1.
And at the end of all your knees fall down to me
Erin
Anwar sorrise al proprio ghigno annoiato nello specchio della toilette.
Quando
una violinista di sua conoscenza aveva invitato lei e Sylvia Neu alla serata di
gala organizzata alla Galleria Schäfer, rinomata sede di scintillanti
iniziative in Köningstrasse numero ventotto, entrambe avevano pensato che
trovarsi a Stoccarda proprio in quel periodo per una serie di concerti fosse
una gran bella fortuna: partecipare a feste come quella significava indossare
abiti eleganti e pavoneggiarsi e fare incontri che potevano tornare utili,
anche nell’ambiente musicale.
Ma,
trascorse le prime due ore tra champagne da migliaia di dollari e tartine
microscopiche ricoperte di pregiatissimo caviale, Erin aveva cessato di
ritenere la situazione interessante. Parlava a stento tedesco – e comunque
con chi avrebbe dovuto conversare, dal momento che gli invitati erano tutti
ricchi snob privi di argomenti che esulassero dal confronto di quella festa con
feste passate esattamente identiche? Inoltre lei e Sylvia erano le uniche
musiciste presenti, escludendo i loro amici del quartetto d’archi che allietava
gli astanti, e la mostra d’arte allestita al piano superiore del palazzo si era
rivelata di una banalità eclatante.
«Ne hai ancora per molto?» chiese in tono spazientito nella
toilette deserta: «Credo che
faremmo meglio a scappare di qui. Io non ne posso più.»
La testa
rossiccia di Sylvia fece capolino da uno dei bagni: «A me non sembra tanto male.»
«Ah, no? L’unica cosa decente di
stasera è lo champagne. Per quel che mi riguarda il resto è prevedibile e
noioso, e la gente peggio che mai.»
la freddò Erin.
«Anwar, possibile che tu debba
essere sempre così intollerante?»
«E perché non dovrei, Neu?»
L’altra
scrollò il capo ridendo: «Dai, una mezz’ora e ce ne andiamo. Vorrei salutare Hilde.»
Hilde era
la violinista che le aveva invitate, ed Erin assentì con un grugnito. Poi si
sistemò i capelli raccolti con rapidi gesti e recuperò la piccola borsa che
aveva lasciato sul lavabo.
Le due
donne uscirono dalla toilette prendendosi a gomitate scherzose, tornando tra la
folla che occupava il salone centrale. Era, questo, un vastissimo spazio di
marmo bianco screziato dall’oro dei grandi lampadari che lo illuminavano; colonne
in stile ellenico ne delimitavano il perimetro, e sul fondo una maestosa
scalinata conduceva sinuosamente al primo piano. Al centro spiccava una sorta
di antico altare, anch’esso in marmo e oro, decorato da due minacciose teste di
bove che parevano controllare ogni cosa: probabilmente faceva parte della
famosa collezione di Heinrich Schäfer, il proprietario della galleria, ma Erin
non condivideva la scelta di averlo piazzato lì, proprio in mezzo alla sala,
poiché era troppo sfacciato, di dubbio gusto. Il medesimo dubbio gusto di molte
signore presenti, sogghignò tra sé.
Afferrò
al volo un calice colmo dal vassoio di un cameriere che transitava nei paraggi,
mentre Sylvia si eclissava stacchettando in direzione dei quattro musicisti, e
con uno sbuffo sonoro si appoggiò contro una colonna. Portò il bicchiere alle
labbra e prese a bere lentamente il liquido fresco e frizzante, gli occhi che
vagavano indolenti sugli affreschi che ornavano la balconata del piano superiore,
indugiando sulla figura che in quel preciso istante vi stava transitando senza
fretta. Il quartetto d’archi attaccò il primo movimento del Rosamunde di Schubert ed Erin aguzzò la
vista, incuriosita: era un uomo alto ed elegante, vestito di scuro, e si
avviava verso le scale con passi misurati e fluidi, un bastone dorato nella
mano destra e una sottile sciarpa verde al collo. Appariva sicuro di sé e
diverso da chiunque altro in quel salone, e lei si avvicinò alla base della
gradinata per osservarlo meglio, dimentica del calice ormai vuoto che reggeva
tra le dita; con un certo, immotivato stupore constatò che l’uomo era assai
attraente, dal viso pallido e magro e occhi chiari e capelli nerissimi
pettinati all’indietro, e che emanava uno strano carisma. Erin trattenne per un
attimo il respiro, mentre questi le passava accanto, e l’attimo successivo ebbe
l’impulso di rivolgergli la parola.
Ma l’uomo
si diresse con decisione verso uno degli addetti alla sicurezza e fece roteare
in aria il proprio bastone, impugnandolo a mo’ di arma: prima che qualcuno
capisse cosa stava accadendo egli colpì la guardia con violenza e subito dopo
planò rapidissimo su Heinrich Schäfer in persona, e sollevandolo come un
fuscello lo scaraventò sull’antico altare.
Con un
accordo stridente il Rosamunde
s’interruppe bruscamente. Erin lasciò cadere a terra il bicchiere e tutti
s’immobilizzarono, fissando lo sconosciuto che estraeva da una tasca della
giacca un marchingegno bizzarro e lo calava, con un lieve sorriso compiaciuto,
sull’occhio destro di Herr Schäfer. E giacché non accennò a spostarlo e il corpo
dell’altro divenne presto preda di tremendi spasmi, grida si levarono dai
quattro angoli della sala e gli invitati iniziarono a correre freneticamente
verso l’uscita travolgendosi a vicenda.
«Erin! Erin! Cosa fai lì impalata?» urlò Sylvia scuotendo l’amica per
una spalla.
Lei la
guardò in tralice: «Vorrei capire
che accidenti sta facendo quello.»
spiegò con calma.
«Ti sei fottuta il cervello? Gli
sta cavando un occhio, Erin!»
«Me ne sono accorta, Sylvia, e mi
piacerebbe sapere perché.»
La rossa
scalpitò e la trascinò via con forza: «La
cosa non ci riguarda. Vieni via!»
Erin si
arrese, roteando le pupille con fare scocciato, ma la seguì camminando
all’indietro per non perdere di vista la scena, e per una manciata di secondi
l’uomo dai capelli neri la fissò di rimando, forse sorpreso e forse divertito.
Erin non era né un’incosciente né un’amante del macabro, eppure aveva uno
spirito pratico e disincantato che la portava a lasciarsi suggestionare assai
di rado e a valutare ogni situazione con logica lucidità, a non farsi prendere
dal panico come invece capitava alla maggioranza dei suoi simili. Per questo
indugiò sulla soglia della Galleria, ignorando gli strilli di Sylvia: per
questo e perché lo straniero, che adesso avanzava verso di loro, si stava come
trasformando, avvolto da stralci di luce.
La
giovane donna distolse finalmente lo sguardo, scossa, e con l’amica si perse
tra la folla rumoreggiante e tremebonda. Con la mente confusa dall’eccessivo rimuginare
sull’assurdità di quella faccenda udì lo stridìo delle sirene della polizia, il
botto di un’esplosione e il suono incomprensibile delle frasi sconnesse che la
gente attorno a loro si scambiava, ondeggiando da una parte all’altra della
piazza antistante il palazzo su cui si erano riversati tutti.
Poi una
voce chiara e potente si levò: «In ginocchio. In ginocchio, ora!» intimò.
Erin si
voltò, e lo vide. L’uomo troneggiava sui presenti, bellissimo e terribile, e
non indossava più il completo nero che aveva alla festa: era avvolto in abiti
scuri di foggia antica e da un’armatura leggera, e un ampio manto verde gli
ondeggiava dietro le spalle facendolo sembrare ancor più alto e possente. Il
bastone era divenuto una lancia sulla cui punta elaborata brillava qualcosa
d’azzurro, e in testa portava un lucente elmo dalle corna ricurve.
Lo
stomaco di Erin si strinse in una morsa enigmatica e il cuore le balzò in gola,
mentre egli ripeteva l’ordine, e non cessò di fissarlo nemmeno nell’obbedire a
quell’anacronistico comando. Si chiese chi fosse e quali propositi avesse, e
vaghe rimembranze di vecchi racconti del Nord le suggerirono che non
appartenesse al genere umano, che venisse da lontano.
Una volta
che tutti si furono inginocchiati sul lastricato dello spiazzo l’uomo sorrise con
condiscendenza e allargando le braccia si fece strada tra la folla:
«Non è più semplice così? Non è
questa la vostra naturale condizione?»
disse; «È la verità taciuta dell’umanità
che bramate l’asservimento. L’illusione della libertà riduce le gioie delle
vostre piccole vite ad una folle lotta per il potere, per un’identità.»
S’interruppe
per osservare la moltitudine prostrata ai suoi piedi, ed Erin non seppe
reprimere un sorriso fremente. Quel folle diceva il vero e sfoggiava
un’opinione sulla natura umana fin troppo simile a quella che aveva lei, un
ragionevole disprezzo:
«Cazzo se ha ragione.» sibilò infatti tra i denti.
Sylvia
emise un lamento strozzato e l’implorò di tacere; «Tu sei pazza.» soggiunse.
«Voi
siete nati per essere governati.» riprese l’uomo: «Alla fine
v’inginocchierete sempre.»
A Erin
ribollì il sangue nelle vene – non perché discordasse, bensì perché si riteneva
sufficientemente superiore al resto degli umani da poter stare in piedi e
dimostrare a gran voce il proprio appoggio alla causa del misterioso guerriero
dall’elmo cornuto.
Allora si
sollevò da terra con espressione fiera ed egli posò su di lei gli occhi chiari
e ardenti, attendendo una sua mossa, e per un attimo a Erin parve che nella
piazza fossero rimasti soltanto loro due. Aprì la bocca per parlare e Sylvia,
dal basso, soffocò un singulto, ma in quella una seconda persona si alzò in
piedi, frapponendosi tra la donna e lo sconosciuto.
Era un
vecchio canuto e gracile, e tuttavia non mostrava alcun timore di fronte al
lucore minaccioso della lunga lancia dell’altro:
«Se
c’inginocchieremo non sarà davanti a uomini come te.» asserì con veemenza.
Lo
sguardo verde dello straniero si spostò da Erin a lui:
«Non
esistono uomini come me.» ghignò con
garbo, e di nuovo era forse nel giusto.
Il
vecchio scosse tristemente il capo: «Esistono sempre uomini come te.»
Erin si
agitò a disagio sul posto, infastidita dal paragone sottinteso tra quell’uomo
incredibile e le cupe, prevedibili e meschine figure di dittatori terrestri del
passato ai quali l’anziano coraggioso lo aveva scioccamente associato. Era
l’unica a vedere in lui qualcosa che lo faceva rassomigliare a un re
dimenticato?, si domandò. I despoti erano per lo più sciocchi, limitati e
brutali, non certo intelligenti, raffinati ed elegantemente crudeli come costui
appariva.
L’uomo
inclinò la lancia, puntandola contro l’esile vecchio, e annuì sarcastico:
«La voce
saggia del popolo! Sarai dunque d’esempio per gli altri.» annunciò.
Il
cerchio azzurro sulla punta dell’arma si fece più luminoso e il tempo parve
fermarsi su quella scena implacabile; il vecchio chiuse le palpebre,
rassegnato e la giovane donna avvertì una fitta di pietà per lui e per la sua
imminente fine, e quasi scattò in avanti per aiutarlo.
Ma il
raggio sprigionatosi dalla lancia dello sconosciuto non colpì mai il bersaglio
designato: dal cielo scese il rombo di un aereo e una sagoma guizzante
bluvestita riparò l’anziano tedesco col proprio corpo e con una sorta di
barriera metallica, quindi fronteggiò il guerriero.
«Capitan
America! È Capitan America!» esclamò Sylvia alzandosi di scatto.
La folla
mandò un grido di unanime sorpresa e la imitò, fissando con meraviglia il nuovo
arrivato: anche Erin lo riconobbe, identico a come lo raffiguravano da decenni
e a come suo fratello lo disegnava sin da quando era bambino, e strinse i pugni
per l’eccitazione.
Al
Capitano l’uomo dall’elmo cornuto non doveva essere estraneo, poiché lo
interpellò senza mezzi termini e gli ingiunse di restituire un oggetto dal nome
incomprensibile – e di arrendersi. L’altro rise con scherno e, sotto gli occhi
avidi di Erin, gli si lanciò addosso a lancia spianata. La gente urlò e prese a
disperdersi alla cieca, lontano dai duellanti, e per la seconda volta di fila
Sylvia strattonò l’amica pregandola di non rimanere lì incantata.
Ma Erin
era su di giri e la afferrò per entrambe le spalle:
«Io devo vedere come va a finire, Sylvia!
Come puoi non essere curiosa? Magie, re e supereroi in una notte sola! Come
puoi resistere?»
La rossa
si divincolò: «Comunque stiano le cose non è un gioco, Anwar, e io non voglio
rimetterci la pelle per scoprire cosa cazzo c’è dietro!» rispose, furente e
spaventata; «Voglio tornare in albergo e dimenticarmi di tutto questo, e
pensare alla replica di domani. Tu no?»
Erin
sospirò, lo sguardo che non abbandonava le figure scattanti dei due uomini:
«Sì e
no, Neu. Ti direi di avviarti e lasciarmi qui, ma so che non me lo
permetteresti.»
Sylvia si
ammorbidì, pur seguitando a stringerle un braccio e a muovere verso il lato
opposto della piazza: «Esatto. Perciò mettiti l’animo in pace, domani saprai
dai giornali com’è andata.» disse; «Avremo una storia interessante da
raccontare a Francis e gli altri.»
Il nome
di Francis convinse Erin definitivamente. Le due donne corsero così a fermare
un taxi, miracolosamente disponibile nonostante la confusione generale, e
Sylvia comunicò in fretta al conducente l’indirizzo dell’hotel in cui
alloggiavano, bramosa di togliersi d’impaccio.
Ma Erin
guardò ancora verso la piazza: distinse con chiarezza la forma delle corna
arcuate dell’ignoto guerriero e il ricordo dei suoi occhi piantati nei suoi,
assieme alla delusione della fuga, le accelerarono il battito cardiaco e
tinsero il viso di rosso.
L’ultima
cosa che colse prima che il taxi svoltasse l’angolo fu il ritornello di una
nota canzone degli AC/DC che sembrava provenire dal cielo come il rombo d’aereo
e Capitan America.
Poi la Köningstrasse
scomparve oltre i palazzi e quella bizzarra notte rimase alle loro spalle.
> Note a piè
di pagina
Premetto che erano anni che non mi dedicavo così intensamente
alla stesura di una fan fiction, e amo
follemente ciò che vado a presentarvi dopo sei mesi di lavoro. Tutto ha avuto
inizio dopo aver visto The Avengers
per la prima volta, film che con mia grande sorpresa mi ha riportata a livelli
di fannerdaggine che non manifestavo da tempo immemore – fannerdaggine non
soltanto per il film nel suo complesso ma anche e soprattutto per un certo Dio
degli Inganni. Adoro quel dannato bastardo di Loki (e il fatto che sia il
signor Tom Hiddleston a interpretarlo è di sicuro un incentivo) e questa mia
storia è, in sostanza, un tributo a lui.
Nozioni tecniche su di essa:
– nella presentazione ho scritto che si svolge dopo gli avvenimenti
del film e così è, sebbene questo primo capitolo ricalchi fedelmente la scena
di Stoccarda; era necessario in vista di ciò che seguirà.
– Erin Anwar: personaggio originale creato per l’occasione di
cui vado molto orgogliosa; presto scoprirete altro su di lei, ma vi dico
intanto che il suo cognome è preso da quello dell’attrice Gabrielle Anwar e che
è di origine araba, sebbene lei con l’Oriente non c’entri nulla; mi piacevano
il suono che ha e il fatto che se attribuito a una donna significa “collezione
di luci”. Sylvia porta il cognome di una mia cara amica di Boston (si pronuncia
nòi).
– Rosamunde è il
titolo dato popolarmente al Quartetto n° 13 in La Minore D.804 Op. 29 di
Schubert, il cui primo movimento è la musica che accompagna mirabilmente le azioni
di Loki alla Galleria Schäfer.
– Il titolo del capitolo è un verso della canzone Need your love dei Temper Trap, assai
adatto al dio asgardiano in questione; in realtà tutta la canzone ben si adatta
alle vicende che seguiranno.
– The Majestic Tale è
tratto dal titolo del brano di chiusura della colonna sonora della VI stagione
di Doctor Who, intitolato appunto The
Majestic Tale (of a Madman in a Box).
– La storia si basa quasi interamente sulla versione
cinematografica, sia per background dei personaggi che per loro caratteristiche
fisiche e mentali, e tuttavia troverete qua e là alcuni riferimenti alle
mitologie originali.
– I capitoli sono 17 in totale e in media piuttosto lunghi,
se si escludono i primi quattro, ed avendoli già tutti pronti aggiornerò
regolarmente (di domenica, salvo imprevisti, visto che oggi è domenica).
Augurando a tutti buon anno nuovo e buone feste spero che
leggerete, apprezzerete e seguirete – perché, ve lo garantisco, non ve ne
pentirete. Ossequi asgardiani e a presto!