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Autore: elrohir    16/07/2007    0 recensioni
Una notte, un duello. Un angelo guerriero inchioda a terra il suo nemico. Dovrebbe ucciderlo. E non lo fa. L'amore fuorilegge e intenso tra un ragazzino ribelle, segnato dai lutti, e un soldato incaricato di reprimere i disordini della capitale. I luoghi sono gli stessi de Il ricamo di lacrime, se qualcuno l'ha letto. E anche gli eventi. Alla fine, tornano anche alcuni personaggi.
Genere: Romantico, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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La leggenda che sto per raccontarti, amore, è antica, oscura come le grotte in cui sono nato, come il mare notturno che cullav

La leggenda che sto per raccontarti, amore, è antica, oscura come le grotte in cui sono nato, come il mare notturno che cullava i miei giorni.

È una storia vecchia quanto il mondo, quanto l'aria che stai respirando. Una storia che ha mille versioni, che è passata su infinite bocche, arricchendosi di voci e di sogni. Si è trasformata in poesia, in canzoni e in ballate, in melodie, in racconti da narrare intorno al fuoco. In fiabe sussurrate dalle madri al silenzio dei loro bambini. Ha abitato le voci giovani di ragazzini che scherzavano con gli amici, e quelle senza tempo dei vecchi saggi.

Esistono tragedie costruite su essa, che le compagnie di acrobati, un tempo numerose, rappresentavano ad ogni spettacolo.

Ma adesso è stata bandita, chiunque la racconti viene incarcerato. Neanche voi siete sordi al suo potere.

Ne avete paura. I tuoi governanti, Giuliano, conoscono soltanto la versione più sciocca, che quasi niente conserva delle antiche rivelazioni, e nonostante questo la considerano più pericolosa di una rivolta armata.

Io l'ho cantata alle guardie, il giorno che sono stato arrestato, e per questo mi hanno preso e rinchiuso e…

Scusami Giuliano, non posso ripensare a nulla di quel giorno. Neanche le tenebre che ci circondano sono abbastanza fitte per ripararmi, neanche il respiro degli dei silvestri che ci guardano dalle chiome degli alberi basta a rassicurarmi.

Nulla può proteggerti dagli incubi, Giuliano, questo ho imparato nella mia vita.

Le parole che sto per dire, tranquillizzati, amore, non mantengono la magia. Se raccontassi questa storia nella nostra lingua, sarebbe un sortilegio incontrollabile, non saprei gestirlo. Ma la traduzione è docile, si lascia facilmente imbrigliare. Tutto in voi è così. Da noi, invece, ogni suono è ribelle, decide se lasciarsi pronunciare o meno, e quando scivola sulla voce non si spegne subito, no, resta per un attimo a vibrare, come a ricordarti che niente è in tuo potere, ma segue un disegno nascosto, un disordine iniziale che ti permette di perdere la strada, quando cammini nei boschi come quando parli, per ritrovarti in un altro luogo, per scoprirne i segreti.

A me capita sempre, ogni volta che apro bocca, ed è per questo che spesso preferisco tacere, ho visto troppo, inizio a temere il mistero, a temere questo sangue che infiamma le mie vene e mi sospinge verso altro, verso di te quella notte in cui duellammo, verso questa radura il giorno in cui morimmo…

Giuliano fermami quando vedi che ho imboccato una strada troppo impervia. Quando vedi che i miei occhi sono bui, e le ombre danzano al ritmo delle mie parole, fammi tacere, baciami, stringimi forte, picchiami. Non voglio smarrirmi, non posso farlo qui, ora, non saprei tornare indietro.

Vedi, Giuliano, loro sono lì. Nell'aria. Che aspettano di ascoltare la loro storia e ridono del mio turbamento, acqua cielo, mi accarezzano teneri e sorridono, e io li amo, Giuliano, li ho sempre amati. La loro storia è la nostra, in un certo senso, solo che loro conobbero la libertà prima di tutti, e prima di tutti la persero.

Erano due gemelli. Vivevano nei giorni in cui non esisteva ancora nulla, non il male non il bene non la guerra, vivevano e si amavano, amavano tutto perché tutto non esisteva, camminavano per le strade che si intravedono a volte nelle notti serene, camminavano e attraversavano quelle vie celesti illuminando il buio con la loro bellezza.

Perché erano bellissimi Giuliano e questa era la prima cosa che si capiva guardandoli. Non potevi pensare ad altro perché erano bellissimi, erano la perfezione fatta carne, avevano lo splendore di un'aurora boreale, la gelida geometria dei cristalli di neve e il caloroso disordine del fuoco danzavano sui loro visi.

Qual è la creatura più bella che hai mai visto? Quando ti è capitato di tacere e contemplare, così, senza pensieri, per il puro piacere di osservare, dissetandoti di quel che vedi come fai con acqua fresca dopo giorni di deserto?

Neanche la bellezza di Fortunato è paragonabile alla loro, perché lui è terreno, e ferito, mentre loro erano aria e luce, erano spiriti.

E se insisto così tanto sul loro aspetto è perché fu esso a scrivere il destino, fu proprio la loro bellezza a maledirli, a dannarli.

Non posso dirti i nomi, Giuliano, sono formule magiche troppo potenti. E loro sono troppo vicini…

Tradurli del resto è impossibile, ma sappi che nella nostra lingua significano mare e cielo. Sono formule arcaiche, certo, non di uso comune: ma quello è il loro significato originario, e capirai perché.

Erano bellissimi, e liberi.

Liberi, amore. Liberi.

E questa era la seconda cosa che notavi, l'indisciplinatezza, non vi era nulla di docile in loro, nulla, potevano essere amabili e teneri come giunchi ma restavano dritti, non si piegavano.

Erano nati dal vento, capisci, dal vento che nessuno può fermare, e il sole aveva temprato i loro cuori per renderli caldi e aperti al confronto, per renderli duri come diamante.

La libertà li vestiva, mentre camminavano in quel loro Eden siderale, e danzava al loro fianco, si stringeva a loro negli abbracci ebbri di gioia.

L'ordine ben tollera la bellezza, purché questa diventi un oggetto, sottomesso ai suoi comandi. Ma la libertà gli è del tutto intollerabile, lo sai, perché essa è caos, è disordine, è assoluta negazione di ogni punto fermo, di ogni potere, è la più alta forma di felicità, e la felicità non è mai sensata. La felicità è folle, indescrivibile, non accetta confini.

Gli dei traevano piacere dal contemplarli, anche se era loro vietato sfiorarli. Non importava, perché erano talmente luminosi che bastava guardarli per star bene.

Ma la scivolosa linea del tempo non si interruppe, non smise di segnare cambiamenti, e mentre le polveri dell'universo si raggrumavano, si radunavano in ammassi di terra, in giganteschi pianeti che orbitavano nello spazio e che pulsavano a ritmo col cuore di lava, qualcuno decise che era giunto il momento di porre fine a questa danza.

Non c'è una certezza su chi fosse quel dio, in tutti questi anni non siamo mai riusciti a tratteggiarne un ritratto soddisfacente. Era bello, come tutti gli dei, e adulto, perché la rigidità fa parte della crescita, e l'ordine mal si addice a un viso imberbe. Aveva l'aspetto di un bell'uomo maturo, probabilmente, con la barba e i baffi, e gli occhi di metallo.

Somiglia al vostro dio, in parte, e non è così strano pensare che siano la stessa persona, e che questo che ti sto narrando sia lo stesso vostro mito visto da una diversa angolazione. Soprattutto, non è strano considerando la vostra convinzione nel crederci seguaci del diavolo, un diavolo maledetto e splendente, che deve la sua caduta proprio a un gesto ribelle.

Ma non voglio spingermi troppo in là nelle supposizioni, Giuliano, perché non è importante questo, non cambia la storia, semplicemente allarga l'orizzonte, permette di vedere altro in questa nostra guerra, di leggervi un significato più recondito, di nuova replica di tragedia antica.

Quel dio, comunque, che è soltanto uno tra i nostri, il dio dell'ordine e del metallo, del duro che non da figli e che resta rigido, quel dio costrinse i gemelli a una scelta vergognosa, che infiammò le loro candide gote.

Nessuno conosce con certezza quali furono i termini della sua proposta, il pudore impedì ai primi cantori di spiegarlo in dettaglio, la tenerezza impose loro di passare oltre.

Posso solo immaginare una profferta sessuale, nonostante il cuore si ribelli al pensiero e sanguini per il dolore del sacrilegio, sacrilegio ripetuto, lo so, su di noi, sui miei fratelli.

Arrossisco immaginando la mano protesa verso le loro carni perfette, arrossisco per la vergogna di quell'essere che osò violare una tale purezza, e mi figuro i loro visi imporporati e sdegnosi, e le loro voci cristalline giurare che mai, mai e poi mai avrebbero ceduto.

Solitamente si tralascia questo oscuro passaggio, si preferisce concentrarsi sul rifiuto, fiero e doloroso.

Loro arretrarono, scossero il capo, piansero e urlarono nello scoprirsi prigionieri tra le mura.

Il dio rimase muto, tacque guardandoli disperarsi, attese di vederli stremati prima di parlare.

E ai loro occhi rossi, alle loro lacrime, ripeté la proposta.

Poi la rabbia accecò il suo sguardo, e loro conobbero il dolore, conobbero la violenza e la sopraffazione, quel giorno, nella loro prima prigionia.

Quando tutto finì loro restarono fermi fianco a fianco, spezzati, piangenti, rabbiosi.

E poi uno dei due alzò gli occhi, e l'altro non poté impedirgli di parlare, non fece in tempo, le labbra si erano già aperte e la voce, non più cristallina, ma bassa, profonda come il mare, sibilò odio indicibile, e veleno, e maledizioni.

Il dio sorrise, metallico, e decise la pena.

Per punirlo della sua insolenza, e per punire l'altro della fierezza, li condannò alla separazione. Deliberò che quello che aveva parlato fosse scaraventato su uno dei pianeti appena nati, e che l'altro rimanesse nel cielo, a guardarlo, essendo la sua colpa meno grave.

Gli ordini furono eseguiti, Giuliano, in maniera esemplare.

Uno dei due gemelli cadde sulla terra arsa, e a quel tempo non c'era ancora vegetazione, non c'era ancora niente. Cadde morto, Giuliano, morto, lui, quella divina stella.

L'universo intero venne scosso da questo fatto. Il pianeta respirò più profondamente, avvolse quel corpo in dolci nubi di fiato. Pianse, e le sue acque andarono a mischiarsi con le lacrime del gemello, che dall'alto del cielo, incatenato al firmamento, piangeva disperato.

I ruscelli cominciarono a segnare il terreno, a bagnare la polvere, impastarla, darle forma.

Minuscoli esseri striscianti presero a percorrere le immense distese, e nei secoli crebbero e mutarono. Alcuni scesero ad abitare gli abissi dei mari appena nati, altri si innalzarono per scoprire i cieli. Le praterie si ritrovarono percorse da animali strani, veloci e minuti, feroci e intelligenti. Cominciò il lungo ciclo della vita, una vita nata dal pianto, e per questo dolente.

Il gemello disubbidì quasi subito al monito che gli vietava di avvicinarsi al fratello. Riuscì a liberarsi delle catene, e raggiunse la terra, dove poté dare libero sfogo al suo dolore. Con infinita tenerezza, raccolse il sangue del morto nelle mani, e rise tra le lacrime. Di fronte a quel sorriso il sangue stesso si commosse, e tentando di consolarlo, cambiò di forma, e di colore, ghiacciò il suo corso in vellutati petali, e in esili steli verdeggianti. Il pianeta scoprì, per la prima volta, esseri che nella loro dolcezza eguagliavano lo splendore degli dei. I fiori crebbero nelle praterie, fieri, portando ovunque testimonianza dell'amore dei gemelli.

Ma questo miracolo non fu il solo, a seguire quella drammatica morte.

Del tutto irrilevante di fronte alla vita del pianeta, ma fondamentale per me, per noi, è l'incontro tra il gemello e un fanciullo, figlio degli uomini.

Si dice che quel giorno il vento soffiasse attraverso il sole, e avesse guidato quell'intrepido elfo oltre le strade solitamente percorse dai nomadi cavalieri, fino ad un angolo nascosto, privato, a pochi passi dal mare. I gemelli giacevano in quel luogo da secoli, celati al resto del mondo.

Il vivo alzò lo sguardo stremato, alzò quegli occhi arrossati dal pianto, infiniti, e vide il bambino candido immobile sotto la luce, con il vento a spettinare i riccioli rossi, del colore del sangue e del fuoco, che lo guardava, con la testa inclinata su una spalla e l'aria triste. Lento tese una mano, e lo condusse più vicino. Gli permise di guardare il morto, scostò addirittura i capelli neri che ne velavano il viso perché il bambino potesse contemplare a piacimento gli occhi sbarrati. Il gemello amava quegli occhi, perché da vivi lo avevano amato, ma il bambino scoprì in essi tenebre eterne, e un dolce buio, che scivolò nel suo animo come aria salmastra, come oscuro amore. Nello stesso istante sentì qualcosa rompersi, e avvertì lo sciogliersi di un nodo, di una catena, conobbe per la prima volta l'inquietudine gitana, quell'inquietudine che ci spinge a odiare la prigionia, odiare l'ordine, le imposizioni. Vedi, Giuliano, il buio di quegli occhi morti abita il nostro cuore, da quel giorno, è la nostra dolce maledizione.

Il bambino si rialzò e guardò il gemello vivo. Questo sorrise, per un attimo placato, lo baciò sulla bocca e poi lo spinse via.

Il bambino tornò nella sua tribù e raccontò di aver visto un giovane bellissimo piangere sul corpo di un morto, e di avere scorto nei suoi occhi pianeti remoti e insondabili abissi. Disse di conoscere la sua storia, di averla appresa dalle sue labbra con un bacio.

I cavalieri nomadi, mossi da curiosità, desiderarono conoscere il mistero di una tale bellezza, e seguirono quel loro figlio ribelle attraverso le praterie, fino al luogo nascosto che lui ricordava tanto bene. Ma non trovarono niente, solo uno scoglio a picco sul mare, e un fiore rosso di sangue. Dei due giovani non c'era traccia, non del vivo, non del morto.

I cavalieri rimasero fermi sulla spiaggia, ad ascoltare il vento. Intuivano che cantava segreti, ma non sapevano ancora comprenderli. Impararono la sua lingua scivolosa, infine, e seppero che gli dei, incapaci di sopportare il dolore del gemello sopravvissuto, avevano deciso di contravvenire agli ordini di loro fratello, e di liberare i due giovani dal tormento. Li tramutarono entrambi in spiriti. Uno, il morto, divenne acqua, l'altro, il vivo, aria.

In questo modo erano liberi di guardarsi, di specchiarsi l'uno nell'altro come sempre avevano fatto, riflessi imperfetti.

I cavalieri nomadi presero a venerare il mare e il cielo, venerarli come incarnazione dei due fratelli, e da allora, tra noi gitani, i gemelli vengono guardati con rispetto e tenerezza, perché si pensa che portino nei loro occhi il ricordo obliato della prima coppia divina che tutto originò.

Quanto a quel bambino, quell'essere puro al quale era stata confidata per primo la storia, crebbe, divenne ragazzo e poi uomo. I suoi figli portavano nel petto il suo stesso buio, il suo stesso nodo sciolto. Di generazione in generazione quest'inquietudine si fece più forte, più radicata, e mentre gli altri uomini edificavano città, costruivano palazzi e strade, i suoi discendenti continuarono a viaggiare, a percorrere e abitare quelle praterie che avevano visto l'inizio di tutto, assaporando la libertà che il gemello, con quel bacio dolce e disperato, aveva insegnato al loro progenitore.

Tuttavia, Giuliano, c'è anche una versione più oscura, di cui non si conosce l'origine, che narra come il dio, adirato per la disubbidienza del gemello che aveva risparmiato, lo abbia costretto a incarnarsi in un uomo, di carne e sangue, marchiando la sua pelle con questo neo, Giuliano, questo neo di cui tu tanto ti sei stupito, e che sai essere comune a tutta la mia gente. Il dio maledisse il gemello, e tutti i suoi discendenti, condannandoli alla perpetua fuga e al dolore, alla distruzione, profetizzando loro un futuro infausto.

Secondo questa versione verrà un giorno in cui il nostro popolo sarà sterminato, e c'è chi crede che quel giorno sia giunto, che voi siate lo strumento del dio, la vostra invasione la sua vendetta.

Forse hanno ragione, Giuliano, forse questo è il momento del dolore, della guerra. Della morte.

Ma noi non staremo zitti, amor mio, così come non stettero zitti i gemelli dopo l'oltraggio.

Noi ci ribelleremo, e pagheremo le conseguenze del nostro gesto avventato, perché è il nostro sangue che lo esige, sono le nostre cellule che lo impongono, memori di una sconfitta antica, di una lotta mai conclusa. E noi non potremmo sottrarci, né lo vorremmo.

Siamo pronti ad affrontare il futuro, e lo faremo con gli occhi sgombri, limpidi come quelli dei gemelli.

 

 

 

   
 
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