Io odio le divise scolastiche
La mattina
dopo Rea si alzò in ritardo. Suo padre sentì un’imprecazione rumorosa e poi uno
schianto e sorrise. Non sarebbe cambiata mai.
“Perché non mi hai svegliata? Ti diverti a sapere che farò
tardi il mio primo giorno ufficiale da liceale?” lo aggredì lei,
scendendo le scale con in mano il giacchetto dell’uniforme.
“In effetti la cosa mi diverte. Sei grande e vaccinata,
tesoro, non pensavo che avresti avuto bisogno di me per rimettere una sveglia”
le rispose, passandole una tazza di caffè. Lei la prese al volo, ingurgitando
la bevanda e scottandosi la lingua.
“Dannata scuola, non l’ho mai sopportata” disse.
Infilò le scarpe e recuperò la cartella dall’ingresso.
“Vado con la mia macchina, ci vediamo dopo!” lo
salutò di corsa.
L’uomo si
alzò in fretta e la fermò.
“Che c’è?” chiese la ragazza irritata.
“Siamo a marzo e, soprattutto, sei in una classe di
liceali. Quali studenti possiedono un’auto propria a codest’età?” le
fece presente, con un sopracciglio alzato. Rea strinse i denti e il suo odio
profondo verso le superiori crebbe.
“Va bene, quindi cosa dovrei fare?”
Con ben
venti minuti di ritardo rispetto al programma, la ragazza scese dal pullman e
corse verso l’edificio bianco e grigio che si trovava in fondo alla strada. La
gonna della divisa la intralciava e basta, dato che si alzava ad ogni suo passo
e lei non faceva che tirarsela giù ogni poco.
“Maledetti aggeggi infernali femminili” esclamò.
Arrivò
davanti all’ingresso ed entrò come una furia, frenando improvvisamente quando
vide un paio delle sue compagne di classe tranquillamente sedute alla
macchinetta del caffè. Riprese fiato un attimo e si schiarì la voce, rientrando
nella parte della piccola e timida liceale.
Si avvicinò
a loro, fissando il pavimento.
“Scusatemi, non sono in ritardo?” domandò
sussurrando. Loro la guardarono e scossero la testa, sorridendo.
“No, alla prima ora c’è religione e ognuno può fare ciò
che vuole. Tu sei iscritta a religione?” le chiesero.
“No, non seguo quella lezione” rispose. “Ringraziando papà, che ha voluto essere magnanimo con me”
aggiunse nella sua testa.
“Allora sei apposto. Tu sei quella nuova, vero? Rea Simon.
Io sono Emma Stevens e lei è Laura Daniels, piacere”
si presentò la mora.
“Piacere mio” ricambiò, allungando la mano.
Anche
l’altra ragazza gliela strinse, quella piccola e bionda, e lei ebbe il modo di
osservarle bene. Quella che si chiamava Emma era alta e slanciata, con lunghi
capelli castano scurissimi e occhi color nocciola; l’altra, Laura, era più
bassa e in carne, anche se non era grassa, e aveva i capelli biondo sporco. Rea
sentiva che sicuramente non avrebbe legato con loro, anche se non sembravano
brutte persone.
“Allora, ti sei trasferita qui da poco, eh? Come mai hai
cambiato scuola a metà del secondo quadrimestre? Non è un po’ rischioso in
questo periodo, visto che dobbiamo dare l’esame tra poco?” le chiese
quella alta.
“Oh, ma non è un problema, io ho già la mat… ehm…” la ragazza si schiarì la voce e arrossì.
“Ho sempre avuto dei voti alti, quindi papà ha pensato che
non sarebbe stato un problema per me cambiare istituto” si corresse.
“Beata te! Noi
studiamo ogni giorno per quattro ore ma non riusciamo ad avere dei risultati
ottimi” si lamentò l’altra.
“Non ti preoccupare, la maturità passa velocemente”
la consolò lei. “Non che io sappia come sia un
esame di diploma di liceo, comunque” aggiunse.
“Certo, quelli che si sono già diplomati lo dicono tutti,
ma l’ansia di quei giorni sarà terribile, fidati” le assicurò Emma.
Rea evitò
accuratamente di controbattere, ben sapendo che si sarebbe tradita, e sorrise
semplicemente.
In quel
momento vide arrivare da lontano il ragazzo che il giorno prima l’aveva
salutata e abbassò lo sguardo fingendo imbarazzo.
“Ehilà, ciao” le disse.
“Ciao” sussurrò in risposta. Sicuramente sembrava
una scema, vista da fuori.
“Ehi, fratellone, hai
portato gli appunti?” gli chiese Laura, illuminandosi.
“Sì, ve li ho portati. Comunque, se fossi in voi, starei più
attente durante le spiegazioni. È frustrante vedere quanto io mi impegni per
rendere le vostre conoscenze quanto meno decenti per una quinta liceo”
le rispose passandole il quaderno. La ragazza lo prese riconoscente.
“Grazie! Sei un
angelo!”
“Sì, sì, lo so” ribatté lui. Emma rise.
“Io i miei appunti ce li ho, lei parla al plurale solo
perché si vergogna di chiederteli da sola” confessò, facendogli vedere
il suo blocco notes. La bionda arrossì e rise imbarazzata.
“È vero”
ammise.
Rea li
guardò incuriosita: non sapeva che esistessero davvero delle persone così
amiche. Nella sua vita di amici ne aveva avuto ben pochi.
Sentì
suonare la campanella e alzò lo sguardo.
“Dobbiamo andare in classe?” chiese.
“Sì, purtroppo ci aspettano due ore di matematica e due di
italiano stamani. Facciamoci coraggio” rispose Fabio teatralmente.
La ragazza
li seguì in aula, continuando a fare finta di essere timida e impaurita, e poi
rimase in piedi sulla porta.
“C’è qualche problema?” si preoccupò il ragazzo,
avvicinandosi.
“Ah, no, niente di che, solo… non avevo un banco, ieri,
quindi non so dove sedermi” spiegò impacciata.
“Ne hanno messo uno per te stamani, non c’eri prima? È quello
in fondo all’aula” le disse sorridendo. Lei seguì con lo sguardo
l’indice della sua mano e vide che c’era un banco vuoto nell’angolo destro
della classe.
“Meno male, mi vergognavo troppo a tornare alla cattedra.
Grazie” gli rispose, avviandosi verso il suo posto.
Quando il
professore entrò nella stanza e calò il silenzio, la ragazza ringraziò il fatto
di essere piccola di statura: poteva mimetizzarsi in maniera perfetta dietro ai
capelli di Emma e nascondersi fino a lezione finita.
Durante ogni
pausa Rea venne assediata dai suoi nuovi compagni. Andavano da lei per
chiederle del suo trasferimento, da dove veniva, cosa facevano i suoi genitori,
quali erano i suoi hobby e puntualmente aveva risposto con una bugia. Non
poteva dire la verità, questo era certo, però anche mentire non le faceva
proprio piacere. Odiava le menzogne, sin da piccola suo padre le aveva
insegnato che dobbiamo essere sinceri col prossimo, però in quel caso proprio
non poteva. Non vedeva l’ora di tornare a casa e prendersi una settimana di
pausa dopo quei due giorni estenuanti.
Quando suonò
la campanella di fine lezione, tirò un sospiro di sollievo: anche questa era
andata.
“Ehi, tu come torni a casa?” le domandò Fabio,
apparendole alle spalle. Lei sobbalzò e si mise una mano sul cuore, impaurita.
“Non mi arrivare dietro così di soppiatto!” lo
sgridò. Lui rimase stupito dal suo tono di voce.
“Scusami, non pensavo di spaventarti” disse. Capendo la
gaffe fatta, Rea si schiarì la gola e scosse la testa.
“No, scusami tu, non volevo alzare la voce” ribatté.
Prese la cartella e uscì di classe senza dargli una risposta seria, così lui la
seguì.
“Allora?”
“Cosa?”
“Come torni a casa? Vai in pullman, a piedi, con l’auto…?”
ripeté.
“Penso che ci sia mio padre ad aspettarmi qua fuori.
Almeno spero” spiegò.
“Oh, capisco” disse dispiaciuto.
Senza capire
a cosa si riferisse lei sorrise.
“Devo andare, mi dispiace per… qualsiasi sia il motivo che
ti ha fatto rattristare. Ci vediamo dopo le vacanze” lo salutò
sorridendo.
S’incamminò
verso la Mercedes continuando a guardare il ragazzo, inciampando così in una
buca causata dalla pioggia. Nel cadere a terra la gonna le si alzò fino alla
vita, facendo bella mostra dei pantaloncini che portava come copertura dal
freddo.
Rimase ferma
a terra per un paio di secondi prima di rendersi conto che tutti quelli che
aveva intorno stavano ridendo, Fabio compreso. Si alzò, scuotendosi la polvere
di dosso, e lo fulminò con lo sguardo. “Ti odio”
pensò.
Imbarazzata
come mai in vent’anni di vita, entrò in macchina sbattendo la portiera con forza.
Suo padre stava lacrimando dalle risate
e lei lo guardò infuriata.
“Invece di ridere metti in moto!” gli urlò.
“Scusami ma è stata una scena epica! Se avessi avuto una
videocamera ti avrei filmato, giuro!” le disse lui, partendo in
retromarcia per uscire dal parcheggio.
Quando
furono a casa Rea notò che la gonna si era strappata sul davanti, lasciando un
bel buco al posto della stoffa che copriva le ginocchia. Lanciò l’indumento
contro la porta e si sdraiò, frustrata, sul letto.
“Io odio questa missione, odio questo lavoro e,
soprattutto, odio le divise scolastiche” decise.