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Autore: DarkPenn    18/08/2007    1 recensioni
"C'era una volta un piccolo, intrepido cacciatore..." Si tratta di un AU parallelo agli avvenimenti del gioco, un'interpretazione diversa di ciò che è successo a Jennifer... o di ciò che avrebbe potuto succederle...
Genere: Dark, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Alternate Universe (AU) | Avvertimenti: Contenuti forti, Incompiuta
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CAPITOLO 4

CAPITOLO 4

 

Brown

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Tuttavia, anche se non le parlava né si avvicinava a lei, il piccolo cacciatore non smetteva di preoccuparsi per lei e di guardarla da lontano, sentendo crescere giorno dopo giorno uno sconfinato bene per quella dolce e gentile principessa sfortunata…

 

La sfortunata ragazza camminò per molto, molto tempo, perdendosi di nuovo tra i corridoi di quel dirigibile misterioso tanto simile ad un labirinto. Il suo unico punto di riferimento era il rumore continuo dei motori, che però sembrava avvicinarsi ed allontanarsi indipendentemente dai movimenti che lei faceva. Più si addentrava in quell’intrico di passerelle e corridoi grigi e più si rendeva conto che sarebbe stato meglio se fosse rimasta nella Sala del Trono. Almeno in quel modo avrebbe potuto affrontare ciò che aveva spaventato le altre ragazze e recitato quell’orribile filastrocca, mettendo così fine a quell’incubo… Ma invece era scappata, codarda come sempre.

Jennifer stava rimuginando così quando si accorse di qualcosa di strano in cima all’ennesima scalinata metallica che stava salendo, sempre più in alto.

Sulla parete dell’ultima rampa si stagliava una piccola porta di legno, ma al contrario delle altre porte che lei aveva già incontrato, questa aveva la superficie lucida ed una maniglia dorata. Quando l’ebbe raggiunta, Jennifer poté leggere sulla targhetta di ottone che la ornava la scritta “Area passeggeri – Prima Classe”.

Con un tuffo al cuore, la ragazza sfortunata si rese conto che era la prima volta che vedeva quella porta, che forse l’avrebbe condotta in una zona diversa rispetto a quell’intrico di corridoi grigi e bui. Senza esitare, quasi in lacrime dalla gioia, afferrò la maniglia e spinse.

Dall’altra parte si allungava un altro corridoio, ma questo non era di metallo o di tela come quelli che la ragazza aveva attraversato fino a quel momento: le pareti erano rivestiti di pannelli di un legno lucido simile a quello della porta, il soffitto era abbellito da cassettoni decorati con motivi floreali ed il pavimento era coperto da un lungo tappeto rosso bordato d’oro, che a Jennifer risultò stranamente familiare. Lungo i muri, ad intervalli regolari, spuntavano dei candelabri dorati che reggevano lampadine, in modo da dotare l’ambiente di un’illuminazione soffusa e costante. C’erano anche alcuni piccoli mobili con dei vasi di fiori che spezzavano la monotonia del pavimento.

Ma la cosa che più colpì Jennifer e le fece battere forte il cuore fu la dolce musica che pervadeva quel luogo, riducendo quasi al silenzio l’onnipresente rombo dei motori.

Con il cuore in gola, la sfortunata ragazza trattenne il fiato mentre percorreva il corridoio, che si ramificava di fronte a lei numerose volte, tendendo l’orecchio verso la musica, certa che avrebbe trovato la salvezza. Non badò nemmeno alle altre porte che si trovavano lungo i muri decorati, non badò ai passi felpati attutiti dal tappeto che la seguivano, né al leggero ansimare alle sue spalle, tanto era desiderosa di trovare la fonte di quella musica.

Alla fine si trovò di fronte ad una porta simile alle altre, ma la cui targhetta indicava “Salone”: la musica, che la ragazza sfortunata non era riuscita ad identificare, sembrava provenire proprio da quella stanza. Con mano tremante afferrò la maniglia e spinse. Non si accorse dell’ombra che arrancava inutilmente verso di lei, ansimando e battendo rapidi e attutiti colpi sul tappeto, mentre la porta si chiudeva alle sue spalle.

L’ampia stanza era arredata con gusto: un lampadario di cristallo illuminava con la sua luce elettrica i due divani di raso che si fronteggiavano, il tavolino di legno intagliato fra di loro e le poltrone dall’aria comoda sistemate negli angoli. Le pareti ai lati di Jennifer erano nascoste da librerie, su cui oltre a grossi volumi facevano mostra di sé alcuni strani strumenti metallici, un mappamondo e dei soprammobili bianchi. La parete di fronte alla ragazza invece era occupata da un grosso trumeau dotato di molti cassetti e ante, sopra il quale, dalla parete tappezzata di stoffa, la guardava arcigno il ritratto di un uomo barbuto. Sopra il trumeau c’era un grammofono, dal quale si spandeva la dolce musica che l’aveva attirata lì. Avendo notato la sua entrata, una ragazza dai capelli castano-rossi e dall’abito in tinta sorrise e disattivò il grammofono.

Subito Jennifer le corse incontro, non riuscendo a trattenere le lacrime. “Diana!” la chiamò, gettandosi ai suoi piedi. Lei allora si accucciò di fronte a lei, sollevandole il capo con le mani.

“Piccola Jennifer,” cominciò, sempre sorridendo. “Sei stata brava, lo sai?”

La ragazza sfortunata, a quelle parole, sentì il cuore riempirsi di gioia: dopotutto non era senza speranza, abbandonata da tutto alle sue disgrazie, al suo dolore, al terrore per ciò che le stava succedendo.

“Grazie, grazie, Diana,” le disse muovendosi per abbracciarla, ma la Duchessa si ritrasse lievemente. “Ma ciò che hai fatto non può essere perdonato, e lo sai, vero?”

Il sorriso morì sulle labbra di Jennifer, che annuì triste. Era vero. Qualunque fosse stato il suo peccato, sapeva bene di non poter essere perdonata così facilmente.

“Ed inoltre hai dimenticato la gerarchia,” aggiunse Diana, il cui volto era diventato duro. La ragazza sfortunata la guardò senza capire, al che l’altra si spiegò. “Il mio rango, mendicante. Non puoi chiamarmi per nome senza aggiungere il mio rango, lo sai.

Jennifer annuì con aria colpevole. “Sì, Duchessa Diana, avete ragione.”

Nuovamente Diana si avvicinò alla ragazza sfortunata, sollevandole il volto fra le mani con un sorriso. “Così va meglio…”

“Credete…” riprese Jennifer singhiozzando. “Credete che la Principessa potrà perdonarmi?”

“Oh, piccola, stupida, pezzente Jen-ni-fer,” replicò l’altra come se parlasse con una bambina. “Conosci già la risposta a questa domanda.

Jennifer stava per rispondere che in realtà non la conosceva, ma Diana le posò le mani sulle spalle, quasi abbracciandola, e le sfiorò un orecchio con le labbra, strappandole un brivido.

Però posso intercedere per te, se tu fai qualcosa per me…”

Nonostante la tensione che la pervadeva, la sfortunata ragazza non trovò la forza di divincolarsi dalla Duchessa e poté solamente annuire. Diana allora si scostò lievemente per guardarla negli occhi.

“Portami la crisalide integra di una farfalla, ed io vedrò cosa posso fare.

Jennifer rimase in silenzio, fissando con sorpresa i gelidi occhi della Duchessa. Lei non sapeva nemmeno che forma avesse la crisalide di una farfalla, non ne aveva mai viste di intere, e nemmeno credeva di poterne trovare una a bordo di un dirigibile… ma Diana era la sua padrona, non poteva disobbedirle, tanto più che avrebbe parlato con la Principessa in suo favore. Chiedendosi già come avrebbe fatto ad adempiere a quell’incarico, annuì con scarsa convinzione. La stretta delle mani sulle sue spalle si accentuò lievemente mentre la Duchessa sorrideva maggiormente.

“Brava, ubbidiente, piccola Jennifer,” le sussurrò. “Sai essere anche una buona suddita, dopotutto… Portala alla porta della Sala del Trono entro la scadenza, ci troviamo là.”

La sfortunata ragazza avrebbe voluto chiedere tante cose all’Aristocratica, ma questa la strinse a sé con fare stranamente dolce. Poi tornò a guardarla negli occhi, socchiuse le palpebre e sporse le labbra verso le sue. Jennifer non poté fare altro che irrigidirsi e scostarsi da lei quel tanto che le permetteva l’abbraccio, ma un secco tonfo bloccò Diana, che si volse sorpresa verso l’origine del rumore.

Esso sembrava essere stato provocato dal quaderno di Meg che era caduto al suolo. La Baronessa infatti era in piedi di fianco alla poltrona più lontana, come se fosse appena uscita da dietro di essa, e fissava le due ragazze con odio, i pugni stretti lungo i fianchi.

Meg!” la chiamò Diana, stupita, ma la bambina si limitò a stringere le labbra in un’espressione risentita e, prima che le lacrime potessero cominciare a scorrerle dagli occhi, voltò loro le spalle e corse via dalla stanza, sbattendosi la porta alle spalle.

Jennifer guardò stordita la Duchessa, che dal canto suo si alzò in piedi con sguardo sprezzante.

“E’ stata colpa tua, lurida pezzente!” le ringhiò contro, poi le poggiò un piede sulla spalla e la spinse a terra. Jennifer gridò di sorpresa, più che di dolore, ma quando fu riuscita a rimettersi seduta Diana aveva già raccolto il quaderno di Meg ed era già sparita dalla stanza, lasciandola sola. La ragazza sfortunata si sbrigò ad alzarsi e a correre verso la porta, ma quando uscì nel corridoio non c’era più nessuno. Solo il rumore onnipresente dei motori rompeva il silenzio.

 

Ormai era diventata per lui abitudine lasciare di nascosto nella stanza di lei i pochi dolci che costituivano le rare ricompense per i suoi servigi. Andò avanti così mesi e mesi…

 

“Diana…” bisbigliò con un filo di voce Jennifer, ma non ottenne alcuna risposta. Senza la musica dolce che l’aveva attirata e la speranza di incontrare una delle sue amiche, quei corridoi sembravano più bui e più freddi, anche se sembrava non fosse cambiato nulla.

“Duchessa Diana…” ripeté, stavolta ricordando il titolo, ma nuovamente le rispose solo il silenzio ronzante del motore. Era proprio rimasta sola. Sentì lo sconforto montarle nuovamente nel cuore, ma stavolta si sforzò per trattenere le lacrime e andare avanti: nessuno sarebbe arrivato a consolarla, ed anzi restare lì a frignare come una bambina piccola poteva solo farle perdere tempo prezioso. Stringendo le mani sulla spilla a forma di rosa, si costrinse ad inoltrarsi nei corridoi della prima classe, alla ricerca di una crisalide integra.

Non passò molto prima che sentisse uno scricchiolio sinistro provenire da una delle pareti. Con il cuore in gola si voltò, ma nel suo intimo già sapeva cosa avrebbe visto.

“Rosicchia, rosicchia e scava, il Randagio si avvicina!”

La sfortunata ragazza urlò e fuggì via dall’orrendo mostro dalla testa di topo che squittiva il suo strano appello, ma non servì a molto, perché tutte le pareti della prima classe stavano sfrigolando di passettini, squittii, fruscii e gridolini, ed i pannelli di legno si crepavano mostrando piccoli e cattivi occhietti gialli e musi affilati.

“Aiuto… AIUTO!” implorò Jennifer correndo a perdifiato tra i corridoi che si estendevano in tutte le direzioni, ma la sua stessa voce si perdeva nell’oceano di suoni stridenti che emettevano i mostri attorno a lei. Ad un certo punto inciampò sul tappeto e cadde a terra. Di fronte a lei, uno di quei topi mostruosi si chinò con il naso fremente a pochi pollici dal suo viso, e le tese le mani. Neppure il suo strillo di terrore riuscì a sovrastare quel bailamme mostruoso…

All’improvviso i mostri si zittirono e restarono come in ascolto per un breve momento. La cosa fu così rapida che la stessa Jennifer rimase senza fiato e non osò muovere un muscolo, nel timore di attirare di nuovo la loro attenzione. Poi risuonò di nuovo un lontano abbaiare aggressivo, e tutto cambiò. Il pandemonio di grida di panico e stridii ricominciò, ma questa volta i mostri sciamarono lontano da Jennifer, sparendo all’interno dei varchi nelle pareti, sotto i mobiletti oppure sotto il tappeto, finché tutto tornò come se non fosse accaduto nulla. La ragazza sfortunata, ancora sdraiata tremante sul pavimento, credette di essersi immaginata tutto. Ma tutto quello che le stava succedendo era così assurdo che poteva benissimo trattarsi solo di un lungo, orribile sogno.

Provò a sollevare lo sguardo, ma sembrava davvero tutto finito: le pareti non recavano tracce di fessure, il tappeto era liscio come se non fosse mai stato sollevato, ma in fondo al corridoio che stava guardando…

Il cuore le mancò di un battito quando vide una cosa abbandonata per terra, una cosa lunga e sottile. Per un attimo pensò alla coda di uno di quegli esseri terribili, ma poi si accorse che non si muoveva. Con circospezione si alzò e si avvicinò, e solo quando si fu convinta che non c’era alcun pericolo si accucciò per esaminare il suo ritrovamento.

Era una striscia di cuoio chiaro, un collare, ed al suo interno era appoggiato un lecca-lecca coloratissimo. Quella vista le ricordò qualcosa di molto lontano, qualcosa di dolce come quell’oggetto, ma per quanto si sforzasse non riusciva a trattenere quel ricordo, che le sfuggiva dalla mente come una saponetta bagnata.

Prese il lecca-lecca, lo guardò titubante ed infine provò a staccarne un morso. Subito il sapore dolce di quella leccornia le stimolò la lingua e nella sua mente esplose un ricordo, folgorante come se fosse il più prezioso della sua vita.

Non aveva ancora visto quel dirigibile strano e terribile ed i suoi mostri, ma anzi si trovava in una grande casa, che le sembrava familiare. Era stata appena punita per qualcosa, ma non le interessava molto. Si sentiva anzi contenta, perché non le piaceva molto dover fare quello che le si diceva. In quel ricordo tanto realistico, Jennifer entrò nella sua stanza, al piano superiore di quella grande casa, e sul letto, accanto a tutti i panni sporchi che gli altri le avevano lasciato, c’erano un lecca-lecca e una caramella. Quella vista riempì di gioia il cuore della sfortunata ragazza, ma proprio quando si stava chinando per raccogliere quei dolciumi si ritrovò di nuovo nel corridoio di prima classe del dirigibile, con il lecca-lecca appena raccolto in bocca. Quel ricordo tanto vivido e felice stava rapidamente svanendo nella sua mente, come un sogno al risveglio, e già non ricordava più chi fossero gli “altri” che le avevano portato quei panni sporchi, o perché dovesse essere contenta di aver trovato i dolci sul proprio letto.

Con un sospiro rassegnato si tolse il lecca-lecca di bocca, masticando, e se lo infilò in tasca. Poi si chinò e raccolse il collare. Aveva uno strano odore animale, come se fosse appena stato tolto dal collo di un cane, e sulla superficie esterna era scritto il nome “Brown”.

A Jennifer anche quel nome ricordava qualcosa, qualcosa di più dolce del lecca-lecca e più triste di una poesia malinconica. Lo strinse al seno e chiuse gli occhi, cullandolo: qualunque cosa significasse quel guinzaglio e l’averlo trovato proprio in quel momento ed in quelle condizioni, lei sapeva che doveva tenerlo caro più della sua vita, perché era tutto ciò che le restava di qualcuno molto speciale…

Ma forse, dato che quel collare si trovava proprio lì…

Sì, doveva essere così!

La sfortunata ragazza si sentì riempita di una nuova speranza all’idea che quel ritrovamento potesse significare che il suo amico non fosse perso per sempre. Rimase a guardare ancora a lungo il guinzaglio che portava il nome “Brown” e le vennero le lacrime agli occhi dalla gioia: se avesse potuto ritrovare il suo più caro amico nonostante quello che aveva fatto, non avrebbe avuto più bisogno del perdono della Principessa della Rosa Rossa.

Con il cuore in gola Jennifer tese le orecchie, ma nuovamente l’unico suono che si sentiva era il rombo dei motori. Senza lasciarsi scoraggiare si incamminò lungo il corridoio, senza accorgersi del basso ringhio rabbioso che risuonava in lontananza.

  
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