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Autore: Blackrose_96    17/01/2013    7 recensioni
Due sorelle. Un'amica. Un ragazzo dagli occhi verdi. Tutto ai tempi in cui non bastavano più le katana e le lance per difendersi. Un ciliegio unirà due mondi tanto diversi e lontani e questi daranno vita a una storia. La storia del mondo. La guerra. L'amore.
Genere: Avventura, Azione, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Chizuru Yukimura, Hajime Saitou, Kyou Shiranui, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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Capitolo 5
Di pensieri e di incontri

 
 

Camminava. Camminava sulla strada per chissà dove.
La odiava. Shiranui la odiava e basta, senza riserve. Avrebbe voluto prenderla e portarsela via; e infine ucciderla, prima che potesse pregarlo di cambiare idea. Invece no, l’aveva lasciata lì insieme a quel samurai ferito, completamente indifesa. Idiota.
Il solo ripensarci gli faceva ribollire il sangue nelle vene. Aveva sprecato un’occasione d’oro per vendicarsi di quell’insulsa, sporca gaijin: si sarebbe potuto liberare di quegli occhi chiari e intelligenti, di quelle labbra rosse e sensuali, di quell’insulso accento straniero. Si sarebbe liberato di quel muso occidentale e finalmente sarebbe riuscito a farla uscire dalla sua testa.
Shiranui scagliò un energico pugno contro il tronco dell’albero più vicino, che ondeggiò vertiginosamente. Era furioso. Non sapeva neanche lui cosa le avrebbe fatto se se la fosse trovata davanti, tutta sola – o anche con qualche samurai a guardia, una battaglia avrebbe reso tutto più interessante. Probabilmente l’avrebbe sbattuta senza pietà ai piedi di uno di quegli alberi fruscianti. E magari, alla fine, invece di ucciderla, l’avrebbe portata con sé, per prolungarne le sofferenze. Ma in fondo qual’era la vera colpa di quella ragazza? Shiranui non esitò due volte a trovarvi una risposta: il solo fatto di esistere e di essersi radicata così in profondità nei suoi pensieri erano già peccati imperdonabili.
~
Si portò una mano sul viso, svogliatamente.
Per quanto ci provasse, non riusciva a scacciarla, come si fa con qualcosa di indesiderato. Forse proprio per questo non riusciva a non pensarci: lui la voleva. Voleva toccare quella pelle lattea, carezzare quei capelli sottili, baciare quelle labbra deliziose. Fin da quando aveva avuto il piacere di respirare il profumo muschiato dei suoi capelli al loro primo incontro, quella gaijin aveva attirato la sua attenzione: e lui non aveva voluto farci caso, aveva ignorato quell’enorme larva nata dai suoi occhi azzurri, quel parassita che prima o poi avrebbe finito per divorarlo, se non l’avesse frenato in tempo.
Che pensieri stupidi. Non poteva permettersi certi tipi di distrazioni – o almeno non a lungo termine. In un momento così delicato Kazama non avrebbe accettato nessuna negligenza: quel tizio, Saigou Takeshi, gli aveva promesso tutto ciò che gli serviva, che bramava in modo quasi ossessivo. Un modo per preservare la razza dall’estinzione – o forse farla estinguere, la razza, secondo la sua richiesta. Bella speranza, no? Una speranza tanto falsa quanto le parole melliflue di quell’individuo. Ma Kazama non era uno sciocco, non si sarebbe fatto abbagliare dalla luce di quel miraggio. O comunque avrebbe saputo valutare la situazione, volgendola a proprio beneficio, fregando tutti, probabilmente anche lui.

~

Shiranui non aveva comunicato a nessuno le proprie perplessità, men che meno a uno come Kazama. Era un’alleanza, avevano un patto, sì: ma erano persone diverse, l’altro era un purosangue, ma entrambi erano oni; non si sarebbe abbassato a nessun costo al ruolo di “scagnozzo”. Quanto poteva odiarla, quella parola. Si poteva considerare sinonimo di “bambola”, “burattino”: un fantoccio da comandare a proprio piacimento nel loro mare di stronzate. Perché in fondo il suo unico obbiettivo era quello di avere le spalle coperte, in cambio di una reciproca protezione. Nulla di più, nulla di meno.
~
Per anni Shiranui era stato braccato dagli esseri umani che avevano decimato il suo clan. Piccoli omuncoli disgustosi, striscianti, indegni anche solo di essere insultati. Ma poi lui se l’era presa, la sua vendetta. Se l’era presa proprio con quel revolver, fedele compagno delle sue scorribande. Si fermò in mezzo al sentiero, affondando gli anfibi nella terra umida. Carezzò delicatamente il calcio della pistola, domando l’istinto di impugnarla e tornare indietro.
Li aveva fatti fuori. Tutti. Uomini, donne, anziani; anche bambini. Come quei bambini che LORO non avevano nemmeno pensato di risparmiare. Ancora lo vedeva, il villaggio in fiamme. Si ricordava ancora tutto. Le alte lingue rosse e raggiate che si abbattevano sui deboli scheletri delle abitazioni di legno e paglia. L’odore acre del fumo denso, plumbeo. Quei pagliericci umani che ardevano di dolore e paura. Quelle anime logore che aborrivano i corpi che le avevano contenute.
Il volto solenne di Kazama.
Lo sguardo serio di Amagiri.
E lui, Shiranui, rideva, come un povero diavolo divorato dall’odio e dalla fame di vendetta, che l’aveva logorato e logorato per anni, senza risparmiare neanche una fibra del proprio essere.
E adesso vagava senz’anima come un funambolo senz’asta, un instabile equilibrista che rischiava di cadere a ogni suo passo, alle prese con un vuoto più profondo di quello che si portava dentro, un immenso, insaziabile buco nero. Ma cadere dove? Nei Kami non ci aveva mai creduto, nemmeno nell’aldilà.
Forse cadere e basta. Cadere con la consapevolezza che appena si sfiorerà il suolo ci si farà male. Una rovina senza speranza, inevitabile.
E allora perché si sarebbe mai dovuto preoccupare?
Un sorrisino gli sfiorò le labbra.
In caso, si sarebbe potuto sempre rialzare.

~

Un respiro affannato. Passi veloci e scricchiolanti. Shiranui si volse immediatamente verso la direzione da cui provenivano quei rumori. Si acquattò dietro un vecchio acero, il revolver stretto in pugno. Smorzò il proprio respiro, assottigliando lo sguardo.
Si stava avvicinando, lo sentiva. Portò indietro il cane della pistola, pronto a sparare. Non importava cosa fosse, aveva voglia di sfogarsi su qualcosa, qualcuno. I pensieri di poco prima non l’avevano messo affatto di buonumore.
Le foglie crepitavano, sempre più vicine, passo dopo passo. Eccolo che arriva …
Shiranui trasecolò, abbassando l’arma. Era lei. La gaijin.
Un sorriso soddisfatto gli si dipinse sulle labbra. Allora non era proprio così innocente. Correva furiosamente verso il centro di una radura, mantenendo a mala pena l’equilibrio necessario per non cadere.
Sarebbe bastata una pallottola. Diretta alla gamba, al braccio, al ventre, alla testa. Avrebbe fatto la fine di una cerva disattenta.
Una pallottola e sarebbe stata sua.
Senza fare il minimo rumore, Shiranui la seguì per un breve tratto, fino a che ella non si gettò in scivolata ai piedi del tronco del ciliegio che troneggiava al centro del prato. Ecco. Prese la mira, il colpo in canna. E quel proiettile che era diretto a lei sarebbe finalmente arrivato a destinazione. L’avrebbe presa di spalle, senza che se ne accorgesse.
~
Un attimo. Il grilletto rimase immobile, appena sfiorato dall’indice di Shiranui. Attese qualche secondo, rimettendo la sicura alla pistola, confuso fra le ombre dei rami. Sentì di nuovo i passi veloci di quella ragazza. Uno, due, tre, già non si vedeva più.

~

Solo allora Shiranui Kyou riprese a respirare. Guardava senza vedere, gli occhi sbarrati. Gettò il revolver a terra, ringhiando. L’onore, quel maledettissimo briciolo di coscienza che naufragava derelitto nel suo vuoto senza fondo; quell’insulsa pietà scarabocchiata ai margini della sua esistenza. Pietà di chi, poi? Di certo non di quella gaijin. Sarebbe stato meglio liberarsene subito. O forse sarebbe stato solo più facile?
Appena l’avessero trovata, avrebbero pensato quei ronin a punirla. Condannata dai suoi stessi salvatori.
Un equo prezzo per il suo inconsapevole affronto.

~

Guadagnò verso il vecchio tronco, serio in volto. Si accovacciò lì ai piedi, guardingo che non ci fosse nessuno nelle vicinanze. Proprio dove prima la gaijin si era inginocchiata ci erano tre stranissimi furoshiki variopinti. Prima Shiranui non ci aveva fatto attenzione, ma, ora che osservava meglio, poteva benissimo notare che una di quelle tre sacche – di un azzurro brillante, che contrastava con la ruvidezza del tessuto, una sorta di cotone molto grezzo – giaceva aperta, rivoltata sull’erba.
Interessante quell’oggetto. Senza dubbio la fattura era molto singolare, ma mai quanto quelle cinghie nere cucite su quello che intuiva fosse il retro. Magari avrebbe potuto venire a conoscenza di qualcosa di notevole, che potesse distrarlo per un po’ – o forse solo tenerlo a bada?
Senza pensarci due volte Shiranui sollevò quel sacco azzurro, zeppo di quaderni enormi e libri ancora più immensi, per non parlare degli stranissimi oggetti che si riversarono sul prato. Nonostante non ci fosse dubbio che quella fosse roba occidentale, straniera, Shiranui non poté che rimanere affascinato da quell’insolita chincaglieria, così diversa dall’artigianato locale.
Prese uno dei libri più sottili, dalla copertina di un vivissimo, stupefacente color rosso fuoco, e lo aprì in una pagina a caso. La carta di cui era composto era sottile e leggera, nonostante sembrasse anche piuttosto resistente. Girò qualche foglio, da destra verso sinistra, finché non trovò una pagina, scritta con fittissimi geroglifici di inchiostro blu che continuavano in orizzontale fino al bordo del foglio. Era … pazzesco. Pazzesco che un essere umano potesse comprendere una scrittura così complessa, disordinata. Shiranui sfiorò la carta, con la punta dei polpastrelli. Era liscia, morbida. Girò ancora qualche pagina, ma a quanto sembrava in quel manuale non c’era niente che lui potesse comprendere.
Non era certo fiero di ammettere una cosa simile, ma non voleva perder altro tempo con cose incomprensibili. Prima che potesse decidere di esaminare un altro oggetto, però, fu attirato dal lembo stropicciato di un foglietto colorato che sbucava da un volumetto molto più spesso e piccolo degli altri. Lo sfilò delicatamente e notò con stupore che si trattava di un lucidissimo dagherrotipo a colori, un genere di tecnologia che non aveva mai avuto il piacere di conoscere.
Però, prima che potesse analizzare con maggiore attenzione l’immagine, stralci di frasi pronunciate in lontananza lo raggiunsero. La Shinsengumi …

E in un attimo si dileguarono, lui e quello strano dagherrotipo.
~

Kate gettò un’occhiata alla luna, che adesso illuminava Kyoto; brandelli di nuvole grigie ad offuscare le stelle. Si stiracchiò le membra stanche, mentre un samurai molto più gentile degli altri, Inoue Genzaburo, presente anche al suo interrogatorio, la conduceva nella stanza dove avrebbe passato la notte. Strascicò i piedi fino all’entrata della washitsu, quando una voce alquanto familiare le infiammò i timpani stanchi.
-Kate! Che bello rivederti! Eravamo tanto preoccupate per te!
Neanche il tempo di aprire lo shoji, che la piccola Yukari le si era lanciata al collo con tutto lo slancio possibile, mettendo a repentaglio il suo instabile equilibrio. Pronunciava quelle parole di gioia in preda ai singhiozzi più disperati. Si poteva dire che quella ragazza fosse un vero e proprio paradosso vivente: era pazzesco come riuscisse a cambiare umore così facilmente; dava quasi l’impressione di poter piangere e ridere allo stesso tempo.
-Lo so, lo so. Anche io ero preoccupatissima – rispose lei, in tono materno, sciogliendo il suo abbraccio fin troppo soffocante e asciugandole i lacrimoni che le avevano rigato le guance colorite.
Kate scrutò oltre le spalle di Yukari e sorrise: poco dietro la ragazza, stava Akane, distesa sul tatami, con la mano alzata in segno di salute, sorridente. Sorrisi che non avevano bisogno di parole, né di suoni, né di labbra arricciate. Sorrisi che si leggono in un’occhiata; l’alfabeto muto della loro amicizia, fatto di cenni e sguardi, che poteva abbattere il muro insormontabile del silenzio.
Bastava solo questo, per capirsi.
-Ehilà bella bionda! – esclamò Akane, che le andò in contro, gli occhi ridotte a due strette fessure per la felicità.
-Oh, da quanto tempo!
Si stritolarono l’un l’altra con un lungo abbraccio spaccaossa, fino a che Akane non si scollò, dicendo:
-Ehi, cosa diavolo hai fatto? Puzzi da far schifo!
- … Gentile come sempre – ribadì la bionda.
-Guarda che è vero! – disse, facendole la linguaccia.
-Allora è toccato anche a te – Yukari si intromise nella discussione, puntando un dito verso il petto di Kate.
Per un attimo la ragazza non capì: è toccato anche a te cosa? Solo allora si accorse, nella poca luce che la scarsa illuminazione garantiva, che anche le sorelle Kawakami indossavano dei vestiti tradizionali. E c’era da aggiungere, inoltre, che, sì, in effetti lei era combinata abbastanza da far schifo. Fra le macchie di sangue secco, di terra, di erba e di polvere da sparo – per non parlare delle buon vecchie chiazze di sudore – non si riusciva a capire neanche il colore originale del kimono.
-Già; ci hanno detto che quei vestiti erano … bhe … indecenti, così ci hanno dato questi – Yukari volteggiò su sé stessa, a braccia aperte, per mostrare il kimono – a me è toccato questo, ma devo dire che mi è andata meglio rispetto a voi.
Il semplice kimono color prugna dalle lunghe maniche svolazzò in sincrono con il corpo della ragazza. Nonostante fosse il meno malconcio dei tre, doveva aver visto tempi migliori: ora la stoffa ricadeva un po’ sgualcita, usurata sulle maniche e sull’orlo inferiore; un vecchio kimono da festa dimenticato nell’angolino buio di un cassetto.

~

-Bhe, questo è sicuro! Ah, lei è l’unica a cui hanno dato un kimono femminile, perché “sarebbe un vero peccato far vestire una così bella fanciulla da uomo”, a detta di una signora di qui, la vecchia proprietaria del kimono. Ma, insomma, guardate me! – Akane imitò la piroetta della sorella, disintegrando tutta la grazia del movimento – allora, come vi sembro? – continuò, facendo l’occhiolino a entrambe.
A Kate non poté sfuggire una risata: con quei larghi hakama grigi, in tinta con l’haori, e con le mani puntellate sui fianchi ampi sembrava proprio un daimyo d’altri tempi.
-E-Ehm … sumimasen …
Le tre ragazze si voltarono verso lo shoji ancora aperto, da cui entrava una piacevole brezza. Il samurai di mezz’età e dalla pettinatura strana, Inoe, era ancora lì davanti, in evidente imbarazzo. Probabilmente le uniche parole del loro discorso (proferito in danese) che aveva capito erano state “kimono” e “gaijin”. O forse nemmeno quelle.
Kate si sentì un po’ in colpa, mentre assecondava l’impulso di scusarsi. In fondo lui era stato il primo ad essere gentile, oltre Kondou-san.
-Oh, gomen nasai, Inoue-san! Non era mia intenzione ignorarla.
Kate si scusò, abbassando il capo, mentre le sue amiche la fissavano, stranite.
-Oh no, tranquilla! Volevo solo dirvi che fra poco vi porteremo la cena, avrete fame dopo una giornata – un dolce sorriso paterno si dipinse sul suo volto.
-Yatta! Si mangia finalmente!
-Non vedevo l’ora!
-Arigatou gozaimashita, Inoe-san.
Inoue Genzaburo rise nell’ascoltare i commenti che le giovani avevano esclamato, nella lingua giusta questa volta.

~

-Allora, allora, allora! Cosa ti è successo, Kate-chan? – chiese la più piccola, saltellando in preda all’impazienza, appena sentì sbattere lo shoji.
Sì, era lunatica; maledettamente lunatica.
Kate sospirò, fissando il soffitto, mentre cercava di mettere ordine fra gli eventi di quella giornata spossante.
Storse il naso: non era affatto un’impresa facile.
-Allora? Anche io sono curiosa! – esclamò Akane, distesa a pancia sotto sul tatami.
-Mmmh … è una storia a dir poco … lunga. Intanto raccontatemi cosa è successo a voi.
Senza stupire minimamente le compagne, Yukari cominciò a esporre ciò che le era successo:
-Vi ricordate che ieri sera ero svenuta, no? O almeno è ciò che mi ha raccontato il samurai che è venuto a slegarmi. Infatti ero stata legata e imbavagliata in una washitsu come questa. Dopo essermi svegliata da uno strano incubo, mi sono ritrovata così: con le corde ai polsi e alle caviglie. Sarà passata almeno un’ora prima che qualcuno venisse ad aiutarmi. Ha detto di chiamarsi Todou Heisuke. Non è molto alto, men che meno massiccio, ma ha un sorriso e degli occhi turchesi molto rassicuranti. Pensa che quando gli sono scoppiata a piangere davanti ha tentato di consolarmi e mi ha spiegato con più calma ciò che è successo. Non rammento molto di ieri sera, ma penso di essermi presa un bello spavento. Ricordo solo … Akane, e la spada, e il sangue … - un paio di occhi verdi le violentarono improvvisamente i pensieri.
-Yukari, cos’hai? – chiese Kate allarmata, avvicinandosi all’amica, che si reggeva la testa con entrambe le mani.
-N-niente … state tranquille … è solo …
-Non dire sciocchezze, cosa hai visto? – più che una richiesta, quella di Akane sembrava un’improrogabile imposizione.
-Niente, davvero, sono soltanto sciocchezze legate al brutto sogno di stanotte, né più né meno.
Akane si ridistese sul tatami, crucciata, pensierosa.
-Se lo vuoi proprio sapere, non mi sono mai piaciuti i tuoi incubi: non preannunciano mai nulla di buono.

~

-Poi ho incontrato anche il ragazzino con il kimono rosa che non si è presentato; mi ha portato il pranzo.
In pochi momenti Yukari era tornata alla normalità, riacquistando la sua logorroica parlantina; anche se si sentiva qualcosa di strano: negli occhi, nella bocca, nella voce di un tono più basso; un qualcosa (o un qualcuno) intrappolato nella sua testa era riuscito a rompere la loro serenità.
- E infine un samurai di poche, pochissime parole, che stava davanti alla porta come guardia. MI. HA. COMPLETAMENTE. IGNORATA. – concluse la più giovane.
A Kate sfuggì una risatina: quello doveva essere il gemello di Saitou Hajime. Un sorriso che però divenne quasi subito agrodolce, pensando alle sue vicende.
-Ma sai come si chiama il samurai muto? – chiese Kate.
Yukari scosse la testa.
-No, come ti ho detto mi ha completamente ignorata; però era alto almeno trenta centimetri in più di me. Sembrava che il suo volto fosse fatto di porcellana, in contrasto col nero corvino dei capelli e col nocciola degli occhi. Devo ammettere che non era niente male.
-Io invece – Akane prese la parola con un piglio quasi annoiato, a cui seguì un lungo sbadiglio, forse per la fame, forse per il sonno – sono stata svegliata (troppo presto, per i miei gusti) da un tizio dai capelli castano-rossicci; non ho notato altro di lui, ancora non avevo preso nemmeno coscienza della realtà. Probabilmente ero legata pure io, forse … bho … non lo so. Comunque questo si avvicina e … pensate che stavo per lasciargli una mancia!
Kate la guardò interdetta, con  un sopracciglio inarcato; mentre Yukari già rideva.
-Mancia? In Giappone? Fortunatamente non eravamo in un normale albergo!
-Appunto! Mi ero fatta una versione tutta mia di ieri sera. E poi questo fuso orario! Pensavo che fossimo andate a bere e che io mi fossi ubriacata fino a svenire, spiegato così il mal di testa. Voi mi avevate portata in un albergo lì vicino, di quelli tradizionali. Sinceramente in quel momento non ho proprio pensato al fatto che qui non è buona creanza. E … niente; pensavo che quel tizio fosse il cameriere, tipo sveglia in camera. Dovevate vedere la sua faccia quando gli ho dato la monetina da cento yen che mi ritrovavo nella tasca del vestito. – a proposito del vestito, il mio adorato abito rosso è finito per diventare un origami a causa del biondino psicopatico! – Vi giuro, era da oscar!
Le tre si sfogarono in coro con le proprie personalissime risate, allegre e un po’ sguaiate.

~

-E tu, invece?
Kate prese un respiro profondo. Non era facile ricollegare tutti i frammenti di memoria di quella giornata che si portava dentro. Era come se si espandessero man mano che il tempo passava, un agglomerato di ricordi diversi ma collegati da un filo sottile, trasparente.
Alla fine si decise e con tono insicuro cominciò a raccontare.
Parlò della sera precedente, quando le sorelle erano già svenute; dell’interrogatorio; del fatto che a quanto pareva erano ritornate davvero all’età della restaurazione Meiji; di Saitou, dei bagagli e dell’incidente; di Shiranui – omettendo sapientemente il “regalo” che aveva voluto farle – e dei sospetti che provava verso di lui. A questo punto venne interrotta dalla voce squillante di Yukari, che aveva alzato la mano per parlare, come a scuola.
-Posso fare una domanda? Tu pensi che Shiranui voglia qualcosa da noi, giusto? Come anche quell’altro, Kazama, che ci ha attaccate l’altra sera. E magari si potrebbe pensare che le raccomandazioni di zia Naoko di non andare a Kyoto fossero legato a questo e …
Kate trasalì, appena le vennero in mente i tentativi di dissuasione di zia Naoko. Era alquanto azzardato supporre una cosa simile, ma, forse, in un modo o in un altro, le due cose erano collegate. Kate si sfiorò il mento con l’indice.
-Bakumatsu … bakumatsu … bakumatsu … !!! Kawakami bakumatsu, bakumatsu Kawakami!!! – urlò Kate in preda all’euforia.
-Perfetto, anche lei è andata! – esclamò Akane, alzando gli occhi al cielo.
-Voi siete giapponesi, giusto? Come entrambi i vostri genitori, no? Sapete quando la vostra famiglia ha emigrato?
Yukari si massaggiò l’attaccatura del naso.
-Non so, prima di trasferirci in Danimarca, abbiamo vissuto nella casa dei nostri nonni in Italia … può essere che siano stati i nostri bisnonni. Che poi, a quanto ho capito da quel poco che mi hanno raccontato, i nostri avi sono partiti in un gruppo abbastanza numeroso verso l’Europa … saranno state circa quattro-cinque famiglie. – disse, in cerca di più pause di riflessioni possibili.
-Una volta zio Kyosuke mi ha detto – cominciò Akane, seria come poche volte l’avevano vista – qualcosa a proposito: ci stavamo allenando con le (spade di legno per allenamento) e mi ricordo di avergli chiesto da quanto non andasse in Giappone; lui mi rispose che ci era andato solo una volta, da piccolino, e non si ricordava quasi nulla di quella terra. Lui era nato in Danimarca, come anche i suoi genitori: i genitore di nostro padre e di zio Kyosuke erano nati qui, ma i loro nonni no; loro avevano emigrato. E poi niente; lui si è distratto e ha perso l’incontro. Non abbiamo più parlato.
Akane era un genio. Senza dubbio il suo cervello doveva avere qualche meccanismo di carica in stand-by che le permetteva di avere degli attacchi di genialità improvvisi, pensava Kate, prima di condividere le sue conclusioni.
-Un caso di omonimia! – esclamò, apparendo ogni attimo più convinta – se parliamo dei vostri bisnonni, si parla della seconda metà dell’800; proprio in Giappone, dove siamo noi adesso. Non era normale, però, che più famiglie emigrassero in massa in un periodo come questo: devono esserci stati seri motivi per rischiare in questo modo la propria vita.
-Forse gli stessi motivi che hanno spinto zia Naoko a convincerci di non andare a Kyoto! Che lei sapesse? – concluse Yukari, stupita dalle capacità deduttive dell’amica e da come quella teoria quadrasse a perfezione.
Akane si mise a sedere a gambe incrociate davanti alle amiche: stava di nuovo pensando a qualcosa; nulla di bello, a giudicare dalla sua espressione.
-Se fosse davvero così … tu non dovresti essere qui. Non sei giapponese, non hai nulla a che fare con questa storia. Allora perché anche tu sei stata coinvolta?
-Una coincidenza, probabilmente.
-Una coincidenza che non sarebbe dovuta accadere.

~

-Dai, ragazze, non vi preoccupate: troveremo una soluzione. Adesso la domanda più importante da porre è un’altra: noi lo possiamo cambiare il passato?
La bionda e la bruna si voltarono verso Yukari, che batteva insistentemente i polpastrelli sul tatami.
-Bella domanda … qui si rischia forte … - asserì Akane.
-Per esempio se Saitou Hajime morisse adesso, subentrerebbe un altro capitano; un’altra personalità che potrebbe rivoluzionare la Shinsengumi e il Giappone. Se non sbaglio Saitou Hajime sarebbe dovuto morire dopo della disfatta della Shinsengumi, mentre adesso …
Quell’affermazione colpì Kate dritta al petto, un dardo avvelenato di incertezze e possibilità; e se fosse morto, che avrebbe fatto? Quella domanda la tormentava fin da troppo tempo, le vorticava nella testa come una trottola ricoperta di aculei. E se, e se, e se
-Il vero problema è se possiamo davvero o no – concluse Yukari.
-Tranquilla Yukari, la prova del nove è proprio qui! – il tono di Akane risultò completamente diverso da poco prima, gioviale.
-Akane, non riesco a seguirti.
-Se Saitou vive, non la possiamo cambiare, se muore siamo fottute. Semplice, no?
Kate venne infastidita parecchio da quel binomio che puntava ad essere comico. E quei “se”, lei non li avrebbe voluti più sentire; voleva certezze, si era stufata con tutte quelle supposizioni. Un conto era alleggerire la tensione, un conto era parlare di un uomo – l’uomo che le aveva salvato la vita – come una cavia da laboratorio.
-Ma non sarà la prova del nove.
Yukari fu più veloce di lei a ribattere.
-Ma è pur sempre una prova! E poi ci saranno tante di quelle occasioni! Abbiamo tre mesi di tempo, poi voi dovrete tornare. Perché non passare le vacanze qui? Immerse negli anni del Bakumatsu, a respirare storia. Sarà divertente! – esclamò Akane con un sorrisone a trentadue denti stampato sulla bocca.
-Spero che vivamente che tu stia scherzando – sibilò Kate, trafiggendola con i suoi occhi di cielo. Era impazzita o cosa?! Come avrebbe mai solo potuto pensare a una possibilità simile? Dovevano tornare alla loro vita, quel tempo non era loro. Non avevano certezze lì, se non che si trovavano assolutamente in pericolo. Era stanca, stanca di tutto. Voleva tornare a casa e leggere un libro, bere una cioccolata calda e studiare un po’. Lei non apparteneva a quella realtà; non la voleva.
-E perché scusa? A parte i pasti da convento – che avrai l’opportunità di assaporare anche tu – cosa c’è di male in questo posto? Siamo immerse nel verde, in un mondo che mai potremmo conoscere nella nostra era!
-Akane, qui c’è la guerra. E poi dobbiamo trovare anche un modo per tornare a casa.
-Non capisco la vostra fretta.
Fu la goccia che fece traboccare il vaso. Per un attimo Kate aveva pensato che almeno per una volta sarebbero state prudenti; no, invece. Si sentiva come se il nodo che aveva nella gola fosse pronto ad esplodere.
Kate inghiottì le lacrime che stavano facendo a botte per stillarle dagli occhi, si alzò in piedi e cominciò a sputare fuori tutta la sua frustrazione sottoforma di sibili minacciosi.
-Forse non ti importerà niente di ciò che ci appartiene, di ciò che è il nostro mondo. Forse tu non hai progetti per il futuro, la tua massima ambizione è di stare stravaccata sul divano fino a sera; ma IO DEVO tornare. Voglio poter fare ciò che è il mio sogno! Voglio studiare per poter andare all’università, ma non ci riuscirò mai se rimarremo sempre intrappolate qui!
La voce le si incrinò proprio alla fine della frase. Si morse il labbro inferiore, fino a farne uscire una piccola goccia di sangue. Lo sapeva, alla fine aveva ceduto. Non era riuscita a superare quella situazione senza far ricadere la colpa sulle sue migliori amiche, che la guardavano con gli occhi sgranati.
-E non mi guardate così, cazzo!
Kate uscì dalla stanza, sbattendosi lo shoji alle spalle, come se così avesse potuto chiudervi dentro tutti i problemi, nell’attesa che a uno a uno si diradassero, come acqua in vapore.

~

Yukari si alzò dal tatami. Le dispiaceva troppo che l’amica se la fosse presa così tanto per ciò che aveva detto Akane. Sua sorella parlava sempre a vanvera, in fondo! E lei avrebbe dovuto saperlo meglio di chiunque altro. Guadagnò verso lo shoji, quando la forte mano della sorella le cinse il polso, trattenendola.
-Yukari, non andare.
La voce di Akane le arrivò alle orecchie in modo perentorio, più che supplichevole, creando un aura di saggezza in sottofondo. Ma la sorella la stupì ancora di più nel momento in cui le fornì altre spiegazioni: sembrava davvero un’altra persona, una persona SAGGIA.
-Ma …
-Yukari, Kate ha bisogno di piangere un po’ da sola. Non l’hai vista quando è entrata? Sembrava quasi che avesse incontrato un fantasma; si vedeva che era su punto di esplodere. Ma appena ci ha viste, come suo solito, ha pensato di poter gestire la situazione da sola e ha fatto buon viso a cattivo gioco. Aveva bisogno di qualcuno che la spingesse a sfogarsi; secondo te direi davvero cavolate così colossali senza un motivo valido?! Anche io voglio tornare nella nostra epoca e mangiare del cibo decente.– le sue labbra carnose si distesero in un dolce sorriso – Ci conosciamo da troppo tempo, non mi frega più come una volta. E poi fra poco ci serviranno la cena; tu non farai aspettare la cena, vero?
Yukari scosse la testa in senso di diniego, arricciando il nasino leggermente arcuato. Le risultava pazzesco come Akane riuscisse a capire Kate al primo colpo.
-Perfetto! Allora per adesso lasciamo Kate un po’ in pace. Dopo che si sarà sfogata, tornerà da sola.
La sorella minore si mise a sedere, guardando il profilo ben delineato della sorella. Riusciva a legger nei suoi occhi scuri, illuminati dalla tremula luce di una candela, una felicità profonda, che andava oltre il semplice ricongiungimento con un’amica. Era qualcosa di più, impalpabile ma allo stesso tempo vitale, come gli impercettibili battiti del suo cuore. Perché Yukari sapeva che nella testa di Akane solo due cose avevano importanza: una era Kate, l’altra era Yukari.
 
 
Angolo autrice:
ok, rispetto alla mia solita (pessima) tempistica, direi che stavolta sono riuscita a pubblicare un aggiornamento prima che Sakura no toki si riempisse di ragnatele – come è già successo fra il terzo e il quarto capitolo :3 - in un angolino del nostro sfigafandom preferito, che da poco si è ripopolato *^* fatevi avanti nuovi adepti! Dobbiamo iniziarvi tutti alla nostra dottrina!
… scusate, è la fisica che mi causa simili deliri XD sì, perché io odio la fisica ù_ù Comunque ciancio alle bande, non voglio annoiarvi oltre :D su questo capitolo non ho nulla di particolare da dire, se non un grazie cubitale a Chandrajak per il betaggio :*** gentilissima e disponibile come sempre ^^ e poi anche a Shinkutsuki e miloxcamus che hanno recensito il precedente capitolo :3 e ovviamente anche a tutti coloro che hanno recensito precedentemente, seguono la storia o l’hanno inserita fra le preferite :D
Un bacio :****
 
Blackrose

   
 
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