Era notte
fonda,
quando mi svegliai. L non era di fianco a me, come immaginavo: spesso
la notte
stava alzato a risolvere casi o più semplicemente a
strafogarsi di torte
intanto che io non lo trattenevo…
Soffriva di insonnia a differenza di me che, quando volevo, potevo
dormire per
ore senza che una bomba atomica potesse svegliarmi, tranquillo come un
bambino.
Mi venne in mente una volta che mi ero svegliato con gli occhi del
panda
davanti e mi aveva praticamente fatto venire un infarto. E come
risposta al mio
spavento lui si era messo a ridere. Alzai gli occhi al cielo al solo
ricordo ed
entrai nella cucina. Lo trovai seduto a tavola, con in mano una
generosa fetta
di torta alla panna e il quaderno di Mina davanti, chiuso.
“L?”
“Oh, BB, vedo che ti sei svegliato! Vuoi favorire della
torta?” mi domandò con
un piccolo sorriso.
“No grazie, non ho molta fame. che cosa stavi
facendo?” risposi, mentre lui si
mangiava un gigantesco boccone di torta, suo tipico.
“Mmf… niente di che. Mi chiedevo se fosse il caso
di leggere ancora un po’, ma
mi frenava il fatto che tu non ci fossi.”
“Ora ci sono, se lo desideri possiamo andare
avanti.”
“Cosa ne pensi di ciò che abbiamo letto
ieri?”
“Cosa ne dovrei pesare scusa?”
“No, niente. Qualche ragionamento sulla morte dei genitori?
Dopotutto non hai
ancora mantenuto fede alla tua promessa di raccontarmi tutto di te,
no?”
“L… vado in bagno un momento.”
“Bella scusa. Non ce n’è bisogno, quando
vorrò davvero saperlo, lo saprò.”
Sogghignai alla sua sicurezza, e mi sedetti di fianco a lui, per poi
avvicinare
il diario e aprirlo alla pagina alla quale eravamo
arrivati.
La scelta
cadde su una canzone chiamata Knockin'
On Heaven's Door
(http://www.youtube.com/watch?v=2tmc8rJgxUI)
Cominciai a fare i primi accordi, studiando ansiosamente la reazione
della
gente: alcuni mi lanciavano un’occhiata di sfuggita e
andavano avanti pur
riservandomi un piccolo sorriso, pochi si fermarono ad ascoltare, altri
ancora
parevano non accorgersi affatto di me.
Infine, decisi di immaginarmi di essere sola con il mio migliore amico
di
allora, un bassista pazzo e pieno di problemi che però
trovava sempre il tempo
di ascoltarmi cantare e di darmi consigli.
Lo pensai seduto davanti a me, a guardarmi con quell’aria a
metà fra la risata
e la critica a gambe incrociate, con il basso nero in braccio. E per
puro
miracolo, riuscii a estraniarmi da tutto ciò che mi
circondava e diedi il
massimo per quella proiezione della mia mente, pur così
familiare.
Quando ritornai alla realtà, alla fine della canzone, la
prima cosa che vidi,
fu la faccia di una signora che teneva il manico di un grazioso
passeggino che
mi sorrideva apertamente e maternamente. Intorno a me si era formato un
piccolo
capannello di gente e alcune monete erano cadute nella custodia della
chitarra:
la mia cena.
Mi sentii decisamente rincuorata e feci a quelle persone un gran
sorriso,
pensando alla canzone che avrei cantato per seconda. La scelta cadde su
una
canzone che mi era sempre piaciuta tantissimo: Suzanne, di Cohen.
(http://www.youtube.com/watch?v=otJY2HvW3Bw)
Quando intonai le prime parole, ero molto più rilassata di
pochi minuti prima.
Non pensavo più alla mattina di quel terribile giorno. Ne
pensavo al futuro che
si profilava stentato e pieno di orrore. Pensavo solo al presente. Quei
volti
attorno a me, che come una fragile campana di vetro mi proteggevano da
ciò che
c’era all’esterno, mi circondavano e mi facevano
sorridere fra le parole.
Alcuni, lo si vedeva negli occhi, erano persi nella melodia che forse
ricordava
loro qualcosa di lontano.
Finii anche quella canzone, ma non mi fermai. Cantai invece altre tre
canzoni
che piacquero al piccolo e variegato pubblico, tanto che quella sera a
cena mi
permisi una pizza con le olive e una lattina di coca cola.
Mentre, seduta su una panchina, mangiavo e bevevo, cominciò
a piovigginare e il
problema della notte si fece ancora più insistente nella mia
testa: dove avrei
dormito?
Vagai alla cieca per le strade, cambiando marciapiede appena vedevo
qualche
barbone. Vidi per la prima volta una prostituta, asiatica, che mi
squadrò
dall’alto al basso.
Alla fine mi rintanai in un vicolo, dietro e sotto alcune scatole da
fruttivendolo. Fu una notte orribile.
La mattina mi svegliai con la schiena a pezzi, la chitarra stretta fra
le
braccia, una fame lancinante e una puzza di vomito nel naso che
proveniva dal
fondo del vicolo. Mi alzai, guardandomi intorno, ma fortunatamente non
c’era
nessuno. Così mi misi la chitarra sulle spalle e ripresi a
camminare. In un bar
presi una brioche per fare colazione e la trovai stantia, ma la mangiai
lo
stesso. La fame però non si attenuò. Quanto
desideravo la colazione che
preparava di solito mia madre. Però mi impedivo di pensarci.
Non potevo
permettermelo. Così andai avanti a camminare, cercando di
capire in che zona di
Londra fossi e scoprii di essere a Brixton. Fui costretta dalle
circostanze a
prendere un biglietto per la metropolitana e mi ripromisi di stare
più attenta
a dove mi portavano i piedi. Tornai in centro e feci alcuni concerti in
giro
per la zona, guadagnando tanto da permettermi di prendere delle
economiche
caramelle per la gola. Evitai di guardare i giornali nelle edicole, per
paura
di leggere titoli sulla mia famiglia. E su di me. Avevo paura di me
stessa in
quel momento. Di quello che avevo fatto.
Camminai tantissimo per i miei standard, e capii che sarebbe stata la
mia
routine. Suonavo, suonavo e suonavo ancora. Ma ero sempre
più disperata. Le
facce della gente sembravano sempre meno calorose, nel fondo dei loro
occhi
leggevo sempre che erano tristi. Ed erano così anonimi,
certi. Ancora una volta
mi frenai poco prima di pensare al mio incerto futuro. I miei giorni in
strada
erano faticosi e lunghi. Mai prima di allora mi erano mancate le mie
amiche, la
scuola, i professori… la mia vita. Mi sentivo
così spaesata! Non riuscivo a pensare
che avrei dovuto vivere quella vita per sempre, e ogni mattina mi
svegliavo
sperando di essere nel mio vecchio e comodo letto. Ma scoprivo di
essere in
stazione, su una panchina, per terra. La mia vita fu terribile per poco
più di
un mese, poi, proprio quando stavo per cedere,
una nota di colore decise di venirmi incontro. Stavo
camminando in un
parco, in mezzo ai numerosi alberi, mangiando un panino al prosciutto,
quando a
un tratto scorsi un movimento. Era una donna, piegata in due vicino a
un albero,
che si guardava intorno guardinga. Mi nascosi per puro istinto e quando
mi
girai, la donna non c’era più. Incuriosita, mi
avvicinai all’albero dove
l’avevo vista. Più mi avvicinavo più mi
sembrava che qualcosa si muovesse sotto
l’erba alta. Infine, mi accucciai davanti all’erba
che si muoveva in modo
anomalo e la scostai d’un colpo. Immaginati, mio bel lettore,
che sorpresa
provai nel vedere un piccolo cucciolo di cane nero guardarmi con gli
occhietti
lucidi e le orecchie tese.
Avvicinai la mano al suo musino ed essa venne accuratamente analizzata
dal mio
nuovo amico che decise che ero una tipa di cui fidarsi e mi
leccò l’indice, per
poi lanciare una specie di guaito e rotolarmi incontro. Sorrisi e lo
presi in
braccio, guardandolo. Si vedeva che sarebbe diventato un cane grande,
aveva un
musino destinato a diventare lungo,
un
orecchio dritto come una puntina e l’altro piegato
comicamente.
“E tu chi sei?” gli chiesi con una carezza.
Insomma, finì che lo adottai. Ma cosa potevo fare, lasciarlo
in mezzo al parco?
Così gli diedi metà del panino, un nome e una
corda perché non finisse sotto
una macchina.
Lo chiamai Nacho dell’Orecchio e lo tenni con me ovunque
andavo. Avevo sempre
desiderato un cane, e ora, nel momento in cui ormai non ci pensavo da
molto
tempo, eccolo cadere fra le mie braccia!
Era un cucciolo intelligente e coraggioso, anche se n po’
imprudente. Pensava
che i miei capelli verdi fossero qualcosa di unico e passava
metà del suo tempo
a tentare di salirmi in testa i primi tempi. Poi vide un ragazzo coi
capelli
quasi dello stesso colore e la smise grazie a dio.
fu veramente una nota di felicità in quel periodo della mia
vita, uno dei
peggiori.
Ogni volta che vedeva le mie lacrime, mi saltava in braccio e mi si
stringeva
al petto. Ogni volta che avevo bisogno di parlare mi guardava dritto
negli
occhi e alzava l’altro orecchio. E ogni volta che vedeva un
mio sorriso
lanciava un versetto di gioia e faceva una giravolta. Passarono ancora
due
mesi. Non mi capacito del fatto di poter racchiudere quei giorni in una
frase
di sole quattro parole, così banali e semplici. Furono un
vero inferno infatti.
Ogni giorno era diversamente terribile e se non ci fosse stato quel
cane non
credo ceh l’avrei superato. Spesso, troppo spesso, guardavo
con una sorta di
melanconico desiderio le rotaie della metropolitana, ma non arrivai mai
a
toccarle.
Poi, per la terza volta, la mia vita cambiò. Stavo cantando
una canzone dei
Beatles quando vidi, insieme a una moneta da un dollaro nella mia
custodia
cadde un foglietto. Appena smisi di cantare, dopo aver messo via i
soldi, lo
raccolsi cautamente, chissà cosa mi aspettavo. Lessi, in una
frettolosa
calligrafia un indirizzo non molto lontano da li e una breve frase:
è un centro
di accoglienza per quelli di strada.
Mi stupii che qualcuno si fosse preoccupato per me e diffidai per
qualche
momento di quell’indirizzo. Ma poi, scrollando le spalle e
accartocciando il
foglietto, mi avviai in quella strada con Nacho al seguito.
Mi ritrovai in una via molto
dimessa e
un po’ cadente, davanti a un portone aperto che dava su uno
squallido cortile.
Mi feci coraggio ed entrai, facendo risuonare per la prima volta i miei
passi
in quel posto.
Ricordo distintamente che quel giorno pioveva ancora e più
che mai quella
mattina, avevo desiderato un letto in cui infilarmi, un tetto che mi
riparasse
la testa, uno scudo fra me e il mondo a cui ormai appartenevo.
Ero dunque fradicia quando entrai, accompagnata da Nacho
nell’ingresso
dell’edificio, oltre il cortile scarno e puzzolente.
L’atrio era vuoto e freddo,
ma vidi una rampa di scale di un bianco sporco e decisi di salire. Dopo
tutto
cos’avevo da perdere? A ogni gradino che facevo mi domandavo
se fosse prudente
continuare a salire. Alla mia destra, sul muro, c’era una
macchia rossa e
densa, che poteva essere sangue rappreso, e per terra, al quinto
gradino capii
il perché della puzza di vomito che avevo sentito poco
prima, vedendo una larga
macchia verde e liquida che mi affrettai a superare. Sembrava che quel
posto
non avesse mai visto un detersivo o un moccio.
Ma nonostante l’odore, continuai a salire. Arrivata al primo
pianerottolo,
sulla porta vidi una targa in finto ottone che diceva:
“Centro di accoglienza
per giovani di strada”.
Allora era vero, qualcuno si era preoccupato per me! Quasi non ci
credevo.
Cautamente, aprii la porta e vidi un ingresso con una minuscola
scrivania
sommersa di fogli e dietro di essi una donna bruna che lavorava. Appena
sentì
la porta aprirsi, alzò lo sguardo e mi rivolse un caldo
sorriso. Mi accorsi di
non riuscire a rispondere a quel gesto. Così rimasi ferma
sulla porta,
impassibile, con Nacho di fianco e la chitarra a tracolla insieme alla
borsa
con la cinghia allentata.
La donna bruna si alzò e mi si avvicinò
porgendomi la mano e presentandosi.
Disse di chiamarsi Katie e di essere una volontaria che lavorava li
qualche
giorno la settimana. Io le risposi stringendole la mano e accennando al
fatto
di chiamarmi Mina.
“Vuoi fermarti qui per un po’? basta che firmi li e
avrai una camera tutta per
te, la colazione e la cena ogni giorno. La domenica anche il pranzo! Ti
va
allora?” mi chiese con una gentilezza che avevo dimenticato.
Guardai un momento il mio cane, che annusava la ragazza tutto felice.
“Emm… ma se mai desidererò andarmene
potrò farlo senza vincoli, vero?” le chiesi,
pur pensando che avevo ben poche possibilità di trovare un
modo per uscire
dalla mia situazione.
“Certo che si! Puoi andartene quando vuoi se lo desideri!
Dunque, firmi?”
“Ok.” Risposi, prendendo la penna che mi porgeva e
mettendo la mia firma su un
foglio.
“Bene, ora se mi segui ti mostro la tua camera!”
esclamò la bruna soddisfatta
incamminandosi per il corridoio.
In quel momento decine di domande mi infestarono la testa. Stavo per
trovare
una casa? Stavo per cambiare vita? E come? Sarebbe stato bello? Sarebbe
stato
terrificante? Avrei incontrato qualcuno di simpatico? Mi sarei
emarginata?
Avrei fatto qualcosa nella mia vita? Quanto sarei rimasta li? Tutta la
vita?
Pochi giorni? Qualche mese? Avrei conosciuto qualcuno con cui suonare?
Avrei
vissuto male? Bene? Così e così?
Poi, la bruna aprì una porta e mi lasciò sola
davanti alla mia nuova camera.
alla mia nuova casa. Aveva le pareti completamente bianche e il
pavimento in
legno. Un letto rifatto stava a sinistra, contro il muro, e alla sua
destra
avevano messo una piccola scrivania e una sedia. Sull’altra
parete un armadio e
di fianco a me un paio di scaffali con qualche libro riposto. Non era
un
granché ripensandoci, ma a me sembrò un paradiso!
Una stanza tutta per me! Con
addirittura una serratura e una chiave! Fu allora che il corso di danza
diede i
suoi frutti e senza pensare cominciai a danzare per la stanza, con
Nacho che
saltellava intorno contento. Volteggiavo tra ciò che sarebbe
stata la casa dei
miei pensieri da quel giorno stesso, anzi già lo era! In
quel momento, da quel
momento, sarebbe stata la custode dei miei sogni, dei miei pianti,
delle mie
risa, dei miei ricordi, di tutta la mia esistenza, di me insomma! Ero
completamente estasiata da quelle quattro mura, soprattutto da quando,
avvicinandomi
ai libri avevo visto che il primo titolo era quello del mio libro
preferito:
Romeo e Giulietta! Un’ombra di familiarità
passò sul mio volto, mentre lo
prendevo e lo aprivo, trovavo la pagina che cercavo e cominciavo a
recitare.
Romeo, Romeo, perché tu sei Romeo?
…
Anche senza il suo nome, la rosa avrebbe il suo profumo e
così Romeo, anche
senza il suo nome, sarebbe caro com’è!
…
Non sei Romeo, uno dei Montecchi?
Ne l’uno ne l’altro se non ti è caro ne
l’uno ne l’altro!
…
Sono alti i muri del giardino e aspri da scalare!
Quanti ricordi riaffiorano in me solo a scriverle, queste parole! Mi
ricordo
che mentre recitavo mi sembrava di vedere i volti dei miei compagni di
teatro e
di sentire le loro voci! Ero così felice in quei momenti!
Dopo aver finito di
recitare mi buttai sul letto (e non ci fu modo di convincere Nacho che
non doveva
dormire insieme a me… ) e in poco tempo, sfinita, mi
addormentai così com’ero.
Chiudemmo
il
libro.
“Allora L, cosa ne pensi della nostra Mina?”
“Sapevo che nascondeva misteri, ma non sapevo che fossero di
questo genere.
Certo è che ne ha passate di belle e che sono molto
combattuto: da un lato sono
molto curioso di sapere tutto del suo passato,
dall’altro… ”
“Dall’altro?”
“Dall’altro diciamo che mi sento un po’
indiscreto. E non voglio prendere
questa questione in modo diverso da quello che è:
cioè una questione personale.
Ho paura di ricadere nel mio spirito investigativo e trattare la
faccenda
freddamente. Capisci quello che intendo? Ho paura di leggerlo come si
legge un libro.
Cosa dovrei fare?”
“L, se ti fai queste domande vuol dire che non lo stai
prendendo come un libro,
anzi il contrario.”
“Sai sempre cosa dirmi tu, vero?”
“Esattamente. Cos’ho da fare oggi?”
“Sei impegnati tutta la mattina.”
“Che felicità… ”
“Perché non ti piace il tuo lavoro?”
“Assai, ma quando a casa c’è qualcosa di
tanto gustoso…”
“Ti aspetterò per leggerlo, non ti
preoccupare…”
“Ma io non intendevo il diario, L.”