segreti, è questo il punto, tu sei talmente te stessa da essere pazzesca– sentenziò.
–Certo, certo– bofonchiai.
Smanettai tra i trucchi, ma lasciai perdere, mi lavai le mani, la faccia e uscii dal bagno. Debby mi seguì.
–Sai cosa farò? Mi metterò il tuo vestito– dissi.
–No! Non saresti più te stessa–
–Debby, inizi a diventare patetica– silenzio.
Indossai il vestito con delle ballerine beige comparse per caso, il caso si chiamava ovviamente Aliviero. Cercai Debby, ma non la trovai, sentii dei rumori provenire dall'armadio, la lasciai fare.
M'intrecciai i capelli, mi truccai al solito modo e aggiunsi del lucidalabbra che mi levai pochi secondi dopo.
Nel portagioielli scovai un piercing per il naso a forma di minuscolo fiore e lo infilai al posto del solito puntino brillante.
Un tocco di stile può servire alle volte, anche se trovai quel look per niente opportuno.
Tolsi il vestito e le ballerine. In mutande e reggiseno chiamai Debby. Comparì poco dopo indossando una camicetta bianca con una gonnellina e degli stivali alla cowboy. Sembrava proprio lei. Io invece m'identificavo in jeans a pinocchietto, All Star nere e la t-shirt di Spongebob. Sciolsi i capelli neri corvini con i riflessi blu.
–Cucciola, esci o devo entrare io?– domandò una voce maliziosa: Diego. Io e Debby ci scambiammo un'occhiata.
–Nasconditi– dissi.
–No–
–Perché?–
–Non voglio sentirvi scambiare effusioni–
–Mica facciamo sesso!–
–No–.
Sbuffai.
–Ciao Diego, entra pure, c'è anche Debby– dissi di malavoglia a voce più alta.
La porta si spalancò e una testa spuntò da dietro. Una testa di splendidi capelli neri, tenuti su da un po' di gel.
–Dobbiamo andare, così ha detto sua maestà– scherzò.
–Sua maestà, il messer Cloud?– chiesi stando al gioco. Annuì e fece un inchino. Poi mi baciò incurante di Debby che tossiva sonoramente e che se ne andò vedendo che non eravamo intenzionati a smettere.
Il bacio non è solo uno scambio di saliva, è uno scambio d'anima.
–Mmm, sexy la maglietta di Spongebob– disse Diego.
–In fondo non stiamo per fare niente d'importante...-–
C'incamminammo.
–Giusto?– mi assicurai.
Non rispose.