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Autore: Vitani    25/07/2007    3 recensioni
Questa è una storia d'amore, di odio, di una carriera musicale ed artistica, di una maturazione, di come gli incontri detti "del destino" possono cambiare la vita. È la storia di due ragazzi in particolare: Mana, un chitarrista, e Gackt, un cantante. Entrambi passionali, entrambi sognatori.
"Simile ad una fiaba è questa storia, dove una dama e un cavalier rincorrono l’amore con solerzia, pronti in nome di esso a dare tutto. Si leggeranno lacrime, amore, risate e fremiti di gelosia, d’angoscia e di paura. Saranno tormentosi i nostri canti, piene di gioia le risate, e se malinconia occuperà il cuore, ci basterà cantare una canzone."
Genere: Commedia, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri, Gackt, Mana
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Mad Tea Party -

- Mad Tea Party -

ATTO PRIMO, SCENA OTTAVA
-
L’Incontro del Giglio e della Rosa

 

 

 

Fece per tre, ben tre inquantificabili volte quel giro assurdo che ogni volta lo portava ad allontanarsi ed avvicinarsi asimmetricamente al luogo dell’appuntamento. Non è che non sapesse come comportarsi, no… no. Lui era assolutamente sicuro di se stesso. Mai, mai sarebbe indietreggiato davanti ad un ostacolo, anche se quell’ostacolo era di carne ed ossa e aveva i capelli neri. E poi perché diamine considerare Mana un ostacolo? Era un amico di Takeshi per non dire un suo amico, quindi per quale motivo avrebbe anche solo dovuto minimamente pensarlo come tale?

Il rumore della chiave che girava e spegneva il motore dell’auto gli rimbombò nelle orecchie come un tuono prima d’un temporale, e i suoi piedi gli parevano tavole di piombo che aderivano all’asfalto della strada con tanto inaspettato trasporto che quasi se ne preoccupò. Quasi, perché a dirla tutta si stava già incamminando verso la stazione davanti alla quale era atteso.

Portava un completo grigio scuro e avanzava con quel suo solito e irraccontabile portamento baldanzoso che a malapena gli faceva perder tempo a guardarsi intorno. Non che ci fosse molto da vedere, a parte palazzi e palazzoni e centinaia di migliaia di persone diverse che camminavano come tante piccole irritanti formichine impazzite.

Si drizzò sul suo metro e ottanta e voltò la testa in giro per vedere di scorgere qualche volto familiare, ma lì per lì non notò proprio nulla di interessante. Non c’era Mana, che del resto lui pure non avrebbe saputo riconoscere troppo bene avendolo visto solamente in foto, e non vedeva neppure Takeshi. Si chiese davvero come avrebbero potuto vedersi in mezzo a quella confusione e convenne con la sua coscienza d’essere stato un pazzo una volta di più a lasciarsi guidare dal suo scriteriato istinto da guerrafondaio.

Emise un sospiro abbattuto, e proprio mentre stava per tornare sui suoi passi udì una voce che tanto gli suonò come un faro piantato lì apposta per lui.

« Ehi scemotto! Dove stai andando? Guarda che noi siamo qui! »

Si girò con un robotico e lento movimento della testa e come prevedeva vide un ragazzo più basso di lui che si sbracciava come un deficiente in mezzo a quel casino, ululando a pieni polmoni al suo indirizzo di modo che più di una signora lo guardò stranamente nel passargli vicino.

Diede intimamente dell’idiota a quel cespuglio di capelli scuri con la bocca più larga del resto del viso, e desiderò altresì accopparlo con le sue stesse mani. Solo che non era arrivato fino a Tokyo per quello, assolutamente no. Vicino a Takeshi - perché ebbene sì era proprio lui - non vide tuttavia nessuno che potesse anche solo vagamente somigliare a Manabu. Non poté far a meno di essere sottilmente preoccupato dalla cosa, però Taka aveva parlato al plurale, quindi…

« Ciao imbecille! Ti trovo bene! »

Tuttavia rise e s’avvicinò al ragazzo e appena l’ebbe a portata di mano gli rifilò una sonorissima e disastrosamente dolorosa pacca sulla spalla, perdendo pure tempo ad osservare i dintorni con un occhio per vedere se gli riusciva di identificare il motivo della sua presenza lì.

« Non ti preoccupare, Mana c’è. Sta solo facendo il timido. »

Al solito. Takeshi era un sacrosantissimo deficiente, parole sante quelle, ma aveva anche un intuito da fare invidia a un cane, e perciò lui attese, senza fare altro perché non c’era altro da fare. Restò immobile, insieme a tutta la gente di quel luogo in cui pure l’aria sembrò all’improvviso attendere che qualcuno facesse la prima mossa e poco importava chi sarebbe stato.

Poi Taka alzò infine la testa al cielo e parve ululare al vento con un sorrisetto divertito che quasi inquietò Satoru. Quasi.

« Ehi Mana-chan! Piantala di nasconderti, su. Non è il momento di fare il bambino. »

Fu in quel momento, solo allora e non prima, che Gackt scorse una persona immobile agli angoli del suo campo visivo, una persona che prima non c’era o che forse era sempre stata là poggiata a una delle colonne della stazione a guardarlo fissamente dietro degli enormi occhiali da sole neri. Forse era vera la seconda e forse lui era stato così sciocco da non notarla, ingannato dal desiderio evidente di quella persona, che non aveva voluto essere vista fino a quel momento.

Gli era parso una donna, così di primo acchito, invece era ormai certo che fosse lui, quello non poteva essere altri che Mana. Gli sembrò oltremodo bizzarra quella sua istintiva certezza, ma ancor più assurdo gli parve il pensiero che ne seguì: quel ragazzo, dio santo, puzzava di genio.

Non seppe indicare con precisione quale vocina del suo cervello glielo sussurrò, seppe solo che lo pensò e ne prese atto nell’istante medesimo in cui Mana si staccò dalla colonna e venne verso di loro, a passi piccoli e nascostamente incerti. Era la cosa più immensamente strana in cui si fosse mai imbattuto: finché era stato immobile l’aveva scambiato per una donna, ora che s’era mosso non avrebbe potuto più farcela neppure volendolo e ancora di nuovo non afferrava il perché. Forse era solo una delle sue tante impressioni sbagliate e certamente non poteva andargliela a rivelare. Che figura ci avrebbe fatto?

Attese in silenzio, s’aspettò che lo salutasse, che gli dicesse un “buongiorno” e poi se ne sarebbero andati da qualche parte tutti e tre e finalmente avrebbero potuto fare conoscenza di persona in santa pace. Eppure Mana non gli parlava, non spiccicava una parola. Perché non gli parlava? Perché si limitava a guardarlo dietro le scure lenti di occhiali da sole più grandi di lui? Si ravviò i capelli castani un po’ lunghi con una mano, con una solerzia quasi imbarazzata che palesava un nervosismo che all’inizio non aveva sentito… lui? Lui, Gackt Camui, era imbarazzato e per giunta a causa di qualcuno che conosceva, perfino? Ah, stava dannatamente perdendo colpi. Gli ci voleva decisamente una grossa, salutare e benedetta bevuta.

Finalmente, dopo un tempo per lui imprecisato – non doveva essere stato molto in ogni caso – Mana diede segni di vita. Lui capì che l’avrebbe fatto ancor prima che il suo braccio si muovesse, perché Takeshi poteva pure avere l’istinto del cane, ma lui aveva dalla sua una percezione straordinaria. Mana si tolse gli occhiali da sole – un movimento incredibilmente fluido e vivace che per un singolo istante lo intimorì – e lui poté finalmente scorgergli il volto. Vide due occhi a mandorla un po’ piccoli su un viso forse appena troppo largo, ed erano neri. Così neri come mai ne aveva visti altri, brillavano d’una vitalità così straordinariamente intensa che ne fu sconcertato ed affascinato insieme. In quell’istante comprese che Manabu Satou aveva in sé delle capacità che con gli anni non avrebbero potuto far altro che accentuarsi e comprese pure quella che sarebbe stata la sua risposta se mai quella questione, il vocalist, fosse stata ripresentata.

« Non sembri un musicista. »

Mana glielo disse con assoluto candore e innocenza, allargando appena le iridi nero pece e parlando tranquillamente e adagio, con una sicurezza invidiabile in quella voce che suonò incredibilmente composta alle sue orecchie. In effetti, stava indossando un completo elegante e se n’era quasi dimentica.

Poi Takeshi scoppiò a ridere, improvvisamente e sguaiatamente come al solito, prendendolo a  pacche sulle spalle.

« Oddio… ha ragione, sembri un capo della yakuza! »

« Ma sta’ zitto tu! »

Però non ne poté fare a meno, di unirsi alla risata a sua volta, e fu felice di vedere che perfino nel viso di Mana s’era formato un sorriso tenue, quel medesimo timido sorriso che tante e tante volte gli era sembrato di vedere ma che aveva sempre solo immaginato.

« Allora? Dove vogliamo andare? »

Fu proprio Mana a domandarlo, e Takeshi parve cogliere la palla al balzo.

« Io me ne torno a casa! »

Bastò, notò Gackt con sconcerto, un’unica pallida mano di Manabu poggiata istantaneamente sul retro della sua maglietta a bloccarlo, irrigidendolo peggio del morso di un serpente a sonagli. Stava stringendo molto forte, Mana, senza dir nulla.

« Che vuoi da me? Il cavaliere te lo sei trovato mi pare! »

Quella della povera vittima Taka era un’ultima difesa disperata, e Mana di tutta risposta rafforzò la presa così che a Gackt parve finalmente sensato intervenire.

« E dai Taka! In fin dei conti io e te non ci vediamo da un secolo! »

« Ma ci sentiamo sempre, e questo mi basta e avanza! »

« Non fare il timido! »

« Veramente l’unico timido qui è quello che mi sta stritolando la maglietta! »

Fu questione di un istante, quella singola asserzione fu più che sufficiente a fare in modo che Mana lo mollasse, ancora senza proferire una parola che fosse stata una. Gackt osservò divertito Takeshi dare una pacchetta sulla spalla anche a Mana.

« Facciamo così, stasera vengo a cena da te! Così siamo contenti tutti quanti, compreso il mio stomaco! »

Un risolino salì alle labbra di Satoru quando s’accorse che Mana aveva riagganciato con evidente infantile divertimento la maglietta di Taka, e solo in quel momento gli venne in mente che lui pure non aveva ancora spiccicato parola con quel ragazzo.

« Be’, » fu inaspettatamente proprio Mana che parlò, d’un tratto girandosi a guardarlo con una punta di mesta inquietudine nei luminosi occhi neri « vogliamo fare un salto a casa mia? »

Lo disse alzando le spalle con una noncuranza che sorprese Satoru, come se per lui non avesse avuto importanza il fatto che, a dispetto delle ore trascorse al telefono, loro due fossero praticamente estranei.

Taka alzò a sua volta le spalle: « D’accordo! Camui, hai la macchina tu? »

Lui si trovò solo a poter annuire, prima ancora di rendersi conto di ciò che quella domanda implicava.

 

Poco dopo erano saliti tutti e tre sulla sua Ferrari, Mana davanti assieme a lui e Takeshi dietro, il maledetto fetentissimo…

« Sai, io conosco questo scemo da quando andavamo al liceo, pensa che palle! »

Takeshi sghignazzava beatamente sdraiato sui sedili posteriori dell’auto, elemento quello che stava alquanto contribuendo a far saltare i nervi di Satoru, senza contare poi le stronzate che il ragazzo aveva iniziato a sparare a raffica di lì a qualche minuto.

Mana gli stava seduto accanto in perfetto silenzio, guardando fisso la strada con quei suoi acuti occhi nerissimi – non s’era più rimesso gli occhiali da sole – e limitandosi a dargli ogni tanto innocue indicazioni come “qui svolta” o “continua dritto”. Anche Gackt stava perfettamente muto, incapace di trovare qualsiasi cosa da dirgli. Non che non avesse argomenti, per carità, eppure… non riusciva ad intavolare un discorso che fosse uno.

E intanto Takeshi continuava a raccontare aneddoti più o meno veri e assurdi, quasi tutti che coinvolgevano Satoru. Era in quei momenti che lo detestava, ma davvero tanto tanto tanto.

« …e poi ha rotto il naso con un pugno a due di loro e… »

« Taka? Finiscila. »

« Spiacente bello, la mia lingua non prende ordini da te. Massimo massimo da Mana-chan… che è cento volte più charmant di te. »

« Eh? Cosa vorresti dire?! »

S’era involontariamente voltato verso Takeshi, che spaurito lo spinse con un ceffone a guardare la strada.

« Taci e guida, che sei pericoloso. »

Rimase ancora in silenzio, con le sopracciglia corrugate in una smorfia di puro e crudele disappunto, quando un lievissimo ma deciso ticchettio su una sua gamba lo fece sobbalzare. Roteò appena gli occhi a guardare Mana, vide che sorrideva. Fu con un divertito occhiolino e un cenno della mano che Manabu lo invitò a restare in silenzio e prese fiato.

« Takeshi, smettila… o niente cena stasera. »

Un lungo, febbricitante e spaurito brivido gli sconvolse le vertebre una per una quando sentì quella voce. Era una death voice perfetta, incredibilmente potente. Guardò per un istante Mana e scorse sul suo viso un ghignetto di palese e gioiosa soddisfazione.

« La voce cimiteriale no, Mana, ti prego mi metti l’angoscia! »

Fu la prima volta che sentì ridere quel ragazzo dai lunghissimi e ondulati capelli neri, la prima volta che sentì la sua risata incredibilmente composta ma libera. Capì che nella risata di quel ragazzo c’era sempre quella strana eleganza che poteva essere un artificio come una consuetudine, e di nuovo si convinse di non aver davanti una persona qualunque.

« Ecco come lo controllo », lo sentì dire « Gli faccio troppa paura quando parlo così! »

E rise di nuovo.

« Oh, siamo arrivati! »

Gackt accostò davanti a una modesta palazzina bianca, con un piccolo giardino, un’abitazione talmente normale che quasi si sentì deluso.

« Bene! » disse Taka saltando giù dall’auto « Ora, se voi due principi me lo permettete, io me ne tornerei a casa. Ci vediamo questa sera, ti va bene se passo verso le nove? »

« Certamente. »

Mana sorrideva ancora ma, notò Gackt, teneva le braccia conserte attorno alla vita, con una mano a sfiorargli un fianco e l’altra a sorreggergli il gomito. Salutarono Takeshi, l’uno alzando una mano e l’altro facendogli ciao ciao, infine si guardarono in silenzio. Manabu non sorrideva più, ma gli indicò con un cenno del capo il portone e s’avviò su per le scale.

Gackt lo seguì, notando il passo incredibilmente leggero con cui Mana saliva i gradini nonostante ci fosse l’ascensore. Evidentemente c’era abituato, e lui del resto non aveva alcuna difficoltà a tener dietro a quel passetto fugace da ballerino, allenato nel combattimento e robusto com’era.

Quel che lo sorprese, quando finalmente entrò dopo tre rami di ripidissime scale, fu la quantità di specchi che trovò appesi per casa, specchi di tutte le dimensioni, di ogni genere. Era un tipo vanitoso, dunque… e non aveva mica tutti i torti ad esserlo. Aveva dei bei lineamenti, tutto sommato, ed era più che evidente che la sua persona la curava molto. Lo vide poggiare con delicatezza gli occhiali da sole su un tavolinetto vicino all’entrata, dopo essersi tolto le scarpe. Lo imitò.

« Se vuoi appendere la giacca, l’appendiabiti è lì. »

Mana gli indicò un armadietto accanto all’ingresso, vicino alla scarpiera.

« Grazie. »

Satoru lo raggiunse poco dopo e vide che aveva iniziato a trafficare con un gigantesco impianto stereo nel salotto.

« Me lo sono fatto portare da casa dei miei, » gli disse Mana quando s’accorse d’essere osservato « è un mio caro amico. Io non vivo senza musica. »

Fu con un sorriso che posò una delle sue mani, che a Gackt parvero incredibilmente piccole, su uno degli altoparlanti. Sì, ancora una volta non era stato tradito dal suo intuito: Manabu Satou era un ragazzo affascinante, suo malgrado. Aveva davvero la stoffa per diventare qualcuno.

« La ascolti la classica? »

Gackt sorrise ed annuì.

« Sì, studio pianoforte da parecchio tempo quindi me ne intendo abbastanza. »

« Io pure. Difatti ecco là l’altro mio amico. »

Gli indicò qualcosa dietro le sue spalle, Gackt si girò e vide un piano verticale. In quello stesso momento le note di un pianoforte cominciarono a spandersi per la stanza, ma dallo stereo.

« Questo è l’Allegro del concerto brandeburghese numero quattro, di Bach. Lui è da sempre il mio preferito… »

Lo disse sussurrando con quella sua voce un po’ bassa, Mana, quasi avesse temuto di sciupare il suono di quell’arrangiamento per pianoforte. Socchiuse le palpebre, appena mostrando l’iride nera, poi si girò un attimo e vide che lui stava ancora in piedi.

« Ma che fai? Siediti! »

Gli indicò con un sorriso il posto al suo fianco, dando una leggera pacca sul divano.

« Vieni a goderti il momento. »

Gackt gli ubbidì senza storie, e mentre si sedeva perse qualche istante ad osservare il ragazzo che gli stava accanto e che aveva chiuso ancora gli occhi. I capelli, legati in una coda bassa, gli scendevano morbidi come onde su una delle minute spalle, piccole come quelle di una ragazza. Stava ascoltando, teneramente rinchiuso in un sogno, e le sue dita tenevano perfettamente il tempo con quelle del musicista. Anzi, di uno dei due musicisti, perché evidentemente si trattava di un brano eseguito a quattro mani.

Allora lo imitò, sedendosi accanto a lui e chiudendo gli occhi, e stette bene, così in pace come da molto tempo non s’era sentito più. Neppure il suo cuore sentiva più ma solo la musica, solo quelle note che parevano stillare come gocce di pioggia e fluire dolcemente e fresche come l’acqua di sorgente, meravigliose.

« Dopo, » glielo chiese così, senza neppure guardarlo e sottovoce come se avesse temuto di parlare « mi fai sentire come suoni? »

« Certo… »

Schiuse infine le palpebre, si girò verso il ragazzo al suo fianco e vide che gli aveva puntato un occhio saldamente addosso, nero e sfolgorante come l’ossidiana. Da quanto tempo lo stava guardando? Da quanto? Non riusciva a rendersene conto e con orrore scoprì di non riuscire a preoccuparsene.

« Che c’è? »

« Niente. »

Poi fu con un unico scatto di un corpo incredibilmente sottile ed agile che Mana s’alzò, stiracchiandosi e scuotendo più volte la testa.

« A proposito, se ti serve il bagno è l’ultima porta in fondo », gli indicò il corridoio che s’apriva di fronte all’atrio d’ingresso, nella parete opposta. Gackt si guardò ancora una volta attorno e rifletté che i soldi non dovevano mancare neppure a lui: ricordò che Mana gli aveva detto una volta che i suoi erano insegnanti di musica, quindi doveva appartenere a una famiglia piuttosto benestante. Perché s’era spinto fino a Tokyo, allora? Ah, di nuovo aveva partorito una sciocchezza degna solo di lui: non avrebbe neppure avuto bisogno di domandarglielo né di pensarci. Naturalmente per il sogno che tutti i musicisti possedevano, più o meno interrato nel fondo del loro cuore: sfondare.

« Senti, ti va di andare a trovare Közi? È un altro dei membri della band, te lo presento! Abita qui vicino, ci mettiamo cinque minuti. »

Si domandò in breve se fosse il caso di pensare che quell’improvvisa proposta fosse un modo per evitare di rimanere con lui da solo, più per disagio che per timidezza. Allora annuì, sorridendogli.

« Perché no? »

« Se hai la pazienza di aspettare due minuti, mi cambio! »

« Ti cambi? »

Mana non gli rispose, semplicemente gli accennò di sì col capo e schizzò nel corridoio con la velocità di un piccolo tornado.

Lui restò in salotto, ad attendere immobile, e per i circa dieci minuti che aspettò, continuò ad ispezionare la stanza con un certo interesse. Era una casa piuttosto semplice, in verità: niente di troppo sfarzoso, solo quell’incomprensibile quantità di specchi e qualche mazzo di fiori sopra i mobili. C’erano delle foto, probabilmente della famiglia di Manabu: suo padre, sua madre, una ragazza che data la somiglianza poteva essere sua sorella… sì, avevano le stesse labbra sottili. C’era una chitarra poggiata al muro, piena di scrittine e ghirigori che doveva essere quella che usava sul palco. S’avvicinò poi al pianoforte, sollevando il coperchio e passando le dita sulla tastiera, in silenzio. Era un bello strumento, niente da ridire in proposito. Non seppe resistere alla tentazione, e suonò qualche accordo.

Fu allora e solo allora che lo sentì arrivare correndo trafelato come una tempesta, fermandosi sull’uscio del corridoio. Gackt alzò gli occhi e l’osservò: s’era sciolto i lunghissimi capelli neri, che gli ricadevano ondeggianti attorno al corpo come un manto, vide che s’era infilato una lunghissima gonna nera che terminava in un buon centimetro di pizzo, e che lo guardava. Lo guardava con una strana, indecifrabile smorfia impercettibile delle labbra socchiuse, come se avesse voluto parlare senza aver saputo tuttavia che cosa dire. Se ne sorprese, fu quasi certo d’averlo irritato, anche se quel viso bianco come porcellana lavorata non mostrava nulla o quasi, in quel momento. Solo gli occhi s’erano appena allargati, solo e solo quelli.

« Scusami, » disse allora Gackt richiudendo il coperchio « avrei dovuto chiederti il permesso. »

« Non fa niente. »

« Sicuro? »

« Sì. »

Poco dopo, proprio di fronte alla porta d’ingresso, Mana s’immobilizzò dopo essersi infilato un paio di innocui zoccoletti bianchi e sembrò pensare a qualcosa: s’incantò per qualche secondo, poi si girò verso di lui di nuovo e gli sorrideva. Quel sorriso timido e dolce.

« Andiamo? »

Satoru gli sorrise a sua volta, per poi avviarsi assieme a lui.

 

Parcheggiò la sua macchina un paio di quartieri più in là. Mana era stato in silenzio tutto il tempo, aprendo bocca semplicemente per indicargli la direzione. Gackt l’osservò suonare il campanello e disse a quel tale che rispose, Közi, che l’avrebbero aspettato di sotto.

Quello che uscì qualche minuto più tardi fu un ragazzo apparentemente così ordinario che Gackt se ne stupì. Aveva i capelli tinti di biondo che gli arrivavano appena sopra le spalle e un accenno di baffi. Camminava con la schiena curva, con un passo incredibilmente rapido e disarticolato, e indossava una felpa grigio chiaro e un paio di jeans larghi. Ricordò che Mana, durante una delle loro tante telefonate, gli aveva accennato al fatto che un membro del gruppo stava provando a farsi crescere i baffi. Doveva essere lui.

Fu proprio la reazione di Mana a sorprenderlo: appena lo vide gli corse incontro quasi saltellando, urlando un “ciao Közi” e abbracciandolo forte fin quasi a stritolarlo.

L’altro ragazzo rise.

« Ciao Mana-chan! Ti trovo bene! »

« Come al solito, tu invece sei dimagrito. Fumi troppo! »

Közi a quel punto si girò finalmente a guardare Gackt: anche lui aveva un bel viso, pur se dai tratti molto più marcati e virili rispetto a quelli di Manabu.

« Questo è Koji Hagino, in arte Közi, chitarrista e qualche volta seconda voce! »

Mana rideva quando glielo presentò, questo non sfuggì a Gackt. Be’, del resto che s’aspettava? Che Mana si comportasse con naturalezza con lui, che conosceva appena?

« Piacere, io sono Satoru Okabe, detto Gackt Camui. »

« Ho ascoltato la tua cassetta. Complimenti, sei bravo! »

« Grazie mille. E prego, sali pure! »

Közi prese posto nel sedile posteriore e chiuse la portiera, mentre Mana tornava diligentemente a sedersi davanti.

« Posso fumare in macchina? » domandò Közi armeggiando nelle tasche della felpa per trovare l’accendino. La sigaretta ce l’aveva già in bocca, pareva essere proprio un tipo parecchio sfrontato e la cosa lo interessò e innervosì al tempo stesso.

« Se ti chiedo di non fumare, tu non fumerai? »

Non seppe perché gli rispose in quel modo, sinceramente non lo capì, e realizzò quel che aveva detto solo quando rimasero in perfetto silenzio tutti e tre. Közi sbuffò e Gackt guardò verso la strada, mettendo in moto il motore. Non ebbe bisogno di girarsi verso Mana per capire che aveva chinato il capo. Aveva rimesso gli occhiali da sole, quindi della sua espressione capiva poco, ma comprendeva bene il suo imbarazzo.

« Dunque… » iniziò, così per rompere il ghiaccio « Conoscete qualche posto interessante dove andare? »

« Ah, io non ne ho idea », rispose Közi.

« Neppure io », fu la risposta di Mana – data, parve a Satoru, più per adeguarsi all’altro che non per una vera e propria convinzione personale.

Restarono di nuovo in silenzio. Gackt odiava quell’atmosfera così pesante, voleva trovare qualcosa di cui parlare ad ogni costo.

« Se non sbaglio, qui a Tokyo c’è la sede centrale dell’Ohm Cult, no? »

« Chi, quei pazzi che hanno lanciato del gas velenoso sotto la metropolitana di Aoyama? »

Decisamente, quel Közi era molto più loquace di quanto non fosse Mana in quel momento.

« Già! Andiamo a vederla? »

« Vuoi forse arruolarti tra le loro fila? »

Közi rise forte a quella prospettiva, e senza volerlo pure lui si ritrovò a ghignare di rimando.

« Perché no? »

Stava facendo sera rapidamente, il riverbero del sole al tramonto tra i palazzi investiva la loro auto che sfrecciava per le strade semideserte . Gackt aveva indossato pure lui un paio d’occhiali da sole che aveva lasciato nel portaoggetti della Ferrari, in modo da non rischiare di venire abbagliato.

« Satoru-san? Ma a quanto stai andando? »

Közi s’era sporto verso di lui e osservava la sua guida con palese interesse misto a una certa inesprimibile inquietudine.

« Vado troppo veloce? Comunque mi puoi chiamare Gackt, lo fanno tutti i miei amici. »

« Ok… »

« So che ho un modo un po’ spericolato di guidare, me lo dicono tutti anche questo! »

Gackt ridacchiò un po’, poi continuò: « Tranquillo, non ci schiantiamo. So quel che faccio, più o meno. E me ne accorgerei se stessi per morire. »

Colse appena l’occhiata che gli lanciò Manabu a quella frase, senza tuttavia commentare nulla.

Per sua fortuna Közi non pareva interessato ad approfondire quel discorso.

« Il nostro Mana-chan invece è tranquillo e silenzioso eh? Io scommetto però che si sta divertendo, adora le auto da corsa! »

« Sul serio? » Gackt sgranò gli occhi e prese una curva a gomito a cento all’ora rischiando di volare sopra lo spartitraffico. Per fortuna che a quell’ora il numero di auto era limitato e non rischiavano di ammazzare troppa gente…

« Be’… » fu il solo commento di Mana « Diciamo che mi piacerebbe comprarmene una se un giorno le mie finanze me lo permetteranno. Siamo una band indie, per ora i soldi sono quelli che sono… »

« Per cui, produttore, datti da fare! » lo apostrofò Közi.

« Cosa cosa? I Malice Mizer li produci tu? »

« Io insieme ad una mia parente che mi ha fornito il capitale. Comunque sì, ho una mia casa discografica. »

« Produci altri artisti? »

« No. Oh, siamo arrivati. »

Gli parve che Mana volesse a tutti i costi evitare l’argomento musica, almeno con Közi presente, e non capì bene il perché, cosa avesse da tergiversare tanto. Aveva paura di sentire la sua risposta, forse? Paura di illudersi? O il suo era solo un modo per tastare il terreno?

Rimasero in macchina, senza scendere e senza dire una parola, mentre la notte incombeva in quel giorno un po’ fresco di inizio primavera, e mentre gli uomini negli uffici della Ohm Cult lavoravano come formiche. Li vedevano dalle finestre illuminate, a sfacchinare come bestie, e si chiesero forse se anche loro sarebbero finiti così in futuro, oppure no.

Loro erano così, tre ragazzi neppure ancora amici, neppure ancora nulla. Senza saper che dire, restarono in silenzio e dopo una mezz’ora tornarono a casa.

 

Lui e Mana rientrarono che mancava un’ora all’appuntamento con Takeshi.

« Se vuoi ti preparo un bagno, » gli disse Mana « sarai stanco dopo il viaggio. »

« No, tranquillo. Mi basta una doccia. »

« Allora io comincio a preparare. Ti piace il curry? »

« Certo! »

« Gli asciugamani puliti sono sul ripiano appena fuori dalla doccia, per i vestiti ti va bene se ti presto qualcosa io? Tempo di lavare i tuoi. »

« Ma dai, non preoccuparti! Non c’è bisogno che ti disturbi tanto! »

« Nessun disturbo. Anzi, mi fa piacere che tu sia qui, davvero. »

Gackt sorrise. Desiderava davvero lavarsi e tornare presentabile, a dire il vero.

Mentre faceva la doccia sentiva distintamente il rumore delle pentole e di Mana che ciabattava per la cucina spostando piatti e piattini. Aveva l’udito molto acuto, lui, e riusciva a sentire anche cose che agli altri esseri umani talvolta sfuggivano.

Quando uscì dal box doccia, grondante acqua, trovò i vestiti che gli aveva lasciato Mana: un paio di pantaloni sportivi larghissimi, una felpa e pure la biancheria. Era un ragazzo meticoloso, non si lasciava sfuggire proprio nulla.

Dopo essersi vestito s’affacciò un attimo in cucina per domandare a Mana se aveva un phon per i capelli. Quasi rise quando vide che s’era legato i suoi in una coda alta e aveva infilato un grembiulino celeste tutto pizzi.

« Oh certo, il phon! Scusami, te lo prendo subito! »

In quel momento suonò il campanello e certamente era Takeshi che s’era preso qualche minuto d’anticipo. Mana aprì la porta, se lo trovò davanti e si guardarono. Taka guardò Mana, poi spostò lo sguardo su Satoru che si stava frizionando i capelli con un asciugamano, poi di nuovo su Mana in versione “casalinga indaffarata”, restando in silenzio. I due seppero che stava per spararne una, ne furono consapevoli nel momento stesso in cui videro delle rughe formarsi sulla sua fronte. Stava pensando, e quello non era mai un buon segno. Mana si premunì cominciando a tirar fuori una delle sue scarpe col tacco altissimo.

« A quanto vedo avete fatto passi avanti rispetto a qualche ora fa… »

Takeshi ebbe appena il tempo di scorgere Mana sollevare la scarpa e atteggiarsi in una minacciosa posizione di lancio.

« Non ti mancherò. Lo sai. »

E Takeshi non seppe resistere a quella voce così tenera, amorevole e ruggente. Fulmineo si sciolse, avvicinandosi all’ignaro Manabu e abbracciandolo stretto con tale scioglievole melassa che a Gackt quasi venne da vomitare.

« Mana-chaaan, ti adoro! »

Così facendo facilitò il compito a Mana, che la scarpa non ebbe neppure bisogno di lanciarla.

« E ringrazia che i tuoi capelli ammortizzano qualsiasi urto! » gli urlò il ragazzo prima di tornare verso la cucina.

Da là lo sentirono chiamare, qualche minuto dopo, proprio mentre s’erano tranquillamente accomodati in salotto e stavano chiacchierando del più e del meno come – finalmente – due bravi e vecchi amici che si rincontrano dopo anni di latitanza.

« Venite, ho preparato! »

Entrambi s’alzarono, e Takeshi consigliò a Gackt di dare un’annusata per aria, tanto per rendersi conto di quali fossero le doti culinarie di Mana. Lui lo fece, e subito l’aroma un po’ forte e speziato del curry gli inondò le narici.

« L’hai preparato tu? » domandò a Mana mentre si sedevano a tavola.

« Certo! Ogni singolo ingrediente è stato selezionato da me! »

« Un giorno dovrai insegnarmi come si fa, è spettacolare! »

Takeshi, che stava sollevando del riso dalla sua ciotola, rimase coi bastoncini a mezz’aria e l’espressione perplessa.

« Cavoli, fai già progetti a lungo termine, eh Sacchan? »

Nel dire questo gli lanciò il riso che teneva fra le bacchette facendoglielo finire nel piatto.

« Ma si può sapere di che t’impicci tu? »

Taka stava per replicare, ma il suo intervento venne bloccato sul nascere dalla funerea percezione dell’ombra funesta di Mana e di quella della sedia che il ragazzo dai capelli neri aveva sollevato, pronto a fracassarla in testa al malcapitato amico.

« Sono spiacente, Gackt, se ti troverai costretto ad assistere a scene di violenza gratuita, ma posso assicurarti che non c’è altro modo. »

« No problem, succede anche a me di volerlo pestare ogni tanto. »

« E ora veniamo a noi, Takeshi. A casa mia non si spreca il cibo. Sappi che se usi ancora un solo chicco di riso per i tuoi innominabili giochetti ti costringo a mangiarlo dal secchio della spazzatura. »

Ed era spaventoso.

Inutile dire che, quella sera, Takeshi fece il bravo.

 

 

 

- continua -

N.d.A. Un capitolo che mi ha fatto penare questo, mi scuso infatti se è giunto così tardi ma tra esami e caldo non ho avuto proprio tempo di lavorarci. Un po’ più serio per i canoni di Gackt, questo anche per via di Mana che altrimenti penso si sarebbe rifiutato di apparire… ^^; se mi sciopera lui è la fine. Comunque, finalmente ce l’hanno fatta visto? Si sono incontrati, la miccia è stata accesa e d’ora in avanti potranno scatenarsi! Ci tengo a precisare che il nome di Közi me lo sono bellamente inventato, non essendoci alcuna notizia riguardo a quale potrebbe essere il suo vero nome. Tanto d’ora in avanti non mi servirà più, lo chiameranno tutti col suo nome d’arte. Takeshi continua ad essere la vittima della situazione e il mio principale inviato all’interno di Mad Tea, povero ragazzo, e finalmente mi sono potuta togliere una soddisfazione: dipingere il caro Mana in versione casalingaaa!! Ahahahahah!!!

Spero davvero che abbiate gradito il capitolo nonostante il caldo che mi ha castrato l’ispirazione, e scusatemi ancora una volta per la lunghissima attesa!

 

Vitani

 

   
 
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