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Autore: Beauty    02/01/2013    19 recensioni
E se Belle e Rumpelstiltskin si fossero incontrati nella vita reale?
Mr. Gold, attraverso i suoi patti, tiene in pugno l'intera Storybrooke. E' considerato un uomo malvagio e incapace di amare, ma quando Belle French, per saldare i debiti del padre, accetta di lavorare per lui, le cose si rivelano diverse da come appaiono. Ben presto, Belle e Mr. Gold si ritroveranno inaspettatamente a provare dei sentimenti l'uno per l'altra, ma qualcuno intanto sta tramando nell'ombra...
Genere: Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Belle, Signor Gold/Tremotino
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Revenge

 

- Dove stiamo andando?- Belle si voltò per poter guardare Jefferson negli occhi. L’infermiere teneva lo sguardo fisso di fronte a sé, senza sbattere le palpebre, quasi fosse ipnotizzato. Belle vide che era pallido, aveva i capelli scompigliati e le occhiaie di chi ha passato l’intera nottata in preda all’insonnia. Jefferson spingeva risolutamente la sedia a rotelle quasi come se stesse compiendo un gesto meccanico. A Belle non piaceva spostarsi in sedia a rotelle: la faceva sentire come un’invalida, come se non avesse soltanto una commozione cerebrale ma gambe e braccia rotte e dovesse dipendere esclusivamente dagli altri. L’inabilità di essere padrona delle proprie azioni, fosse stata anche una cosa semplice come camminare, di non poter controllare dove si stesse dirigendo, le dava quasi un senso di malessere. Aveva protestato dicendo che era perfettamente in grado di camminare da sola, ma Jefferson aveva insistito replicando che nelle sue condizioni era meglio non si stancasse. Anche se Belle non aveva ancora avuto il piacere di conoscere quali fossero quelle che definiva le sue condizioni. Non aveva più visto nessun medico, a parte quell’unica visita del dottor Whale. L’unico personale sanitario con cui aveva avuto contatti era Jefferson.

- Dove stiamo andando?- ripeté dopo qualche secondo, accorgendosi che l’infermiere non l’aveva sentita. Belle vide Jefferson serrare le mascelle, ma senza spostare lo sguardo.

- Al piano di sotto - rispose l’uomo, con voce incolore. Belle voltò il capo, prendendo a fissarsi le mani abbandonate in grembo. Jefferson era strano, lo era da quella mattina. Il giorno prima era stato allegro e gentile con lei, e adesso la trattava con noncuranza, quasi con freddezza. Ma era il suo tono di voce che più la inquietava: piatto, monocorde, che unito a quello sguardo stanco e quasi spiritato e a quei movimenti lenti e meccanici lo faceva sembrare come…matto.

Belle scosse il capo, imponendosi di smetterla. Jefferson non era matto. Anzi, la pazza lì era lei, che vedeva le cose dove non c’erano. Probabilmente, Jefferson doveva essere semplicemente di malumore. Oppure preoccupato per qualcosa. Chissà, magari aveva avuto dei problemi in famiglia…

Belle si chiese se provare a parlargli e a domandargli qualcosa sarebbe risultato troppo invadente da parte sua, e subito si rispose affermativamente. Non conosceva ancora Jefferson così bene da potersi permettere di impicciarsi dei suoi affari.

La ragazza sussultò, non appena si accorse di essere giunta di fronte alla tromba di un ascensore, le cui porte si stavano aprendo proprio in quel momento. Belle strinse istintivamente i braccioli della sedia a rotelle non appena Jefferson la spinse nella stretta cabina in cui una luce soffusa trasmetteva un senso di smarrimento e claustrofobia. La ragazza vide Jefferson premere uno dei tasti, quindi l’ascensore iniziò a scendere.

- Perché stiamo andando di sotto?- chiese Belle.

- Ti hanno trasferita in un altro reparto.

Di nuovo quella voce piatta e monocorde, priva di inclinazione. Belle inspirò brevemente, gettando occhiate tutt’intorno. La luce che c’era in quell’ascensore non le piaceva, le pareva quasi di trovarsi in una camera mortuaria. Guardò Jefferson: l’infermiere non aveva smesso il suo pallore, e nella penombra le sue occhiaie parevano ancora più accentuate. Teneva le mascelle serrate; la ragazza si accorse che stringeva convulsivamente i manici della sedia.

Belle spostò velocemente lo sguardo sui numeri illuminati contro la parete alla sua destra: la luce verde smeraldo si spostava verticalmente dall’alto verso il basso, a una velocità da capogiro. La ragazza rimase come incantata a fissare quei numeri illuminati.

Stavano andando giù…giù…sempre più giù…

Infine, la luce superò lo zero che delimitava il piano terra, passando rapidamente all’ultimo pulsante un attimo prima che l’ascensore si arrestasse bruscamente e le porte si aprissero.

Erano sottoterra.

Belle sussultò quando Jefferson riprese a spingere la sedia a rotelle fuori dall’ascensore, conducendola lungo uno stretto corridoio, di cui Belle non riusciva a scorgere la fine. Là sotto, se possibile, la luce era ancora peggio: talmente flebile e incerta che pareva davvero di trovarsi in un obitorio. Ai lati del corridoio sorgevano alcune stanze, tutte chiuse a chiave.

Belle riconobbe il luogo: erano nel vecchio manicomio.

La ragazza aveva sentito alcune storie su quel posto: sorgeva nei sotterranei dell’ospedale di Storybrooke, e solo poche persone ne erano a conoscenza. Era stato aperto dall’inizio degli anni Venti fino alla metà degli anni Cinquanta, quando era stato chiuso. Belle non avrebbe mai immaginato che fosse ancora in funzione. Era un luogo dove venivano rinchiusi – letteralmente rinchiusi – individui con problemi mentali, schizofrenici, epilettici…un posto in cui le persone scaricavano parenti imbarazzanti affinché venissero “curati”.

Le cure in questione erano perlopiù torture. I malati venivano sottoposti a ogni genere di angherie: percosse, camicie di forza, elettroshock…Le storie che si raccontavano su quel posto erano state l’incubo suo e di tanti altri bambini. Belle ricordò che, quand’era piccola, suo padre la minacciava spesso di farla rinchiudere là dentro, se non avesse fatto quello che diceva lui, se non si fosse comportata bene, se non avesse fatto la brava bambina…

E ora, lei era lì.

Belle sentì il cuore balzarle fino alla gola quando Jefferson arrestò la sedia a rotelle di fronte a una delle porte e infilò una chiave nella serratura. La porta si aprì con uno strano cigolio.

- Cosa facciamo qui?- chiese Belle, cercando di nascondere una punta d’isteria, non appena Jefferson spinse la sedia a rotelle dentro la stanza. Il tono della sua voce parve riscuotere parzialmente l’uomo, che per la prima volta durante tutto il tragittò la guardò.

La stanza era piccola e angusta e, Belle rabbrividì, anche notevolmente buia e fredda. L’unico mobilio era costituito da un tavolino da notte e da un letto con materasso, cuscini e lenzuola. Non c’era traccia di monitor, flebo, o medicinali. Sulla parete, troppo in alto per poter essere raggiunta neppure issandosi in piedi sul letto, c’era una piccola finestrella.

Belle sentì Jefferson passarle una mano dietro le spalle e una sotto le ginocchia, quindi l’uomo la sollevò di peso, stendendola con attenzione sul letto.

- Non preoccuparti. E’ stato il dottor Whale a dirmi di condurti qui - Jefferson sorrise.- Vuole farti dei controlli. Nulla di cui allarmarsi, solo semplici esami di routine.

- Mi avevi detto che le mie condizioni erano migliorate…- obiettò Belle; il suo volto lasciava trasparire tutta la sua diffidenza.

- E’ così, infatti. Ma una commozione cerebrale non è roba su cui scherzare, meglio fare tutti i controlli necessari, non credi? E poi non dimenticare che ti abbiamo ritrovata priva di sensi in mezzo a una strada. Non sappiamo per quanto tempo tu sia rimasta lì, al freddo, e un virus influenzale nelle tue condizioni non è esattamente il massimo.

- Ma perché qui?- insistette Belle.- Perché nel seminterrato? Qui c’era il vecchio manicomio, vero?- si sentiva come una bambina di cinque anni, ma il solo pensiero di trovarsi in una stanza in cui sessant’anni prima si trovava chissà quale psicopatico le infondeva un senso di disagio.

- Sì, ma non farti spaventare da tutte le dicerie su questo posto - Jefferson si sforzò di apparire rassicurante.- La maggior parte sono tutte fesserie. Ti abbiamo trasferita qui a causa di quell’incidente del treno, ricordi? Noi qui ci stiamo ammazzando a furia di doppi turni e corse da un reparto all’altro, il dottor Whale ha detto di spostarti qui per poter agevolare nel nostro lavoro.

Belle annuì, cercando di sorridere, ma stringeva nervosamente le lenzuola del letto. Jefferson provò una pena infinita nel vederla così. Che diamine voleva Regina da quella ragazza? Cosa le aveva fatto? Cosa stava facendo lui?

Jefferson s’impose di non cedere ai sensi di colpa. Lo stava facendo per sua figlia. Regina aveva detto che Belle era solo un lasciapassare, e aveva parlato di tenerla rinchiusa solo per qualche tempo. Presto sarebbe stata libera. Belle sarebbe stata libera, e Regina avrebbe lasciato in pace lui e Paige. Non c’era motivo di preoccuparsi.

Jefferson schiuse le labbra come per parlare, quindi posò dolcemente una mano sul braccio di Belle.

- Andrà tutto bene - le sussurrò, guardandola negli occhi.- Non devi preoccuparti di nulla, presto sarai fuori di qui. Andrà tutto bene, vedrai…- ripeté.

Belle lo guardò negli occhi e annuì, e a Jefferson parve che il suo sorriso fosse più convinto, stavolta.

- Se Ruby, o Mary Margaret, o qualcun altro viene a trovarmi, puoi dirgli tu che sono qui?- chiese Belle.- Credo che avrebbero serie difficoltà ad arrivare quaggiù…Chissà che faccia farà MM quando saprà che mi avete messa in manicomio…- ridacchiò nervosamente.

Jefferson si sforzò nuovamente di sorridere, allontanandosi un poco da lei.

- Ma certo. Sta’ tranquilla, ti avviserò non appena riceverai visite…Ora cerca di riposarti un po’, va bene? Ci vediamo più tardi.

Jefferson le rivolse un ultimo sorriso tirato, avviandosi a grandi passi verso l’uscita. Gli pareva quasi che le pareti scottassero, sentiva il bisogno irrefrenabile di uscire da lì.

- A più tardi!- Jefferson udì le parole di Belle un attimo prima di chiudere la porta della stanza e girare le chiavi nella serratura. Andrà tutto bene, si ripeté. Sarebbe andato tutto bene. Regina avrebbe ottenuto quello che voleva, presto Belle sarebbe uscita da lì senza sospettare nulla, e lui e la sua bambina sarebbero stati felici.

Doveva solo resistere e non pensare a quegli occhi azzurri che si fidavano di lui…

 

***

 

Belle sussultò non appena Jefferson chiuse la porta, lasciandola sola in quella stanza spoglia e semibuia. Sentì un brivido correrle lungo la colonna vertebrale quando sentì la molla della serratura scattare con un colpo secco.

Strano. Molto strano.

Belle ebbe improvvisamente la sensazione che qualcosa non quadrasse. Jefferson le aveva spiegato come stavano le cose, erano delle spiegazioni coerenti e sensate, e lei si fidava di lui. Ma in quella stanza non c’erano macchinari, né medicine, né nulla che avesse lontanamente a che fare con delle attrezzature che normalmente si trovavano in ospedale. E poi, lei non poteva uscire da lì, realizzò.

Perché Jefferson aveva chiuso la porta a chiave?

 

***

 

Faceva freddo.

Henry si tirò su il bavero della giacca fino a coprirsi bocca e naso, continuando a camminare senza staccare gli occhi dal marciapiede. Paige, accanto a lui, non parlava. Non piangeva, ma i suoi occhi erano talmente rossi e cerchiati che Henry pensò che si fosse già prosciugata per poter piangere di nuovo.

- Sei sicura di quello che hai sentito?- le chiese per la centesima volta.

- Me l’hai già chiesto - pigolò Paige.

- Sì, ma sei sicura di non aver capito male?- insistette Henry. In cuor suo, sperava davvero che fosse così. Non poteva credere che sua madre avesse fatto una cosa del genere.

- Sì, certo - Paige si sfregò velocemente gli occhi.- Tua madre ha detto che mi porterà via da papà, se lui non rapisce Belle French.

- E lui ha accettato - non era una domanda, ma Henry vide che Paige annuiva comunque.

- Vuole che la tenga rinchiusa nel seminterrato dell’ospedale - spiegò Paige.- Dove mettevano i matti una volta. Henry, devi aiutarmi!- implorò.- Io non voglio andare a Boston! Io non voglio un’altra famiglia! Io voglio stare con il mio papà!

- Lo so, lo so…- Henry cercò di calmarla. Il suo cervello aveva iniziato a lavorare a tutta velocità.- Bisogna che mia madre non abbia più niente per ricattare tuo padre - pensò ad alta voce. - Ha detto che ti porterà via da lui se tuo padre non terrà rinchiusa Belle French. Se lei è libera, allora mia madre non ha più niente con cui possa ricattare Jefferson. Quindi, per prima cosa, bisogna liberare Belle.

Paige scosse tristemente il capo.

- Troverà sicuramente un’altra scusa…- mormorò.- E poi, come facciamo a liberare Belle French? Mio padre a quest’ora l’avrà già rinchiusa…

Henry ci rifletté; Paige aveva ragione, era più facile a dirsi che a farsi. Loro erano due ragazzini, e avevano due adulti contro, senza contare che non sapevano nemmeno dove si trovasse Belle con esattezza. E poi, cavolo, Paige aveva ragione anche sul primo punto: sua madre avrebbe trovato un’altra scusa per portarla via da Jefferson.

Serviva un aiuto, decise. L’aiuto di qualcuno che fosse disposto ad ascoltarli e avesse la capacità di intervenire.

- Perché non chiediamo alla tua altra mamma?- propose Paige, quasi gli avesse letto nel pensiero.- Il Vicesceriffo Swann…

Henry sospirò. Quella pareva essere la soluzione migliore. Ma non sarebbe mai voluto arrivare a quel punto.

Henry aveva trovato la sua madre biologica circa sei mesi prima, quand’era scappato da Storybrooke per andare da lei a Boston. L’aveva cercata essenzialmente per curiosità, voleva conoscere la donna che l’aveva messo al mondo e abbandonato, come nei libri di favole. E anche perché da tempo le cose fra lui e la sua madre adottiva non andavano molto bene. Henry sapeva che Regina gli voleva bene, ma aveva anche capito che era una donna molto narcisista e presa da sé, egoista e talvolta anche isterica. Aveva sperato che la sua vera mamma lo potesse aiutare a gestire una situazione divenuta insostenibile.

Sulle prime, Emma non si era mostrata troppo entusiasta di aver ritrovato suo figlio, e l’aveva riaccompagnato a Storybrooke con l’intenzione di consegnarlo nuovamente fra le grinfie di Regina e filarsela, ma aveva deciso di rimanere non appena anche lei aveva capito come stavano le cose.

Poi era diventata Vicesceriffo, e da allora si era aperta una guerra fredda fra lei e Regina. Henry sapeva che Emma aveva intenzione di riprenderlo con sé e che Regina gliel’avrebbe impedito con le unghie e con i denti, e che a entrambe sarebbe bastato un pretesto, il minimo sgarro da parte dell’altra per portarglielo via per sempre.

Quella sarebbe stata l’occasione buona, per Emma. Con quel che Regina aveva fatto, le sarebbe bastato schioccare le dita per sbatterla dietro le sbarre e ottenere il suo affido, ma Henry non era tanto sicuro di volere questo. Fosse dipeso da lui, sarebbe stato con entrambe senza alcun problema.

Inspirò a fondo. Si trattava di scegliere. O Emma o Regina.

Henry chinò il capo. Non avrebbe mai voluto scegliere, ma ora era inevitabile. La sua madre adottiva si era spinta troppo in là. Aveva minacciato il padre della sua amica, aveva rapito una ragazza, e chissà quali altre cose. Pareva essersi trasformata in una strega malefica. Le voleva bene, ma non poteva permettere che continuasse ad agire indisturbata. E poi, Emma era diversa da lei. Sì, era un maschiaccio di prima categoria, era già tanto se sapeva com’era fatto un bambino e a volte era parecchio maldestra, ma con un po’ di buona volontà sarebbe stata una brava madre. E poi, era comprensiva. Con un po’ di fortuna, pensò Henry, sarebbe riuscita a cavare Regina fuori dai pasticci, se lui gliel’avesse chiesto, e gli avrebbe permesso di continuare a vederla.

- Va bene - disse.- Andiamo a cercare Emma.

 

***

 

- Hai intenzione di dormirci, su quella scrivania?

Emma sollevò lo sguardo dai fascicoli non appena udì la voce di Graham. Lo Sceriffo se ne stava sulla soglia del suo ufficio, appoggiato allo stipite della porta con le braccia conserte al petto e un mezzo sorriso sulle labbra. Emma scoccò un’occhiata all’orologio: erano le sei meno un quarto. La donna sospirò, sfregandosi gli occhi e rialzandosi dalla posizione praticamente distesa che aveva preso sulla scrivania, seduta sul ripiano con un gomito per sostenersi e con le gambe penzoloni dal bordo.

- Scusami. Stavo finendo di controllare alcune carte…- mormorò, balzando in piedi e stiracchiandosi. Era dalle sei di quella mattina che stava in ufficio, non aveva pranzato e sentiva le ossa tutte indolenzite e la testa pesante.

- Su quale caso?- Graham le andò incontro, lentamente.- L’ultima bravata di Leroy? O il furtarello all’ennesima vecchietta affetta da Alzheimer?

Emma ridacchiò; a Graham non era mai parso pesare troppo il fatto che a Storybrooke l’attività principale del corpo di polizia fosse annoiarsi tutto il giorno in mezzo a vecchie scartoffie polverose.

Graham le si avvicinò, sedendosi sulla scrivania e guardandola negli occhi.

- Vediamo se indovino: stai cercando di nuovo di incastrare Regina, dico bene?

Emma non rispose, gettando il fascicoli sul ripiano di legno.

- Per quanto ancora intendi continuare questa guerra?- insistette Graham.

- Non è una guerra - borbottò Emma.

- E’ una guerra, Emma, e lo sai anche tu - Graham si alzò in piedi, costringendola a guardarlo negli occhi.- E’ una guerra la cui unica vittima sarà tuo figlio. Non hai pensato a Henry?

- Certo che ci ho pensato!- ringhiò Emma, innervosita.- Credi che la mia sia una battaglia personale? Se sto facendo tutto questo è solo per lui. Voglio solo evitare che soffra, tutto qui.

- Questo lo so. Penso solo che dovresti tentare qualche altra via per renderlo felice, invece di dichiarare battaglia alla sua madre adottiva - Graham si passò una mano fra i capelli. Solo pochi mesi prima non si sarebbe mai azzardato a contraddire Emma – quella donna quando si arrabbiava era peggio di un mastino, e il fatto che ora avesse in dotazione una pistola non era certo secondario –, ma il fatto che da un paio di mesi il loro rapporto non si esaurisse più a un semplice scambio di formalità fra colleghi – il letto perennemente sfatto di casa sua ne era un esempio – gli dava un certo coraggio.- Capisco che tu voglia riaverlo con te, ma Regina resta pur sempre la sua madre adottiva. E’ la donna che l’ha cresciuto, e Henry ci è affezionato. Non hai pensato che, forse, invece di continuare a cercare un modo per gettarle fango addosso, sarebbe il caso di trovare un accordo per il bene di Henry?

- Credi che non ci abbia provato?- sospirò Emma, iniziando a passeggiare su e giù per la stanza.- Le ho provate tutte. Ho cercato di fare la carina e la gentile, di non essere invadente, di presentarmi come una persona affidabile, ma mi sono sempre trovata di fronte a un muro. E’ lei che ha dichiarato guerra, non io. Insomma, Graham, tu la conosci: sai che tipo di donna è.

- E’ un po’ cinica, alle volte, ma…

- Cinica, egocentrica, arrivista e sociopatica.

- Sociopatica? Non ti sembra di esagerare?

- No, per niente.

- Okay. Mi arrendo.

Emma sbuffò, passandosi le mani fra i capelli.

- Scusami…E’ che questa faccenda si fa sempre più difficile ogni giorno che passa…- Emma tornò a sedersi pesantemente sulla scrivania.- Ho paura, Graham. Lei non aspetta altro che un pretesto per impedire a Henry di vedermi. E io devo precederla - affermò, con più decisione.- Il problema è che per ora sembra inattaccabile. Insomma, pensaci: qui a Storybrooke il ruolo del sindaco è quasi pari a quello di un monarca. Una donna così influente deve avere parecchi affari per le mani, e mi sembra inverosimile che una come lei non si sia mai fatta tentare da qualcosa che le avrebbe fruttato molti soldi. E credimi, so per certo che il denaro, specie se è tanto, difficilmente arriva da portafogli puliti…

- E ancora non hai trovato niente?

- Macché!- Emma sbuffò, riprendendo a sfogliare nervosamente i fascicoli.- Qui sembra tutto regolare, non un centesimo fuori posto. O Regina ha davvero le mani pulite o…

- …o è riuscita in qualche modo a far sparire i documenti compromettenti - concluse Graham.

Emma gli scoccò un’occhiata.

- Pensi davvero che io abbia ragione?

- Penso che la tua possa essere un’ipotesi plausibile. E poi, a essere sincero, Regina sta antipatica anche a me…- Graham sorrise, facendole l’occhiolino. Emma inarcò un sopracciglio.

- Non so quanto questo tuo atteggiamento possa essere professionalmente corrett…

Un acuto beep l’interruppe prima che potesse terminare la frase. Emma sobbalzò, estraendo il suo walkie-talkie dalla tasca dei jeans. Una piccola luce rossa lampeggiava ritmicamente.

- Che succede?- fece Graham.

- E’ uno dei sistemi d’allarme collegati ai localizzatori - mormorò Emma. - C’è stato uno scasso…

In quel momento, la porta dell’ufficio si spalancò di colpo. Graham ed Emma si voltarono all’unisono non appena udirono il rumore. Il Vicesceriffo sgranò gli occhi non appena vide entrare di corsa suo figlio Henry, seguito da una bambina all’incirca della sua stessa età con lunghi capelli biondi.

Emma balzò in piedi, indossando giubbotto e cuffia e iniziando ad armeggiare con il walkie-talkie.

- Emma!- esclamò Henry, trafelato.

- Ciao, Henry!- salutò velocemente la donna, calcandosi la cuffia sul capo. Non era la prima volta che Henry la veniva a trovare in ufficio, perciò non ne era troppo stupita.- Scusa, ma adesso non posso parlare…una chiamata di lavoro…

- Emma, per favore, dobbiamo parlarti…

- Non adesso, Henry, devo andare…Quando torno parliamo di tutto quello che vuoi, d’accordo?- Emma sorpassò velocemente i due ragazzini.- Ma tua madre lo sa che sei qui? E i genitori della tua amica? Restate qui con Graham, io faccio il più in fretta possibile…

- Emma, forse è meglio che io venga con te…- Graham scattò in piedi.- Potrebbe essere pericoloso…

- No, sta’ tranquillo, probabilmente è solo Leroy che ne ha combinata un’altra delle sue…Tu resta qui con la peste e la sua amica, non vorrei che si ammanettasse al termosifone come l’ultima volta…Se ci sono problemi, ti chiamo, okay? Ciao, Henry!- Emma uscì in fretta dall’ufficio.

Paige sbatté le palpebre, sconcertata.

- Quando fa così, mi fa sentire come un vaso di fiori…- Henry incrociò le braccia al petto, imbronciato.

- Non sei l’unico…- mormorò Graham, senza staccare gli occhi dalla porta.

Paige sbuffò.

- Avevi detto che ci avrebbe ascoltato!- borbottò, guardando Henry in cagnesco.

- Lo farà, te lo giuro. Ha detto che appena torna potremmo parlarle di tutto quello che vogliamo, no?- Henry sospirò, scuotendo il capo. - Te l’avevo detto che è un po’ fuori di testa…

- Ma non abbiamo tutto il giorno!- protestò Paige.

- Cos’è che dovete dire a Emma?- s’informò Graham, sporgendosi verso di loro. I due ragazzini si strinsero nelle spalle.

- Volete dirlo a me?

I due bambini si guardarono brevemente negli occhi, quindi Henry si schiarì la voce.

- Scusa, Graham, è che…Beh, abbiamo bisogno di dirlo a qualcuno di cui fidarci…- Henry si passò una mano fra i capelli.- Cioè, non voglio dire che di te non ci fidiamo, è che…Insomma, è una faccenda delicata…

- Va bene. La mia autostima ridotta a pezzi vi ringrazia…- scherzò lo Sceriffo.- Io torno a fare il cactus in ufficio…Volete una cioccolata calda?

Henry e Paige si scambiarono un’altra occhiata, quindi annuirono. Emma era andata via, e continuare a rimuginare non avrebbe né fermato Regina né salvato Jefferson e Belle. La cioccolata calda li avrebbe aiutati a calmarsi. E a ragionare.

 

***

 

- Pronto? MM?

Mary Margaret boccheggiò, cercando di rispondere all’altro capo del telefono.

- Sì, Ashley…Cosa c’è?

- Ciao! Ascolta, potresti dire a Ruby che oggi non posso venire a trovare Belle? Mi dispiace tantissimo, ma mio suocero vuole a tutti i costi che vada con lui e Sean e la bambina a completare gli ultimi preparativi per il matrimonio…

- Sì…certo…non preoccuparti…- Mary Margaret ebbe un singulto, e si premette una mano sulla bocca.

- Scusami, è che i rapporti ancora non sono del tutto sanati e ho una paura del diavolo a contraddirlo…Davvero, di’ a Belle che mi dispiace tanto, avrei preferito di gran lunga andare a trovarla, nelle sue condizioni…Cercherò di liberarmi per domani…

- Non…non preoccuparti…sono certa che capirà…

- Grazie. Ehi, MM…ti senti bene?

- Io…sì…sì, certo…sto bene…

- D’accordo. Ci sentiamo più tardi. Ciao!

- Ciao…

Mary Margaret riattaccò la cornetta, pallida come un cencio. Si alzò a fatica dal pavimento del bagno, barcollando in direzione della porta, ma un altro conato di vomito la colse, e corse nuovamente a inginocchiarsi di fronte alla tazza.

 

***

 

La porta era aperta.

Il signor Gold se n’era accorto solo quando era arrivato in cima ai pochi gradini che conducevano alla veranda di casa sua. Le ombre proiettate dal tramonto gli avevano impedito di vedere la linea scura che indicava che la porta era socchiusa. O forse erano stati solo i suoi pensieri a distrarlo.

Belle non c’era più. Era questa l’unica cosa che riusciva a pensare dal giorno prima, quando Regina gli aveva detto che cos’era successo. Belle non c’era più. Belle era a Boston, distesa su un letto d’ospedale con gli occhi chiusi, e non li avrebbe riaperti mai più.

E lui non poteva nemmeno vederla. Quel maledetto incidente gli aveva tolto anche l’ultima possibilità di vederla ancora una volta, di dirle addio. Non avrebbe più rivisto Belle. Lei non sarebbe più tornata da lui come quella sera in cui l’aveva vista ricomparire inaspettatamente sulla porta del suo negozio, bella e sorridente come sempre.

Belle sarebbe morta, senza nessuno accanto a lei. Ed era solo colpa sua.

Erano stati questi pensieri, gli unici rimasti a fargli compagnia, a impedirgli di vedere la porta semichiusa. Ma ora che si trovava lì di fronte non poteva sbagliare.

Gold si arrestò di fronte alla porta semichiusa, trattenendo il fiato per un breve istante. Non poteva essersi dimenticato la porta aperta; l’aveva chiusa a chiave quella mattina prima di uscire, ne era certo. Fece scorrere lo sguardo sul legno: all’altezza della serratura c’erano evidenti segni di scasso. Gold serrò le mascelle, spingendo lentamente la porta in modo che si aprisse.

L’atrio era buio.

Il signor Gold entrò con cautela, attento che il suo bastone non facesse rumore sulle piastrelle scure del pavimento. Si guardò intorno con circospezione, avvicinandosi a un cassettone piazzato in un angolo e aprendo un cassetto. Sospirò di sollievo quando vide che, chiunque fosse entrato in casa sua – perché là dentro doveva esserci stato, se non si trovava ancora lì, qualcuno, su questo non aveva dubbi – non aveva toccato la sua calibro 38. Gold estrasse la rivoltella dal cassetto, sollevandola con attenzione. Era carica, teneva sempre i proiettili pronti.

Senza fare rumore entrò nel salotto adiacente all’atrio. Tutto era a soqquadro: i mobili erano spostati e la maggior parte degli oggetti rovesciati. Gold si guardò brevemente intorno, cercando di fare un inventario mentale, ma gli sembrava solo che ci fosse del semplice caos, ma che non mancasse nulla. Molti degli oggetti erano di valore: chiunque fosse entrato in casa sua non aveva intenzione di rubare; ma questo non era necessariamente un fatto positivo, pensò. Chi era entrato, voleva certamente qualcosa. Tutto stava nel capire che cosa.

Gold mosse ancora qualche passo, tenendo la calibro 38 puntata di fronte a sé. Abbassò lo sguardo sul pavimento. La luce rossastra del tramonto gettava ombre scure, ma al signor Gold parve di scorgere una forma ben definita sul pavimento.

Si trattava di due impronte, il segno di due scarponi da montagna, oppure di stivali di gomma sporchi di fango. Gold s’inginocchiò per vedere meglio, ignorando il dolore che stata infliggendo alla sua gamba malandata. Non era fango, quello. Era terra. Terriccio, per la precisione. Lo stesso che si usa per riempire i vasi di fiori.

Gold serrò le mascelle, rialzandosi in fretta e incrociando con lo sguardo la vetrinetta posta contro la parete del salotto. Le ante erano aperte, ma dentro non mancava nulla.

Nulla, tranne un singolo oggetto.

Il signor Gold sentì dei passi alle sue spalle. Si voltò di scatto, puntando la rivoltella contro un’altra pistola la cui canna era diretta verso di lui.

Sospirò, incontrando lo sguardo del Vicesceriffo Swann.

- Vicesceriffo…- salutò, abbassando la rivoltella. La donna fece altrettanto.

- Signor Gold…- soffiò Emma. - Abbiamo ricevuto una segnalazione alla centrale…Qualcuno è entrato in casa sua…

- Sì, me ne sono accorto - rispose Gold, a denti stretti, accennando al salotto messo sottosopra.

Emma sospirò, passandosi una mano sulla fronte.

- E’ ferito?

- Le sembro ferito, Vicesceriffo?

- Cosa faceva con quella?- Emma accennò alla calibro 38 che Gold teneva ancora in mano. Lui la posò.

- Legittima difesa. Che altro, altrimenti?

- Non avrebbe dovuto entrare.

- E’ casa mia, Vicesceriffo, ne ho il diritto più di lei.

- La serratura presentava segni di scasso, signor Gold, il ladro avrebbe anche potuto essere ancora qui.

- Un motivo in più per fermarlo, no? E poi, Vicesceriffo, come fa a sapere che si trattava di un ladro?

- Chi altri potrebbe essere?- Emma si guardò intorno.- E’ già in grado di dirmi cosa manca?

- Apparentemente nulla, Vicesceriffo.

Emma inarcò un sopracciglio.

- Ne è sicuro?

- Certo. Questo spiega anche i miei dubbi sul fatto che si trattasse di un ladro.

- Quelle cosa sono?

Il signor Gold intercettò lo sguardo di Emma. La donna stava guardando al di sopra della sua spalla, lo sguardo puntato al pavimento. Anche lei aveva visto i segni degli scarponi.

Gold digrignò i denti.

- Impronte, a quanto pare.

- Dovrò analizzarle.

- Faccia pure, anche se non ne vedo l’utilità, dal momento che non manca nulla.

Emma incrociò le braccia al petto, guardandolo negli occhi.

- Signor Gold…Lei ha qualche nemico?

- Non ha una domanda di riserva, Vicesceriffo? Temo che se le elencassi tutti i miei nemici lei tornerebbe a casa solo domani mattina…

- Non faccia lo spiritoso, le riesce male. Quindi, deduco che lei non abbia idea di chi possa essere entrato qui…

- No. E non vedo il motivo di preoccuparsi. Come le ho già detto, non manca nulla.

Emma sospirò, rassegnata, riponendo la pistola nella fondina.

- Va bene…Ma abbiamo comunque una violazione di domicilio. Vuole sporgere denuncia?

- E chi dovrei denunciare?

Emma sospirò nuovamente, avviandosi verso la porta.

- Come vuole. Le farò sapere se ci saranno sviluppi. Troverò il colpevole, ne stia certo.

- Grazie. Buona serata, Vicesceriffo.

Il signor Gold attese fino a che i passi di Emma non si udirono più e la porta d’ingresso non si chiuse.

Troverò il colpevole, ne stia certo.

- Non se lo trovo prima io.

 

***

 

Lo studio del senatore Prince era deserto. Gaston non era mai stato così felice che suo padre trascorresse così tanto tempo fuori casa per lavoro. Si guardò intorno, scivolando nella stanza e chiudendo la porta prima che qualcuno del personale di servizio lo vedesse. Attraversò velocemente il tappeto persiano che ricopriva quasi per intero il pavimento, quindi si diresse alla vetrinetta dietro la scrivania di suo padre. Il senatore Prince la chiamava spesso la sua armeria personale.

Gaston aprì le ante, sorridendo soddisfatto alla vista dell’oggetto che, lo sapeva, avrebbe senz’altro fatto al caso suo.

 

***

 

Quella cascina isolata, lontana chilometri dalla Storybrooke abitata, era di sua proprietà da anni, ormai, ma era un vecchio rudere che, chissà per quale motivo, non si era mai deciso a vendere. Per molto tempo era stata soltanto un edificio dimenticato e disabitato che ricompariva talvolta su qualche vecchio documento ingiallito, ma quella notte si era rivelato molto utile.

Il signor Gold scese dal furgone, superando la scritta affusolata Game of Thorns che capeggiava dipinta su di esso e dirigendosi sul retro. Aveva pagato uno degli uomini che lavoravano per lui affinché facesse la parte sporca del lavoro, ma si era fatto consegnare le chiavi non appena questa era stata portata a termine. Togliere al fioraio la casa e il negozio sarebbe stato più facile, ma lui meritava molto peggio.

Gold spalancò le porte del furgone. Moe French era disteso sul retro fra alcune rose rosse, con del nastro adesivo intorno ai polsi e sulla bocca. Il signor Gold estrasse la calibro 38 dalla tasca del cappotto, puntandola alla fronte del fioraio.

- Fuori!- gli intimò.

Moe si rialzò con cautela, scendendo dal furgone. Gold lo spinse in avanti, tenendo la canna della rivoltella puntata in mezzo alle sue scapole. Il fioraio avanzò, il cuore che batteva nel petto a una tale velocità da fargli rimbombare il sangue nelle orecchie.

Gold lo spinse verso la porta della cascina, facendolo entrare. Lo seguì, senza abbassare la rivoltella.

Moe si girò cautamente a guardarlo.

- Devi sapere una cosa…- sibilò Gold, chiudendosi la porta alle spalle.- Nessuno può scappare da me…

Lo spinse con la pistola contro il muro, fino a costringerlo a mettersi disteso sul pavimento. Gold si avvicinò a lui, togliendogli il nastro adesivo dalla bocca con una tale forza e velocità da fargli male. Moe gemette, cercando di riprendere fiato.

Il signor Gold posò la pistola su un mobile poco distante, quindi prese una sedia e la posizionò di fronte al fioraio.

- La prego…- soffiò Moe.- La prego, mi lasci spiegare…

- Interessante - ghignò Gold, sedendosi di fronte a lui.- Hai voglia di parlare? Molto bene, allora.

Il signor Gold impugnò il suo bastone e lo puntò dritto contro French, premendo il manico d’argento contro la sua gola. Moe emise dei versi strozzati, cercando di respirare, ma Gold aumentò ancora di più la pressione.

- Stammi bene a sentire - sibilò.- Fra un attimo ti lascerò respirare, quindi tu mi dirai due frasi: la prima, sarà per dirmi dov’è; la seconda, per dirmi perché l’hai presa. Hai capito?

Gold allontanò il bastone dalla gola di Moe. Il fioraio respirò.

- Non…non volevo entrare in casa sua…

Gold rise, una risata beffarda e amara al tempo stesso.

- Non è quello che ti ho chiesto!- ringhiò, colpendo French con il bastone. Il fioraio gemette quando il manico d’argento si abbatté sulla sua spalla.

- Dove si trova?- urlò Gold, affondando un altro colpo.

- La prego…

- Dimmi dov’è!

Un altro colpo, stavolta seguito da un sonoro crack. Moe gemette, sul punto di mettersi a piangere.

- La prego, basta!

- Maledetto bastardo!

Altri colpi, sempre più forti. Il fioraio urlò di dolore.

- Io non volevo!- gridò infine. Gold respirò affannosamente, interrompendo la scarica dei colpi.- E’ stato un incidente!- singhiozzò Moe.

- Un…incidente?!- urlò Gold, colpendolo con più violenza. Si udì un altro crack, seguito dalle urla di dolore di French.- Un incidente?! L’hai ammazzata, maledetto!

- No…io non…

Un altro colpo.

- La prego!- implorò Moe.- Io non volevo! Lo giuro, non volevo! Io le volevo bene…

- Bugiardo!

- Non è stata colpa mia!

- Colpa mia?- ripeté Gold.- Come osi dire che non è stata colpa tua? Era tua figlia, bastardo! Era tua figlia. Lei ti voleva bene, lei ti è stata vicino per anni quando invece avresti solo meritato di morire! Ti voleva bene, e tu l’hai uccisa. Sei suo padre, e l’hai uccisa. L’hai picchiata per anni, e infine l’hai uccisa!- un altro colpo.- Lei se n’è andata!- urlò Gold, quasi piangendo.- Se n’è andata per sempre! Non tornerà più da me! Ed è solo colpa tua!- la scarica di bastonate riprese, più furiosamente.- E’ colpa tua! Non mia! E’ colpa tua!

Gold non seppe più fermarsi. Continuò a ripetere ossessivamente quelle parole, senza smettere di colpire il fioraio con il suo bastone. A mano a mano che i colpi aumentavano il volto di French cominciò a ricoprirsi di lividi, le labbra e le narici a spillare sangue, ma questo Gold non lo vedeva. Vedeva solo Belle. Belle che si premeva una mano sulla guancia dopo lo schiaffo di suo padre, Belle che piangeva seduta nella sua macchina, Belle che leggeva appollaiata sulla scala nel suo negozio, Belle che faceva volontariato, Belle che sorrideva, Belle che si scusava per aver scheggiato una tazzina bianca e blu, Belle che poggiava il capo contro il suo petto mentre ballava con lui, Belle che gli dava un bacio, Belle distesa in un letto d’ospedale, pallida e con gli occhi chiusi…

I colpi continuarono, fino a che Gold non sentì il suo braccio venire bloccato da una presa forte e decisa.

- Basta!- ordinò una voce femminile, perentoria e sicura di sé. Il signor Gold si voltò, e la prima cosa che pensò fu che la voce ferma e decisa del Vicesceriffo Swann non avrebbe mai potuto nascondere il suo sguardo inorridito.

 

***

 

- Sai che quella ragazza non è più in camera con me?- fece zia Florence dopo mezz’ora di chiacchiere a ruota libera.

- Sì, ho visto, zia…- rispose Michelle, accennando al letto vuoto.- L’avranno mandata a casa, oppure è stata trasferita in un altro reparto…

- Non credo. Lei sembrava non saperne nulla…- mormorò zia Florence.- Quel tuo amico infermiere, quel Jefferson Hatter, l’ha portata via in fretta e furia senza dire niente a nessuno, senza uno straccio di spiegazione…Quella poveretta era più sorpresa di me…

Michelle si voltò, udendo la porta aprirsi.

- Ciao, Michelle!- salutò Ruby allegramente. La cameriera vide il letto vuoto, e il sorriso scomparve dal suo volto.- Dov’è Belle?

 

***

 

- E’ fortunato che il signor French non abbia riportato lesioni permanenti…- Emma gettò un’occhiata alla barella su cui Moe veniva trasportato verso l’ambulanza.- Davvero credeva che non ci sarei arrivata?- tornò a rivolgersi a Gold. - Quello sul pavimento di casa sua era terriccio, di quel tipo che si usa per i fiori. Gli scarponi di French ne erano ricoperti. Resta solo da capire perché ha fatto questo…e perché lei l’ha ridotto in questo stato.

Gold distolse un attimo lo sguardo, quindi tornò a guardare Emma negli occhi.

- Stava parlando di una donna - disse Emma. - L’ho sentita chiaramente. Chi è la lei di cui stava parlando?

- Questo non è affar suo, Vicesceriffo Swann - ringhiò Gold.

Emma sospirò, estraendo le manette dalla tasca del giubbotto.

- Come vuole - disse, ammanettando i polsi di Gold.- Avremo tutto il tempo per discuterne, in centrale…

Gold non disse nulla, e si lasciò ammanettare, salendo in auto insieme a Emma. Non gliene importava nulla. Non più.

 

Angolo Autrice: Ehm…lo so, sono in ritardo pauroso e questo capitolo è chilometrico, quindi se ce l’avete fatta ad arrivare fin qui…Beh, siete grandi!

Prometto solennemente che non scriverò mai più un capitolo così lungo, ma non potevo dividerlo perché altrimenti non avrebbe avuto alcun senso…Dunque, questo capitolo è molto sulla scia di Skin Deep, ma sarà anche l’ultimo di questo genere, a parte una piccola parte nel prossimo d’ora in poi seguirà una scia propria…

Anyway, so che alcune parti potranno sembrare senza senso o inutili, ma avranno un loro perché…

Nel prossimo capitolo, vedremo cosa faranno i nostri eroi per trovare Belle…che, a proposito, so che qui s’è fatta infinocchiare non poco, ma non è stupida, e presto si renderà conto di cosa le stanno facendo, senza contare che Jefferson non potrà sfuggire a un esamino di coscienza…e Michelle gli darà una mano, in questo…

Ringrazio chi legge, chi ha inserito la storia nelle seguite, nelle preferite e nelle ricordate e kagura, mischiri, Valentina_P, Avly, Sylphs, 1252154, NevilleLuna, LadyAndromeda, Lety Shine 92, jarmione, historygirl93, nari92, Capinera, oOBlackRavenOo e parveth89 per aver recensito!

Ciao e buon 2013 a tutti!

Dora93

  
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