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Autore: Waanzin    26/12/2012    1 recensioni
In una Gotham City sempre più simile all'inferno sulla terra, la vita della ragazza problematica Harleen Quinzel sta per essere stravolta suo malgrado dalla guerra tra il bene ed il male, rappresentati da un vigilantes mascherato che alberga tra le ombre e dal "principe pagliaccio del crimine".
Genere: Dark, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Otherverse | Avvertimenti: nessuno
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Atto Secondo: Moka
 

Harleen sapeva di star perdendo se stessa. Una sensazione del tutto nuova e allo stesso tempo dolorosamente familiare la stringeva come un serpente, mentre lei fingeva di voler bere il suo caffé nello Starbucks meno frequentato della città.
 
Si trattava di uno squallido localino che in tempo era stato una bettola per malavitosi, cambiato solo in superficie da quando la grossa catena aveva aggiunto coloratissimi tavoli e un paio di tristissimi poster pubblicitari a distrarre dalle macchie unte sul pavimento e dai fori di proiettile sulle pareti. Quella mattina, lei e una barista che aveva tutta l'aria di star smaltendo una brutta nottata erano le sole a occupare il locale. 
 
La piccola borsetta a forma di bara, un tempo lucida, dondolava sgualcita ed opaca tra le sue mani mentre lei teneva la testa bassa seguendone i movimenti con lo sguado, immaginando il Revolver al suo interno che ciondolava cupo e solenne. Sul tavolo davanti a lei, ignorata, una tazza di caffé bevuta per metà ormai fredda attendeva invano il prossimo sorso.
 
Il suo volto, coperto per una buona parte di bende improvvisate ed arrossate dal sangue, era una maschera di apatia e smarrimento... non c'era traccia della follia omicida di poco prima, la stessa follia che l'aveva spinta ad uccidere un uomo e a lasciarne il cadavere nel suo appartamento, senza preoccuparsi delle conseguenze che uccidere un uomo avrebbe certo lasciato sulla sua psiche. Conseguenze che avevano fatto sentire la loro plumbea presenza di lì a poco, senza chiedere il permesso, facendola piombare in uno stato di catatonia.
 
Ora contemplava il suo fallimento più grande: persa la ballezza, perso quel poco straccio d'umanità che ne faceva una ragazza smarrita in cerca di redenzione, Harleen era solo un'altra pazza omicida, di quelli che brulicavano per le strade di Gotham tutti i giorni, che incrociava con lo sguardo sulla metro tutti i santi giorni, celando a malapena il disgusto e soffocando la paura. 
 
«Tutti a terra! A terra, maledizione!!» 
 
La porta a vetro del locale si spalancò con forza esplosiva e due sagome schizzarono all'interno, mentre i vetri opachi cascavano sul pavimento con una cacofonia di rumori che penetrò la testa dolente di Harleen come una lama.
 
I due avevano abiti sgualciti e fetidi che, tutto sommato, ben si amalgavano con ciò che li circondava, ma era un singolo particolare che fece scattare gli occhi di lei: la maschera. Non si trattava di due rapinatori qualunque, ennesime anime perdute in una città già piena, ma di scagnozzi... quella mascherà da clown in vinile così appariscente, nei colori del bianco e del verde, non lasciava dubbi. 
 
L'attenzione dei rapinatori era concentrata sulla cassiera, così come le canne delle due semiautomatiche che stringevano in pugno: in quegli orari il locale era abitualmente deserto, e probabilmente i due non si aspettavano che in un giorno qualunque del freddo inverno la regola avrebbe visto la sua eccezione. Per questo fatale errore, nessuno dei due la vide schizzare verso di loro come una pantera in balia di una furia sanguinaria.
 
Lei non aveva neppure ragionato sul da farsi, o tentato di tenere a freno il fremito che come un demone si era impossessato del suo corpo quando aveva collegato i loro volti all'uomo che servivano: aveva lasciato che il sangue scorresse caldo e frenetico nelle vene mentre sfoderava la pistola dalla borsetta senza fare rumore, poi si era scagliata in avanti urlando, spinta da quel desiderio di vendetta e da quella forza inarrestabile tipica di chi ha perso tutto.
 
BANG.
 
Il colpo ravvicinato del Revolver trasformò la maschera del primo rapinatore in un grottesco dipinto surrealista, mentre sangue e materia grigia cadevano con un tonfo umido sul bancone e sugli abiti della ragazza dietro il bancone, la quale si gettò a terra in preda allo shock. Il forte rinculo dell'arma colse impreparata la ragazza e le slogò il polso, ma l'adrenalina nel suo corpo faceva più effetto di qualsiasi anfetamina si fosse presa in passato e stava tagliando fuori dal suo cervello qualsiasi percezione del dolore... trasformando Harleen in una macchina per uccidere.
 
BANG.
 
Mentre il cadavere del rapinatore cascava in una pozza di sangue sul pavimento lurido, il suo compagno di sventure rimase attonito a guardare il secondo proiettile perforargli la spalla e finire la sua corsa contro il muro alle sue spalle, mentre una nuvola rossa si sollevava dalla stoffa ridotta a brandelli: la traiettoria, deformata dal rinculo del primo sparo, non era stata altrettanto precisa. Sorpreso ma non distratto da quel colpo di fortuna, lanciò un grido disumano mentre alzava il braccio ferito, stringendo la pistola nera e lucida tra le dita tremolanti. 
 
«Maledetta puttana!» BANG BANG BANG. Tre colpi rapidi della semiautomatica, e Harleen si ritrovò piegata al suolo mentre lo stomaco sembrava volerle prendere fuoco, avvolto da spire di dolore mentre il bacio rovente dell'acciaio s'insinuava tra le viscere. Uno solo dei tre proiettili aveva fatto il suo dovere, ma era più che sufficiente a farle vivere l'inferno... con la forza della disperazione, Harleen sollevò il braccio e puntò ancora una volta la pistola contro la sua temporanea nemesi. 
 
Sotto la maschera, il respiro dell'uomo era affannato, mentre il dolore alla spalla gli rendeva quasi impossibile mantenere la presa sulla pistola dopo aver fatto fuoco così rapidamente: ora il braccio ciondolava inerte e la pistola cadeva verso il pavimento...
 
Tre secondi. Tre secondi e la pistola stava toccando il pavimento, tintinnando sul parquet marcio e trattato... ad Harleen sembrarono giorni. La rabbia, la disperazione e la crescente follia furono tutto ciò che le tenne sollevato il braccio, che tenne stabile il Revolver da dieci tonnellate tra le sue esili dita pallide, mentre faceva fuoco. Una volta, e una seconda. Poi tre, quattro. Un intero caricatore venne scaricato contro il corpo dell'uomo prima ancora che questi potesse toccare terra. Nuvole purpuree le turbinavano intorno mentre il rombo di ripetuti tuoni copriva lo stonato CRACK del suo polso, che stanco di resistere a tutta quella insensata violenza cedette dopo l'ultimo sparo.
 
 
Infine, come dopo un amplesso per niente piacevole, tutte le sue membra si rilassarono, rilasciando calore quasi palpabile nell'atmosfera intorno a lei. Ancora in ginocchio, diede una fugace occhiata al suo ventre che vomitava sangue sui pantaloni di pelle un tempo lucida, mentre il baratro si apriva sotto le sue gambe stanche e tutto il locale cominciava a girarle intorno sempre più velocemente...
 
Solo dopo qualche minuto di silenzio, la barista si convinse a uscire dal suo nascondiglio improvvisato dietro il bancone, ancora sporca e con quelli che avevano l'aria di essere pezzi di cranio adagiati sulle spalle come forfora. Soffocò un gridolino quando si accorse che non era l'unica ad essere cosciente nel bar: una figura femminile alta e snella torreggiava sui cadaveri dei rapinatori e sul corpo privo di sensi di Harleen, studiandoli con lo sguardo torvo.
 
«Uomini del pagliaccio, qui? Dovrebbe saperlo che questo è territorio mio...» cantilenò lei, la voce soffice come petali di rosa in contrasto con l'inflessione secca e dura delle parole,mentre si voltava verso la barista «Tu dormi, mia cara... la ragazzina la prendo io».
 
Quelle furono le ultime parole che Julie Madison, proprietaria del più squallido Starbucks di Gotham, seppe decifrare. Tutto ciò che poté descrivere ai poliziotti del GCPD quando rinvenì, ore dopo, erano una bocca femminile rosso fuoco e un vago profumo di fiori. 
 
-
 
Quando riprese conoscenza, la prima cosa che il suo corpo le comunicò fu il fresco delle bende nuove sulla faccia e una leggera sensazione di nausea. Non aveva più la sensazione che metà del suo volto stesse prendendo fuoco, sciogliendosi come cera di una candela, perciò concluse che qualcuno doveva non solo aver cambiato il terribile bendaggio fatto in casa, ma anche medicato appropriatamente la ferita. Anche il polso, dolorante, era avvolto in bendaggi che lo immobilizzavano insieme ad un lungo pezzo di legno anatomico.  
 
Non che la cosa la facesse sentire poi così al sicuro: si trovava legata ad una vecchia poltrona di legno, le imbottiture quasi completamente marcite, le braccia e le gambe immobilizzate da quelle che le sembravano liane verde scuro. Tutto intorno, solo oscurità: un arco di luce proiettato da chissà cosa direttamente sopra la testa le permetteva di guardare solo se stessa e parte di un pavimento in asfalto grezzo che non lasciava trapelare alcun indizio. La sua attenzione cadde più che altro sugli abiti che aveva indosso: capì che nonostante fossero gli stessi portati durante l'incursione criminale allo Starbucks e la terribile notte del giorno prima, dovevano essere stati puliti e poi rimessi al loro posto. Rabbrividì al pensiero.
 
«Bene, sei sveglia. Ce ne hai messo di tempo.» Con un tono troppo soave per essere naturale, la voce proruppe da una figura che fuoriusci lentamente dalle tenebre dritto davanti ad Harleen. Non le fu difficile distinguerla: la pelle della donna sembrava brillare di una fioca luce interiore color di giada, mentre i capelli erano una nube arancione confusionaria e seducente allo stesso tempo. Il corpo sinuoso era coperto da quello che sembrava un ridicolo costume da bagno a pezzo unico, interamente composto da foglie verdi e profumate di chissà quale pianta.
 
La prima sensazione che la ragazza senti eruttare dal profondo a quella vista, fu l'invidia: quella donna, nonostante l'inusuale pigmentazione del volto, ostentava con aria di sufficienza una bellezza e una perfezione nei lineamenti che a lei era stata recentemente negata per sempre, fissarla non era altro che ricordarsi dello sfregio sul volto, della delicatezza perduta.
 
«Chi diavolo sei?» ruggì Harleen, quasi sorprendendosi del suono della propria voce e sentendo il dolore avvampare sul lato sfregiato mentre muoveva le labbra. 
 
 «Uh, la piccola ha carattere. Non mi sorprende, considerando come hai ridotto gli scagnozzi del Joker...» solo a sentirne il nome, la ragazza cominciò a dimenarsi nei viticci che la imprigionavano, rimanendo stordita quando questi si ritirarono lasciandola libera. Cadde in ginocchio proprio mentre la luce avvolgeva il posto accompagnata dal tonfo metallico di un sistema elettrico industriale. 
 
Riacquistando la posizione eretta, Harleen finalmente comprese che la sensazione di vaga nausea che provava da quando aveva ripreso i sensi era in realtà indotta dal pressante odore di vegetazione che permeava l'aria. Si trovava in un gigantesco capannone disordinatamente riempito di grossi bancali di legno marcio, circondati ovunque da una fitta varietà di piante dalle forme più strambe che Harleen avesse mai visto... fiori e liane apparivano più che capaci di rappresentare un pericolo.
 
L'istinto le gridò di attaccare quella bizzarra donna verde ma, per la prima volta da quando il pugnale le aveva trafitto la guancia, si costrinse a tenere a freno la furia cieca che aveva davanti e si limito a incenerirla con lo sguardo, sputando le parole come se contenessero acido solforico«Devi essere un altro di quei freak che fanno dentro e fuori dal manicomio di Arkham, costantemente presi a calci da Batman... ora la domanda è... perché sono qui? Se cerchi un riscatto, buona fortuna.»
 
Mentre parlava, notò una lieve reazione negli occhi della donna. Evidentemente aveva trovato un punto dolente, ma il suo slancio non durò. La donna sollevò una mano e la interruppe con una risata melodica, prima di sorriderle e scandire con tutta un discorso che sembrava quasi preparato:
 
 «Ti ho vista all'azione, e sono piuttosto sicura che scoprirai di essere più simile a noi di quanto immagini. Tuttavia» continuò, mentre le si avvicinava con aria tutt'altro che minacciosa «non è questo che ha catturato la mia attenzione. Hai massacrato due degli uomini di quel buffone, che si erano avventurati nel mio territorio... e con uno stile alquanto... seducente. Perciò, quando in situazioni normali saresti già parte dell'humus che nutre le mie adorate» accarezzò una delle piante più vicine, con fare materno, poi proseguì rapidamente «la tua convincente "audizione" mi ha convinto ad offrirti una possibilità. Ti va di assaporare la vera follia, piccola bambina? Chissà, potrebbe piacerti... e magari, un giorno non molto lontano, sarai tu a togliere di mezzo quella scocciatura in technicolor che fa il buffone nel mio giardino...»
 
Confusa per la seconda volta da quando la conversazione era cominciata, Harleen si trovò di fronte una mano affusolata che le veniva offerta in segno d'accordo, le unghie bordeaux che brillavano sotto la luce delle lamapade che illuminavano il largo capannone. Il suo cervello elaborò centinaia di migliaia di diversi esiti per quella situazione nel giro di un secondo, ma la vendetta... quella piccola, unica occasione di vendetta che il destino beffardo le stava concedendo, non poteva andare sprecata. «Ci sto.» affermò stringendole la mano (dava una sensazione umida, ma non del tutto sgradevole... come di erba appena tagliata) e tentando con poco successo di distorcere le labbra doloranti in un ghigno sorridente.
 
Di tutta risposta, ricevette solo un sorriso e un cenno che le indicava di seguire la sua rapitrice fuori dal capannone. Mentre s'incamminavano attraverso un intricato labirinto di piante esotiche, lei ruppe il silenzio una sola volta, voltandosi verso Harleen con quello sguardo sornione a cui la ragazza si stava già abituando:
 
«Ad ogni modo... puoi chiamarmi Pam.»

 
H A R L E E N

Fine del Secondo Atto.
 
 
  
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