Dovrei dirti quello che provo per te. Dovrei dirtelo, e non sono costretto, sai? Lo sento, lo percepisco nel petto. È un bisogno essenziale. Soprattutto se, come me stanotte alle due meno un quarto, ci si sente in colpa, distaccati, ingrati e irrispettosi.
È un bisogno, ma a volte non si sa mai come esprimersi.
*
Fa caldo, qui. Il caldo che ti si appiccica addosso. Forse avrei preferito un soffio d'aria, anche se ormai nemmeno i ventilatori servono più a questo.
Ho l'album, qui. Proprio qua davanti. Ho deciso di sfogliarlo un po' assieme a te, che ne dici? Lo apro. È surriscaldato sulla superficie di plastica: l'avevo appoggiato sull'hard disk esterno. Puntiamo un po' la lampada qui, ti va?
– Qui sei piccola, col grembiulino a quadri azzurro e bianco e gli occhioni curiosi. Giocavi a stirare, chissà quanti anni avevi? Vediamo sul retro. 1999: avevi otto anni. Io forse quel giorno stavo a casa a giocare al regista con la mia vecchia videocamera e i miei pupazzetti. – Qui sei davanti alla scuola. La maglietta dei Metallica, la collana nera e la coda di cavallo. Hai gli occhi chiusi. Le tue spallucce mi fanno sorridere: vorrei abbracciarti, ora. Ricordo la consistenza della stoffa e il calore che dalla stoffa trapela, e vorrei abbracciarti. Tanto. – Nella terza sei sul letto, e mi sorridi, avvolta nel lenzuolo. La faccia giocosa e gli occhi ghignanti. Chissà se mi lascerai accarezzare la pelle delle tue gambotte morbide. Che dici, me lo merito? – Un primo piano, semisfocato e lievemente sovraesposto. Ma sei tu. Ridi, tanto. I dentini lineari e bianchi. Mi piace quando sei felice. Ti ricordi le facce stupide? Non ho mai riso così tanto, e a volte mi stupisco da solo di quanto sia bello farlo insieme. – Sdraiata sul materasso, mi guardi, serena e tranquilla. Le mani sul ventre. I capelli sparsi sul cuscino. Con quello sguardo così semplice e così attento, vivo. Sei tu. – Un bacio. Io e te. È così bello il tuo viso, il tuo nasino, il tuo occhietto chiuso. Non altrettanto si può dire di me, ma che ci si deve fare? Sarò destinato a stare dietro all'obiettivo. Così va la vita, come disse qualcuno. – Sul letto dei tuoi, tendi la mano verso di me, e sorridi. Un'espressione così particolare, strana se si vuole, eppure così familiare.
Potrei guardare la foto in silhouette, o quella dove sei seduta alla stazione, sulla terrazza che abbiamo fatto nostra, oppure quella decentrata che mi piace tanto, quella in cui balli davanti alla vetrina illuminata, quella in cui sorridi e guardi oltre il quadro, con l'angolino macchiato da una impronta delle tue dita inchiostrate, o quella di te appoggiata alla balaustra, che non ti piace ma che mi ricorda sempre te, oppure ancora quella in cui assomigli a Audrey Hepburn, mi dicono.
Potrei riguardare quella – sfocatissima – che ho estratto dal filmato che ti ho fatto il primo giorno, in macchina, e quella del McDonald's, e saremmo a sedici foto in tutto. Con le due che ti ho fatto in bagno, mentre ti asciugavi, quella sul pullman che tu odi, le due in cucina a casa mia, e quella in cui ti provi il vestito, arriviamo addirittura a ventitré.
In un secondo di film ci sono 24 fotogrammi, lo sapevi?
Puoi comprendere anche la prima foto che mi hai mandato, quella sera, e ne abbiamo 24.
Venti quattro piccole grandi foto, distanziate da un breve oscuramento.
Ora chiediti: a quanti fotogrammi al secondo è la vita?
Niente buio, niente pause. Un flusso continuo.
E anche i battiti di ciglia sono emozioni.
Ora pensa a tutte le emozioni che ti ho descritto per ognuna fotografia che ti ritrae.