Storie originali > Soprannaturale
Segui la storia  |       
Autore: Sophia Holloway    26/01/2013    3 recensioni
«Devo morire» annunciò.
«Che novità. Anch’io devo morire. Spero a novant’anni, magari dormendo» ironizzai.
«Io però non morirò a novant’anni, magari dormendo. Morirò a breve, perché la Morte ha deciso di divertirsi ancora un po’ con me, invece di farmi riposare in pace facendomi stirare sull’asfalto da un’auto».
«Senti. Tu non stai per morire, ok? Il fatto che tu abbia evitato la morte per un soffio non vuol dire che… che la Signora con la Falce, o che so io, si è offesa e adesso ti verrà a cercare…».
«Te l’avevo detto, che non mi avresti creduto» disse, fredda, quasi offesa o delusa.
Lasciarla andare sarebbe stato semplicissimo. Ma chissà perché, avevo sempre disprezzato le cose semplici.

Prima classificata al contest "Cosa vorresti fare prima di morire?" gestito da ErinThe
Genere: Malinconico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Capitolo Due.
The Only Exception
 
Il Music Box era un locale ricavato da una specie di capannone, appena fuori città. Il proprietario, Tom Griffiths – un quarantenne che secondo Tara somigliava a Brad Pitt, ma più magro e con la barba a punta – l’aveva aperto sei anni prima e, chissà come, sembrava aver avuto successo nonostante fosse fuori dal mondo.
Quando spinsi le doppie porte per entrare, alle nove, ancora non c’era nessun cliente, ma i camerieri, il barista e qualche gruppo.
«Ehi, Nate» mi salutò Steve, che era seduto ad uno dei tavolini rotondi disseminati attorno al palco rialzato. Lo salutai con un cenno e mi sedetti con lui.
«Come va?» gli chiesi, e lui scrollò le spalle. Continuava a dire di non sentire la tensione, ma durante le nostre serate diventava stranamente taciturno.
«Se l’altra metà del nostro gruppo non arriva, non andrà affatto» borbottò, proprio mentre le porte si spalancavano di nuovo, lasciando entrare una ragazza coi capelli di un rosso acceso, tendenti all’arancione, diritti e lunghi fino alle spalle, e un ragazzo poco più basso di lei, coi capelli castani corti e l’aria nervosa.
«Eccovi qui» disse Steve, facendo loro un cenno. Tara si lasciò cadere pesantemente su una sedia accanto a me, togliendosi la giacca di pelle e lasciandola sulla sedia.
«Scusate, sono stata… trattenuta».
«Uno dei tuoi ragazzi?» chiese Steve, curioso. Lei fece una smorfia.
«Non ho alcun ragazzo».
«Uno dei tuoi spasimanti, allora?» corressi.
Sbuffò. «Sì».
«Quale dei tanti?».
«Quello che ho conosciuto due sere fa, John, Joey o come si chiama. È venuto da me giurandomi eterno amore, dicendo che ero la sua anima gemella e cazzate del genere».
«Ah, la nostra piccola seduttrice» sospirò Steve, sognante. «Ma da quando dai il tuoi indirizzo alle tue vittime?». Lei gli lanciò un’occhiata tale che temetti che potesse colpirlo con la mia chitarra elettrica, appoggiata in equilibrio precario al tavolino. Invece si limitò a dire, sprezzante: «Si dà il caso che non tutti siano incivili come te, e che l’altra sera lui si sia offerto di riaccompagnarmi a casa visto che tu eri andato via senza avvertirmi».
«Avevo da fare» borbottò, tentando di liquidare la questione con un gesto della mano.
«Ho visto cos’avevi da fare. Mangiare la faccia a quella ragazza… com’è che si chiamava?».
«Che c’è nel nome? Quella che noi chiamiamo “rosa”, anche con altro nome avrebbe il suo profumo».
«Cos’è, un modo poetico per dire che non ti ricordi?».
Io e Kevin ci guardammo, avviliti, sapendo che quando quei due cominciavano a litigare potevano andare avanti per ore.
«Come va?» gli chiesi, notando che era pallido come un cencio.
«Bene» disse, dubbioso, ma non insistetti. Era l’ultimo acquisto del nostro gruppo, e quella sarebbe stata la sua prima esibizione.
L’idea di creare un gruppo era venuta a me e Steve tre anni prima, perché entrambi sapevamo suonare, e io anche cantare. Non avevamo mai fatto nulla in pubblico, ma un anno e mezzo prima Steve aveva trovato uno dei volantini che Tom aveva sparso in città, un po’ per pubblicità e un po’ per trovare nuove attrazioni. Il giorno delle audizioni avevamo incontrato Tara, e avevamo deciso che in tre il nostro gruppo sarebbe stato migliore. Certo, nessuno l’avrebbe mai detto, vedendo i continui battibecchi tra lei e Steve.
Alle nove e venti Tom fece cenno ai musicisti di entrare dietro le quinte, una zona che comprendeva gli uffici, un magazzino per gli strumenti e un paio di salottini in tutto simili a stanze d’attesa di un qualche medico, con le sedie di plastica addossate alle pareti.
Tara andò a prendere il suo basso elettrico nel magazzino, che lasciava lì perché veniva in moto; poco dopo, quando Tom aprì ufficialmente il locale e i primi spettatori cominciarono ad entrare, Kevin annunciò che sarebbe andato a bere qualcosa.
«Speriamo non ci molli a metà canzone» mormorai, osservandolo andare via. «Così com’è sembra sul punto di svenire».
Steve sbuffò, divertito. «Ma per favore. Piuttosto, veniamo a noi». Mi girai verso di lui con sguardo interrogativo. «Com’è andata a finire con la ragazza misteriosa?».
«Oh» mormorai, distogliendo lo sguardo. «Ehm, l’ho invitata qui, stasera».
Steve scoppiò a ridere. «Cos’è, speri che il famoso “fascino del musicista” ti aiuti a far colpo su di lei?».
«Io non voglio… far colpo su di lei» dissi. «E nemmeno le ho detto che suono, quindi…».
«E perché no?» chiese, curioso. Mi strinsi nelle spalle. «Non so. Mi è passato di mente».
«E come no, Nate» sbuffò. «Torna in platea, vai a vedere se arriva».
«Devo cambiarmi, Steve. Se salgo sul palco con questa vecchia maglia non so se mi ucciderà prima Tom o Tara».
Roteò gli occhi. «Allora prima cambiati e poi scendi in platea a vedere se arriva. Datti una mossa». Mi fece alzare e mi spinse nel bagno degli uomini, sbattendomi la mia sacca col cambio di vestiti sul petto e chiudendomi dentro.
«Idiota» l’apostrofai, ma sorridevo.
Tolsi una vecchissima maglietta dell’Hard Rock Café, e indossai una semplice maglietta nera a mezze maniche. Tom aveva poche pretese, e una di queste era che fossimo presentabili. Sia Steve che Kevin avrebbero indossato la stessa cosa; Tara, chissà perché, aveva molta più scelta.
«È perché è una ragazza, mio caro» mi disse Steve quando me ne lamentai con lui. «Non sa cantare e deve compensare il talento col suo bel faccino».
«Ti ho sentito!» sibilò la diretta interessata, appena uscita dal bagno delle donne. Indossava un jeans blu e un semplice top nero. Stessa divisa.
Li lasciai a discutere e scappai in platea, accomodandomi su uno degli sgabelli del bar. Non avevo idea di cosa le avrei detto. Non sapevo nemmeno perché l’avevo invitata. Però, quando alle dieci ancora non l’avevo ancora vista entrare, cominciai a gettare occhiate furtive all’orologio appeso alla parete, a intervalli sempre più brevi. Quando capii che così avrei avuto parecchie possibilità di non vederla, e soprattutto che mi stavo comportando da stupido, mi limitai a fissare le doppie porte, tenute aperte dalla fiumana di persone che si stava ancora riversando all’interno. Un paio di gruppi avevano già cantato, facendo piombare nell’oscurità il locale, altrimenti illuminato dalle innumerevoli lampade sui tavolini e attaccate alle pareti, che dipingevano tutto di un alone rossastro.
Alle dieci e mezza mi convinsi che non sarebbe venuta. Scollai gli occhi dall’entrata, e vidi Tom che si sbracciava per attirare la mia attenzione. Diavolo, toccava a noi.
Lasciai in fretta a furia la mia postazione al bar e corsi dietro le quinte, mentre Tom mi guardava con aria disperata e il resto del gruppo attorno a me preparava gli strumenti. Steve giocherellava con le bacchette della batteria, tenendo un ritmo tutto suo, con i capelli raccolti in un codino basso. «Come siamo agitati, eh, Nate?» mi urlò quando mi vide entrare. E poi aggiunse, facendo il finto tonto: «È per quella ragazza che hai invitato?».
Fu solo l’occhiata ammonitrice di Tom ad impedirmi di scagliargli contro la bottiglia d’acqua che avevo in mano. Privarci del batterista a tre minuti dallo spettacolo sarebbe stato problematico.
«Il cinico Nate ha invitato una ragazza?» chiese Tara, sistemando i capelli rosso scuro in una coda altissima e scompigliata.
«Che c’è di strano?» bofonchiai, irritato, mentre mi ravviavo i capelli specchiandomi in una porta a vetri. «Voi invitate i vostri amici quasi tutte le sere».
«Ma tu no» puntualizzò Kevin, che sembrava stare parecchio meglio.
«Sciocchezze. E sono agitato solo perché ho accettato di far suonare Kevin al posto mio» replicai.
«Perché sono più bravo».
«Aspetta e spera, Wood».
«Piantatela di starnazzare» ci richiamò Tom. «Due minuti e siete in scena».
Mi avvicinai a Steve. «Dopo lo spettacolo ti ammazzo» lo minacciai, ma lui si mise a ridere.
«Però, l’ultima volta che ti ho visto in imbarazzo è stato al primo anno, quando ti sei seduto su quella sedia bagnata e sembrava che…» notò la mia occhiata torva e si interruppe. «E va bene. Però dopo voglio conoscere questa Miss Mistero».
«Sarà difficile visto che non è venuta» buttai lì, ma purtroppo Steve mi conosceva fin troppo bene.
«Ecco perché sei stato intrattabile quasi tutta la sera…».
«Io non sono stato affatto intrattabile!» protestai.
«Solo perché sei sempre intrattabile, magari non te ne sei accorto». Gli tirai un pugno scherzoso sulla spalla.
Quando l’orologio appeso alla parete scattò sulle dieci e quaranta, ci alzammo e salimmo sul palco immerso nel buio, senza essere visti dagli spettatori.
«Com’è fatta?» mi chiese Steve mentre afferravo il microfono, poggiato di fianco alla batteria.
«Capelli castani corti, bassina» biascicai.
«Ciò restringe il campo a solo un miliardo o due di persone nel mondo. Gli identikit non fanno proprio per te» sbuffò.
«E tu proprio non sai farti i fatti tuoi».
«È solo per il tuo bene, Nate» mi rimbrottò, mentre la voce di Tom annunciava il nostro gruppo. «Tu non saresti mai capace di accorgerti se una ragazza è interessata a te o meno».
Le luci si alzarono, accecandomi per qualche istante, e alzai una mano per salutare il pubblico, confuso in decine di sagome nere. La voce di Tom ricomparve, diffusa dagli altoparlanti. «La canzone che ci cantano stasera è Whispers in the Dark, degli Skillet!». Probabilmente in pochi la conoscevano, ma tutti batterono le mani.
Gli altoparlanti diffusero l’introduzione, poche note del basso di Tara; le luci si abbassarono, al punto che si potevano vedere solo i tavoli più vicini al palco.
Respirai profondamente prima di cominciare a cantare.

«Despite the lies that you’re making
Your love is mine for the taking
My love is just waiting
To turn your tears to roses».


La musica esplose, e così fece parte del pubblico. Mi voltai a mezzo per vedere come se la stesse cavando Kevin, e nonostante tutte le mie battutacce dovetti ammettere che era bravo. Poi Steve attirò la mia attenzione con un cenno del capo, e allo stesso modo ammiccò verso un tavolino a destra del palco, in seconda fila. Non avevo la benché minima idea di come fosse riuscito a trovare Juliet in mezzo a quel casino, con il buio e l’attenzione rivolta alla batteria. E soprattutto come avesse fatto a capire che era proprio lei. Chissà perché, ma dubitavo che fosse per la mia fantastica descrizione.
Rise nel notare la mia espressione; per poco non persi la battuta d’inizio, ma provavamo da talmente tanto tempo che avrei potuto cantarla in automatico, anche nel sonno.

«Despite the lies that you’re making
Your love is mine for the taking
My love is just waiting
To turn your tears to roses
I will be the one that’s gonna hold you
I will be the one that you run to
My love is a burning, consuming fire».


Riuscii a girarmi nella sua direzione, cosa non facile visto che era proprio di lato al palco. Al suo tavolo erano in tre, due ragazze e un ragazzo. Lei si rigirava tra le mani un cappello nero, i capelli castani spettinati come sempre… beh, come ogni volta che l’avevo vista. Quando notò che la stavo guardando mi fece un sorriso, e di rimando le strizzai un occhio.

«No,
You’ll never be alone
When darkness comes I’ll light the night with stars
Hear my whispers in the dark
No,
You’ll never be alone
When darkness comes you know I’m never far
Hear my whispers in the dark».


Le lanciai un’altra occhiata, mentre lei era girata a parlare con i suoi amici, sempre col sorriso stampato sulle labbra, e mi chiesi come diavolo avesse fatto ad entrare senza che io la vedessi. La mia solita sfiga si era messa in mezzo, probabilmente. Mi sarebbe piaciuto salutarla prima dello spettacolo, anche se forse sarei stato poco naturale, agitato com’ero.
Non che in quel momento fossi calmo, anzi. Strinsi il microfono con più forza e lo staccai dalla base.

«You feel so lonely and ragged
You lay here broken and naked
My love is just waiting
To clothe you in crimson roses
I will be the one that’s gonna find you
I will be the one that’s gonna guide you
My love is a burning, consuming fire...
No,
You’ll never be alone
When darkness comes I’ll light the night with stars
Hear my whispers in the dark
No,
You’ll never be alone
When darkness comes you know I’m never far
Hear my whispers in the dark».


Ci fu un lungo assolo in cui Kevin poté dar prova della sua abilità, e fui felice che quella sera stesse suonando lui. In quel momento non sarei mai riuscito a concentrarmi abbastanza da suonare e cantare al tempo stesso.
Mi voltai di nuovo, e mentre i suoi due amici guardavano il chitarrista bisbigliando, Julie stava ancora guardando me, tenendo il ritmo battendo un piede per terra.
Diavolo, in quel momento forse avrei voluto essere intento a suonare la chitarra, distratto dai suoi occhi scuri.
Se Steve avesse potuto leggermi nella mente, mi avrebbe chiesto da quando ero diventato così romantico. Assurdo.
Ma anche se era assurdo, volente o nolente, cantai l’ultimo pezzo voltato più o meno nella sua direzione. Quasi nemmeno me ne accorsi.

«No,
You’ll never be alone
When darkness comes I’ll light the night with stars
Hear my whispers in the dark
No,
You’ll never be alone
When darkness comes you know I’m never far
Hear my whispers in the dark
Whispers in the dark…».


Ripetei l’ultima frase altre due volte, a voce sempre più bassa, e quando ammutolii Steve e Tara diedero il meglio di loro, chiudendo la canzone mentre anche le luci si abbassavano.
Il pubblico applaudì con vigore, alcuni dei più entusiasti o estroversi strillarono qualcosa. Ora, al buio totale, non riuscivo più a vedere Juliet; ma non potevo ancora scendere dal palco.
Diedi un cinque a Tara, che lasciò il suo basso in un angolo mentre io imbracciavo la mia chitarra e la collegavo all’amplificatore. Kevin era sparito dietro le quinte a riposarsi, o due esibizioni in una serata avrebbero potuto ucciderlo. La voce di Tom tornò a farsi sentire, annunciando la nostra prossima canzone.
Le luci si riaccesero, e il pubblico già entusiasta pendeva dalle labbra di Tara, in piedi davanti al microfono con aria decisa.
Io e Steve attaccammo a suonare, e fui molto, molto felice di avere una scusa per non alzare lo sguardo sul pubblico.

«She lives in a fairy tale
Somewhere too far for us to find
Forgotten the taste and smell
Of the world that she's left behind…»
cantava, ma io ero talmente assorto che mi persi il resto delle parole. Mi chiesi invece se lei avesse perso di vista questo mondo, visto quanto andava dicendo…
Mi distrassi ancora più in fretta, e mi misi a pensare a cosa avrei potuto dirle quando la canzone fosse finita.
Mi ricordai per un pelo che io e Steve dovevamo cantare un pezzetto durante la fine, poi il ritmo finalmente crebbe di intensità e la canzone finì, le luci si spensero e gli applausi riempirono il silenzio.
«Ce l’abbiamo fatta anche stasera» gioì Steve, dandomi sonore pacche sulle spalle mentre sgattaiolavamo dietro le quinte.
«Vero» mugugnai, stiracchiandomi. «Steve, come diavolo hai fatto a capire che quella era… lei?».
I suoi occhi si accesero. «Ci ho azzeccato, eh? Ebbene… non te lo dirò mai» rise, malandrino, scappando verso la stanza dove avevamo lasciato la nostra roba.
«Vai da lei, Nate!» strillò quando feci per seguirlo, facendomi ciao-ciao con la mano.
«Dio, lo detesto» mormorai a mezza voce. Poi però tornai sui miei passi, attraversai lo stretto corridoio che passava dietro il palco e tornai in platea.
Guardai in direzione del suo tavolo, ma la folla si era alzata in piedi nello spacco tra un gruppo e l’altro, e adesso era impossibile trovarla.
Sospirai, e prima di iniziare la ricerca mi diressi al bar. Feci cenno a Tony, il barista, perché mi passasse qualcosa, qualunque cosa, e lui mi allungò un bicchiere colmo di un liquido che non riconobbi ma che scolai d’un fiato, lieto che fosse freddo.
La mano di una ragazza comparve nel mio campo visivo per richiamare Tony. «Il drink all’artista lo offro io!».
Quasi mi strozzai con l’ultimo sorso quando mi accorsi che la ragazza era Julie. In realtà non aveva nulla che m’impedisse di capire che era lei, non era nemmeno più particolare di molti altri nel locale. Forse era il fatto che prima di allora l’avevo vista solo una volta, sconvolta e bagnata fradicia. Sì, doveva essere proprio questo.
Indossava una maglietta rossa leggera, corta e ampia, un jeans blu scuro pieno di strappi e un paio di anfibi. Continuava a rigirarsi tra le mani un cappello nero con la visiera rigida, una coppola.
«Ciao!» esclamai non appena ritrovai la voce, e lei mi sorrise ancora. Poi aggiunsi la cosa più intelligente che trovai frugando in tutto il mio cervello. «Per me è gratis, sai?».
Mi sarei volentieri preso a schiaffi.
«Oh» mormorò lei. «Dovevo immaginarlo. Deve essere merito vostro se il locale è così pieno».
«Naah. Non siamo gli unici a esibirci, chiunque piaccia a Tom può farlo» sorrisi. «Tom è il proprietario. Vuoi qualcosa da bere?».
Annuì, facendo piroettare ancora il cappello. Fu lei a dare indicazioni a Tony, che la fissava con aria divertita.
Quando finalmente ottenne un bicchierino di liquido rosato, notò qualcosa alle mie spalle. «Ti presento i miei amici» mi disse, poi mi afferrò per un polso e mi condusse poco più in là, al loro tavolo, ormai facilmente raggiungibile.
«Loro sono Kim Jester» indicò la ragazza, con lunghi capelli neri e lisci e occhi lievemente allungati «e James Wilson», un ragazzo alto, capelli neri ricci e occhi scuri. Entrambi mi rivolsero un cenno di saluto.
«Lui è Nate» aggiunse. «Nate…».
«Lewis» completai io.
«Sei bravo» commentò Kim, ammirata. Accennai un sorriso storto.
«Davvero» annuì Juliet. «Non me lo sarei mai aspettata».
La fissai, divertito. «E perché no? Così mi offendi».
«Tu mi hai invitata a un concerto, non al tuo concerto…».
«Non è mio» puntualizzai. «È un posto dove possiamo esibirci. L’ha trovato Steve un paio d’anni fa».
«Steve?» ripeté lei.
«Giusto… appena li trovo, ti presento…» non riuscii a finire la frase, perché trovai tutti i componenti della mia band che stavano ad appena pochi passi da noi, apparentemente ignari della mia presenza. Ma non appena Steve catturò il mio sguardo torvo, sfoderò un ampio sorriso e trascinò gli altri verso di noi.
«Ho il dispiacere di presentarvi Steve Anderson, Tara Monroe e Kevin Wood» annunciai teatralmente. «Loro sono… Kim, James e… Julie».
«Juliet» mi corresse lei, guardandomi storto.
«Juliet, eh?». Steve si fece avanti e la salutò con un baciamano, facendola scoppiare a ridere. «Stephen John Anderson, per gli amici Steve. E anche per la ragazza che fa sospirare il mio miglio…» non riuscì a finire la frase che gli pestai violentemente un piede. Tara lo afferrò per il colletto della camicia e lo tirò indietro. «Scusalo, è caduto dal seggiolone. Due giorni fa. Ora tenta di nascondere il bernoccolo con tutti quei capelli». Le tese una mano con le unghie perfettamente laccate di nero. «Io sono Tara, in teoria seconda chitarra e seconda voce, in pratica balia di questi tre idioti». Julie le sussurrò qualcosa e lei cominciò a sghignazzare.
«Sei stata fantastica in quella canzone» intervenne Kim. «Era dei Paramore, non è vero?».
Finimmo tutti e sette allo stesso tavolo, Tara e Kim a parlare fitto fitto di musica, James, Kevin e Steve a discutere sul drink migliore o chissà cos’altro, anche se purtroppo il mio migliore amico trovava sempre il tempo per rompere le scatole a me e Julie.
«Piaciuto lo spettacolo?» chiesi, tanto per dire qualcosa. Lei annuì.
«È stato fantastico. Il miglior primo concerto che potessi avere» sorrise. «Anche perché Whispers in the Dark è una delle mie canzoni preferite».
Sgranai gli occhi. «Non l’avrei mai detto».
Lei rise. «Sono un sacco le cose che non sai di me, mister Lewis».
«Già. Strano, non ti pare?».
«Un po’» ammise, osservando i miei amici e i suoi che si amalgamavano.
«Allora…» ripresi. «Perché ti piace Whispers in the Dark?».
Ci pensò su. «Perché racconta una storia con varie interpretazioni».
«Cioè?» chiesi, stupito di non averci mai pensato.
Tenne il conto sulle dita. «Una storia d’amore, una storia sovrannaturale o un thriller».
Trattenni a stento una risata. «Un thriller?».
«Perché, “ascolta i miei sussurri nel buio” non ti sa di frase da psicopatico? Almeno un po’?».
Scoppiammo a ridere entrambi, e Steve non perse l’occasione di mettersi in mezzo. «Ma guardateli, Nat-nat e Jul-jul».
«Ma guardalo, Ste-ste che sbava davanti a Kim. Tanto non sei il suo tipo. Troppi capelli, tanto per cominciare» scattò Julie, apparentemente quasi distratta, rilassata e intenta a bere il suo drink. Scoppiai a ridere.
«Uno a zero per Julie!» esclamai.
«Juliet» mi corresse ancora. «E comunque, quello era un velato riferimento a Harry Potter?».
«Non dirmi che sei una potterhead» si stupì lui. Io non mi ero perso a “potterhead” solo perché conoscevo Steve da parecchio e mi aveva costretto a leggere tutta la saga del mago quando avevo circa quindici anni.
Per tutta risposta lei sollevò una lunga collana, affondata tra le pieghe della maglietta, che altro non era che il simbolo in nero dei Doni della Morte. Lo trovai alquanto ironico.
«Caspita, Nate, approvo la vostra unione» sghignazzò, e gli tirai un altro pugno.
Girai la sedia in modo da dargli le spalle. «Scusalo, in genere non lo facciamo uscire la sera, è pericoloso».
«Poveraccio» mormorò lei. «Si vede che gli volete bene».
«Eeh, abbastanza. Quando non ci mette in imbarazzo con la sua esistenza».
«Guarda che ti ho sentito!» esclamò lui, ma Tara tirò fuori una serie di insulti degni di un camionista che lo convinsero a lasciarci perdere.
«L’hai fatto apposta?» le chiesi dopo un sorso di birra, indicando la sua collana.
«Non proprio» disse. «L’ho sempre indossata, da quando l’ho comprata l’anno scorso. Stasera mi è parsa… adatta».
«Non lasci molte cose al caso, eh?» osservai. Puntò i suoi occhi nei miei con un’aria più seria, smettendo di tormentare il cappello.
«Secondo te perché....» parve cambiare la frase mentre parlava, riducendo la voce a un bisbiglio. «…perché ho avuto una seconda possibilità? La mia vita finora è stata molto peggio di così. Ho lasciato troppe cose al caso, ho fatto davvero schifo se… se non mi hanno voluta nemmeno… là». Ammutolì e si mise a fissare la sua amica Kim che rideva di Tara e Steve, intenti a litigare come sempre. «Kim non si spiega questo mio cambiamento, anche se ne è felice. Non capisce come mai mi sia venuta voglia di cambiare solo adesso. “Meglio tardi che mai” ha detto quando l’ho invitata a uscire stasera. Ma è intelligente, diamine».
L’osservai mordicchiarsi l’unghia di un pollice, corrucciata, mentre realizzavo lentamente una cosa. «Vuoi dire che… che sono l’unico che sa della tua… situazione?». Lei annuì, guardandomi come se mi fossero spuntate le antenne. In effetti, di tutto ciò che aveva detto io andavo a notare questo?
Tuttavia una minuscola parte di me, quella che non considerava la sua teoria totalmente folle, non poté fare a meno di esserne lusingato.
Mi schiarii la voce. «Per quello che vale… non sei male, in questa versione “viva la vida”» dissi, gesticolando come un idiota. «E poi mica la si dà a tutti quest’occasione, no? Devi avere qualcosa di… speciale, non credi?».
Mi guardò di sottecchi e sbuffò, pur sorridendo. «Nessun mago oscuro ha tentato di uccidermi all’età di un anno, non ho nessuna cicatrice a forma di saetta e non ho alcun potere sovrannaturale. Non sono per nulla “speciale”».
Ridacchiai, accostando la mia sedia alla sua. «Non hai bisogno di essere La Ragazza Che È Sopravvissuta per essere speciale». Poi feci toccare il mio bicchiere con il suo, a mo’ di brindisi.

-- 

«Posso avere l’onore di accompagnarti a casa?» chiesi a Juliet un paio di ore dopo, mezzo rincretinito dalla musica quasi non-stop delle varie band – “Nessuna alla vostra altezza” aveva detto lei, supportata dai suoi amici – e da quello che avevo bevuto.
Lei fece una smorfia, infilandosi la giacca nera e il cappello. «Io e Kim abbiamo organizzato una notte in bianco. Ti inviterei, ma mi sa che sarebbe complicato».
«Notte in bianco?» chiesi.
«In teoria, vado a dormire da lei. In pratica, dubito che chiuderemo occhio. In genere intorno alle quattro o le cinque crolliamo, ma stanotte ho intenzione di resistere».
«Cos’è, un altro desiderio?».
Annuì. «Non sono mai stata sveglia una notte intera. È una cazzata, ma sto lavorando su desideri migliori».
«Del tipo?».
Mi fissò per un attimo. «Domani io e i miei amici andiamo al mare. Ti va di venire?».
«Al mare?» chiesi, sconcertato.
«Sì, al mare».
«Non fa un po’ freddo?».
Si strinse nelle spalle. «Se non ti va non fa nulla».
Ci pensai su. L’alternativa era trascorrere il sabato a non far nulla, trascinandomi dal divano fino al frigorifero e poi di nuovo al divano, per vedere le repliche di Friends.
«No, va bene, vengo».
«Davvero?» disse, sorpresa, e fece un gran sorriso.
«Sì, certo. Ti passo a prendere io in macchina?».
«Va bene. Domani alle tre e mezza. Trovo un pezzo di carta e ti do l’indirizzo. Un secondo che vado a dirlo agli altri».
Corse dai suoi amici, appoggiati a una Mercedes grigio metallizzato; quando finì di parlare, Kim sgranò gli occhi e si mise a ridere. Mi avviai per andare da loro, e Steve mi si affiancò.
«Allora, che intenzioni hai?».
Lo guardai con la cosa dell’occhio. «In che senso?».
«Lei ti piace, vero?».
Alzai gli occhi al cielo, infilando le mani nelle tasche dei jeans. «Potrebbe piacermi, sì».
«Ma?» incalzò lui.
«Non c’è nessun “ma”».
«E allora? Qual è il problema?».
Il problema è che quella ragazza sostiene di dover morire da un momento all’altro. «Non c’è nessun problema».
«Allora è fatta!» gioì lui, saltellando sul posto. «Non usare il condizionale! Ti piace, niente “ma” né “se”!».
«Abbassa la voce» mugugnai, visto che eravamo a portata d’orecchio.
«E va bene, anche se una notizia simile andrebbe urlata al mondo intero» gongolò.
«Trattieni i tuoi istinti, se non vuoi ritrovarti spiaccicato sotto la mia auto».
«Magari è masochista» intervenne Tara alle nostre spalle, facendomi sobbalzare. «Sennò non si spiega perché continua a prendermi in giro per i miei capelli. Che ti è successo, Nat? Ti ha morso la tarantola?».
«Infatti i tuoi capelli sono arancioni!» la stuzzicò Steve, mentre balbettavo: «Che… che tarantola? Sto benissimo!».
Tara mi gettò una lunga occhiata indagatrice prima di gettarsi anima e corpo contro Steve, che barcollò quando lei gli si appese alla schiena urlando «I miei capelli sono rossi. ROSSI!».
«Io stimo quella ragazza» esclamò James, in mezzo alle risate collettive.
«Ha anche una moto. E non intendo un motorino. Una Kawasaki» gli disse Kevin.
«Io stimo molto quella ragazza» si corresse James, e Kim gli tirò una gomitata. «E bravo Jamie!».
«Oh, dannazione» sussurrò Julie, al mio fianco. «Quando questi due cominciano con le questioni sentimentali non li sopporto più nemmeno io».
«Stanno insieme?» le chiesi, curioso, abbassando la voce.
«No, anche se secondo me succederà, presto o tardi».
«Dagli tempo. Tanto Tara ha intenzione di restare single per parecchio… certo, divertendosi lungo la strada però» riflettei.
Gli altri cominciarono a salutarsi; Kevin riuscì a strappare un passaggio a Steve, mentre Kim e James sembravano aver fatto una tregua.
«Com’è che avete fatto tardi?» chiesi.
«Oh, te ne sei accorto?» disse, imbarazzata. «Beh, James si è perso. Abbiamo passato più di un’ora in macchina a cercare il locale. Mi dispiace».
«Non importa. Almeno non vi siete persi lo spettacolo» la tranquillizzai.
«Dovevi dirmi che suonavi tu! Perché non l’hai fatto?».
Mi strinsi nelle spalle. «Non so» ammisi. «Volevo che fosse una sorpresa».
«Beh, ci sei riuscito. A sorprendermi, intendo».
«Ne sono felice».
Mi porse un foglietto piegato in quattro. «Ci vediamo domani, allora?».
Annuii. «A domani».
Non avevo idea di come salutarla, ma prima che potessi pensarci lei mi diede un bacio su una guancia; poi si scostò e corse dai suoi amici, lasciandomi solo a guardarla andare via, chiedendomi perché con lei fosse tutto così facile. Lei era l’eccezione.



--
Angolo dell'autrice
Salve, stavolta ho anche meno da dire quindi sarò breve.
Come avevo annunciato, i miei interessi personali sono decisamente ovunque; e visto che Harry Potter è in cima
alla classifica, non poteva mancare. Per chi non lo conoscesse, fatevi una cultura questo è il simbolo dei Doni della Morte.
Per quanto riguarda le canzoni presenti in questo capitolo sono:
- Whispers in the Dark degli Skillet, quella che canta Nate assieme al gruppo a cui non ho mai dato un nome;
- Brick by Boring Brick dei Paramore, ossia quella che canta Tara (per il suo aspetto mi sono ispirata
proprio a Hayley Williams, se vi può interessare) e di cui ho inserito un pezzettino;
- The Only Exception, sempre dei Paramore, è il titolo del capitolo.
Ora, ringrazio chiunque legga/recensisca/segua questa storia, sì, anche quelli che l'hanno aperta
per sbaglio e sono stati tanto incauti da arrivare fin qui. Mi piacerebbe che lasciaste un commento,
non importa se positivo o negativo, anzi, questi ultimi mi interessano di più perché vorrei una mano per migliorare.
Quindi, se trovate che io abbia scritto un'immensa sciocchezza, fatemelo sapere.
Come sempre, alla prossima.
Soph.

  
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Soprannaturale / Vai alla pagina dell'autore: Sophia Holloway