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Autore: Vitani    22/08/2007    3 recensioni
Questa è una storia d'amore, di odio, di una carriera musicale ed artistica, di una maturazione, di come gli incontri detti "del destino" possono cambiare la vita. È la storia di due ragazzi in particolare: Mana, un chitarrista, e Gackt, un cantante. Entrambi passionali, entrambi sognatori.
"Simile ad una fiaba è questa storia, dove una dama e un cavalier rincorrono l’amore con solerzia, pronti in nome di esso a dare tutto. Si leggeranno lacrime, amore, risate e fremiti di gelosia, d’angoscia e di paura. Saranno tormentosi i nostri canti, piene di gioia le risate, e se malinconia occuperà il cuore, ci basterà cantare una canzone."
Genere: Commedia, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri, Gackt, Mana
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Mad Tea Party -

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ATTO PRIMO, SCENA NONA
-
La Notte del Giglio e della Rosa

 

 

 

 

Incedeva silenziosamente per il corridoio di casa sua, muovendosi sulla punta di due piedini inciabattati in un paio di pantofole blu, ascoltando ed interpretando con trepida attenzione ogni singolo rumore che alle sue orecchie capitava di udire. Mica lo sapeva come mai si stesse facendo tutti quegli scrupoli nel suo territorio… ma che gli diceva la testa? Un mare di assurdità forse, però… segui il tuo intuito, si disse, seguilo e tientelo bello stretto.

Svicolò agilmente per il corridoio fino a raggiungere l’armadio dove teneva i futon e se ne caricò sulle spalle uno che andò a piazzare accanto al letto in camera sua. Aveva come la sensazione che non avrebbero dormito molto, ma la tenne per sé. Non era una persona tanto sconsiderata.

« La cena è stata di tuo gradimento? »

Glielo chiese con un tenue sorriso sulle sottili labbra rosee non appena Gackt Camui varcò la soglia di quella stanza, guardandosi intorno con curiosità evidente e comprensibile. Lui da parte sua l’osservava con una punta d’inquieto divertimento negli occhi neri e lucenti: alla fine dei conti lo conosceva appena e ancora gli risultava difficoltoso inquadrarlo. Oh, ma a quella sfida non si sarebbe certo tirato indietro.

« Certo! Era tutto buonissimo! Come hai imparato a cucinare? »

« Principalmente esercitandomi sul campo. Sai, quando i miei restavano fuori per lavoro toccava a me far da mangiare anche per la mia sorellina. »

« Hai una sorella? »

Accennò appena di sì con un lento movimento del capo, invitando intanto il suo ospite a sedersi accanto a lui sul letto.

« Si chiama Hinako, ha tre anni meno di me. Ha fatto contenti i miei, volevano tanto una femmina. »

« Sai, anche io ho una sorella! Più grande, però. Si chiama Mari, e si è presa molta cura di me quando… »

Ecco, il greve improvviso silenzio che aveva seguito quelle parole non era normale. Gli era parso in effetti che Satoru odiasse il silenzio, e allora perché adesso…?

Quando Mana lo guardò, senza parlare e senza mettergli alcuna fretta, vide che non sorrideva più. S’affrettò quindi a cambiare argomento, conscio d’aver involontariamente toccato una corda che forse era meglio non stimolare. Poco gli importava dei segreti di quel ragazzo, non erano minimamente affare suo.

« Allora? Cosa suoniamo di bello? »

Chiaramente si sentì addosso gli occhi marrone scuro di Gackt e a sua volta alzò su di lui un paio di luminose ed innocenti iridi di un nero profondo, che lo scrutarono in palese attesa di un suo qualsiasi cenno affermativo. C’era un qualcosa di ignominiosamente furbo nel sorriso flebile che stava ravvivando quel suo viso dal candore di porcellana, e la cosa suonava straordinariamente inquietante perfino a lui stesso. Da secoli non provava più un tale divertimento.

Corrugò un poco le nettissime sopracciglia nere e distolse lo sguardo puntandolo con insistenza verso la porta e intanto dondolandosi con lentezza bambinesca sul letto avanti e indietro.

« Avevamo deciso di suonar qualcosa, no? Su allora, fammi sentire come te la cavi. »

S’alzo in piedi sulle lunghe e belle gambe fasciate da normalissimi pantaloni larghi di tessuto felpato, candidi e da uomo, tutto pregno di quella sotterranea vitalità che era così disordinatamente incongrua col ragazzo calmo e tranquillo che pareva a prima vista.

« Usiamo la tastiera però, che se suono il piano a quest’ora come minimo entro domani gli altri condomini m’hanno già denunciato. Purtroppo per me non ho altre case oltre a questa. »

« Hai pure la tastiera? »

« Ovvio. »

« Comunque, Mana, lasciati dire una cosa. »

« Sì? »

A sua volta Gackt s’era alzato in piedi e lo osservava sorridendo, dall’alto in basso e forte dei quasi dieci centimetri di altezza che li separavano. Manabu riusciva alla perfezione a sentire la presenza imponente di quella figura dietro le sue spalle, anche senza voltarsi.

« Io col pianoforte non me la cavo, io sono un genio! »

A quelle parole finalmente si girò lentamente, tenendo alta la testa e squadrandolo con tale attenzione da indurlo quasi a fremere, corrucciando un poco il suo sorriso dolce in una smorfietta di pura e semplice determinazione che – lo vide bene – ebbe quasi il potere di impensierire Satoru. Quel ragazzo aveva parlato seriamente pur se dietro una volontaria maschera bonaria, e così anche la risposta che lui gli diede fu più che seria.

« Anche io. »

Con incredibile indolenza s’afferrò una spalla, massaggiandosela per qualche istante come a voler sciogliere i muscoli, poi lasciò i suoi splendidi capelli ondulati liberi dall’elastico che fino a quel momento li aveva trattenuti. Scosse un paio di volte la testa e andò a prendere lo strumento, una Yamaha, sistemandolo in salotto.

Mentre controllava rapidamente la tastiera non parlò né alzò gli occhi, ben cosciente che Gackt lo stava guardando senza perdersi una sua sola mossa. Gli avrebbe accordato l’onore d’esibirsi per primo, anche per poter saggiare quanto realmente valesse quel tipo. Lui era ben sicuro delle proprie, di abilità, e almeno si sarebbe potuto regolare. E poi… c’era dell’altro sotto, a voler dire tutta la verità: si stava divertendo e pure parecchio, e quello era uno splendido segno. Mai e poi mai si sarebbe abbassato a collaborare con qualcuno che lo annoiava, piuttosto preferiva andare avanti da solo.

« Posso accendere quelle candele? » gli domandò Gackt, avendo evidentemente notato i due o tre candelabri che amorevolmente avevano trovato parcheggio nel suo salotto « Sopporto poco la luce dei lampadari. »

« Certo, fai pure. »

Lui accese la tastiera regolandone attentamente il volume mentre Camui si dava da fare con le candele. Ben presto l’intera stanza fu pregna di quella densa luce aranciata che scaldava, e morbidi guizzi d’oro e rosso scivolarono come fiamme riflesse sulle sue chiome d’ebano quando infine s’alzò tornando a guardare l’altro.

« Prego, tutta tua. »

Nell’aria era l’odore dolciastro della cera.

« Sul serio? »

I suoi occhi a mandorla si chiusero mentre esalava una parola morbida come un sospiro.

« Certo. »

Si fece da parte e il suo sguardo corse rapidamente alle candele e al suo riflesso in uno specchio, poi indietreggiò un poco e si sedette silenziosamente sul divano accavallando con morbidezza una gamba e ignorando quella tenera inquietudine. Stupì invece se stesso per quell’aria professionale, e per fortuna che Camui gli dava le spalle mentre lui lo guardava poggiandosi leggermente il mento su una mano candida.

Non per niente, nel suo piccolo anche lui era un produttore. Lo tenne d’occhio mentre si sgranchiva le dita, leggermente inarcando le sopracciglia e con un sorrisetto d’eccitazione sul viso che gli fece pensare a quanto tempo era trascorso dall’ultima volta che aveva provato quel brivido di indescrivibile attesa che gli faceva presagire con precisione infallibile che stava per fare una grande scoperta. Una ciocca di capelli rotolò morbidamente davanti ai suoi occhi e lui se la tolse con un soffio che gli storse appena le sottili labbra rosa. Stava solo attendendo che cominciasse.

Quando infine attaccò, Mana non ebbe neppure il tempo di essere deluso dalla scelta: il Chiaro di Luna di Beethoven… avrebbe anche potuto permettersi qualcosa di più insolito. Immediatamente notò che stava sviluppando la melodia su un tono basso, e non fu necessario che se ne domandasse il motivo. L’ascoltò ripetere due volte il tema principale, alzando il tono e velocizzando il tempo, e infine arrangiare una variazione e concludere il tutto scattando con una rapidissima marcetta che evidentemente stava improvvisando. Il suo sorriso s’ampliò e prima d’accorgersene si ritrovò a battergli il tempo con le dita perfettamente e senza alcun timore di sbagliare. Gli succedeva sempre così, la musica la sentiva a malapena ormai: aveva un modo tutto suo di percepirla, un modo che andava al di là dell’udito e del ritmo ed era incredibilmente più vitale e pulsante.

Satoru Okabe si prese un’intera mezz’ora per suonare e Mana gliela concesse senza nulla da obiettare. Non sbagliava, non sbagliava: sentendo quella musica aveva provato la stessa inebriante sensazione di quando aveva ascoltato quella sua voce così bassa e potente. Sentì la sua musica nelle orecchie, scintillante, tenne vigilmente d’occhio le mani di Camui controllando le dita una per una e osservandone lo scorrere, poi guardò gli occhi di quel ragazzo e vide che erano lucidi e rapiti e ogni tanto si chiudevano per l’estasi. Quel ragazzo stava sudando e lui socchiuse i suoi occhi neri: vedevano la stessa armonia, ormai ne era certo.

Rise e gli batté le mani fortemente quando smise.

« Bravissimo! »

Ed era bravo sul serio, accidenti. Tecnica e concentrazione che avevano dell’impressionante, peccato che lui nel suo piccolo non fosse affatto da meno. Suonava da quando aveva memoria, la musica era stata parte di lui sempre.

S’alzò in piedi e si stiracchiò, scuotendo il capo come un gatto appena sveglio e si mosse verso la tastiera pensando a cosa poteva suonare. L’illuminazione lo attraversò fulminea e a lui venne l’idea mentre prendeva in mano un pacco di spartiti che stava in un ripiano accanto al muro. Se lo ricordava bene, ma non sapeva se sarebbe riuscito a suonarlo tutto a memoria ed era decisamente meglio non rischiare.

Edvard Grieg, il Concerto per Pianoforte in La minore, era stata la sua scelta. Le prime note dell’Allegro Molto Moderato furono per lui come un riscaldamento. Fu con forse addirittura troppa lentezza che le suonò, per un istante senza badare neppure al tempo. Sembrava quasi che si stesse addormentando, ma il suo era solo quel torpore dei sensi che precedeva lo scatto. Lo sapeva bene, lui che era capace di passare ore ed ore su un singolo accordo, provando infinite combinazioni e tornando indietro e riprovando, cercando di trovare la precisa armonia che cercava. Aveva molta e molta strada da fare ancora e ne era cosciente, mai si sarebbe fermato.

Respirò una e due volte a fondo con gli occhi neri socchiusi, poi definitivamente li chiuse e finalmente sentì la musica. Il ritmo l’aveva alla fine pervaso ed erano solo lui e quel battito che tanto facilmente assimilava a quello del suo cuore. La musica era il suo cuore. Era parte di lui quanto lo era il sangue e forse anche di più, perché il sangue gli aveva donato un’esistenza comune a molti, ma era stata la musica a farlo diventare ciò che era.

Fu con quella sola percezione nella mente che si buttò a capofitto nell’Adagio, gettando solo ogni tanto brevi occhiate nella penombra allo spartito e affidandosi alla sua memoria per il resto. Non sapeva se Camui lo stesse guardando o meno, e gliene interessava poco o nulla. Per lui l’importante era riuscire a suonare. Non aveva idea di quanto tempo fosse trascorso quando finalmente concluse il Concerto. Seppe solo che in quel preciso istante gli venne la bislacca idea di mettere di nuovo mano alla tastiera e di inserire l’organo.

Le candele giacevano ormai consunte e quella stanza era quasi completamente buia se si eccettuava il lieve fulgore dei lampioni all’esterno. Non gli saltò in mente neppure per un istante di accendere la luce, tanto non gli sarebbe più servita.

La Toccata e Fuga in D minore, quella sì che la conosceva perfettamente a memoria!

Avrebbe potuto suonarla con tale precisa compiutezza da parere quasi Bach in persona, immaginando il battito di ogni singola nota prima ancora d’eseguirla, eppure non gli piaceva più così. Era diventato talmente bravo che imitare e copiare non lo stimolava più, per quanto ovviamente impossibile gli fosse raggiungere il suo modello. Non se ne rese neppure conto quando cominciò a variare la melodia, seguendo il suo estro e i suoi desideri ma restando fedele all’ossatura che aveva sotto le dita, quella di Bach. Continuò a suonare seguendo il fluire dei suoi sensi, rapidi e sciolti come l’acqua e incalzanti come una piena, fino a che non ne fu pieno. La musica cessò così naturalmente, quando si sentì completamente sazio e ristette con gli occhi alzati al soffitto e le labbra socchiuse accontentandosi di solamente respirare. Gli formicolavano le dita e lui adorò e maledisse quella sensazione che precedeva l’inevitabile ritorno al reale.

Gli volevano ricordare ch’aveva un corpo, che non era un suono e neppure un sogno, che era un uomo.

« Cielo! »

D’improvviso sbarrò gli occhi e si girò verso Gackt, scattando come se si fosse svegliato in quell’attimo: « Quanto ti ho fatto aspettare? Scusami, mi sono fatto prendere la mano! »

Si stupì nel vedere che gli stava sorridendo.

« Stai tranquillo, per me è stato solo un piacere ascoltarti! Sei stato stupendo! »

« Grazie. »

Attendendo si guardarono, per quel poco che riuscivano a vedersi.

« Non so tu, ma io non ho sonno. »

Era la sacrosanta verità quella che Mana gli disse, per davvero gli era passato tutto il sonno che poteva aver avuto in quella notte. Era stato troppo, troppo il divertimento.

« Oh, io non ho quasi mai sonno. Sono piuttosto insonne. »

Quella risposta lo rallegrò un poco.

« Io pure non ci vado leggero, anche se poi puoi vedermi addormentarmi ovunque e a qualsiasi ora. Quando mi prende sonno io dormo. »

« E fai bene! »

Gackt rise apertamente e Mana andò a sedersi accanto a lui e gli parlò senza quasi guardarlo in viso, conscio che se doveva dirgli qualcosa era giunto il momento di farlo.

« Bene, se ora vogliamo passare a cose più serie… se hai qualche domanda, fai pure. Chiedi tutto quello che vuoi. »

Qualche secondo di nuovo silenzio trascorse, ed entrambi udirono solo i reciproci respiri.

« Mana, io… »

« Sì? »

« Che cosa posso fare io per i Malice Mizer? »

Non s’era aspettato quella domanda così a bruciapelo e lo scrutò, voltandosi verso di lui con gli occhi seri.

« Dalla mia ottica di leader e produttore del gruppo, io penso che tu potrai fare molto, se lo vorrai. »

« Perché hai voluto proprio me? Neanche mi conoscevi, e in Giappone ci sono centinaia di buoni vocalist su cui avresti potuto contare. »

« Lo so, e non credere che non abbia ascoltato nessun altro prima di contattarti. Però sai… è stata la tua voce. Quando ho sentito la tua cassetta, la tua voce mi ha trasmesso qualcosa. È stato questo a farmi capire che tu potresti essere quello che cerco, e ne sono ancora convinto, per quanto non potrò averne la certezza finché non ti avrò definitivamente messo alla prova. »

« Ma se io non dovessi accettare sarebbe stato tutto inutile. »

Mana gli sorrise allora, e fu quasi certo d’averlo sorpreso.

« Be’, non direi. Alla fine siamo diventati amici, o no? Quindi vada come vada non sarà stato poi tutto così inutile! »

« E dimmi, i Malice Mizer… cosa sono? »

« Cinque scemi. »

Mana rise nel vedere l’espressione curiosamente e drammaticamente perplessa di Gackt a quell’uscita, poi s’alzò in piedi ancora ridacchiando e andò ad accendere un altro paio di candele facendosi dare in prestito l’accendino da Satoru. Avvicinò la linguetta di fuoco a uno stoppino e l’osservò affascinato accendersi facendo ballare la piccola fiamma come un essere vivente, infine lanciò di nuovo l’accendino al proprietario, che lo afferrò al volo e se lo ripose in tasca. Utilizzando quella che già ardeva, accese anche le altre.

« O cinque fratelli, dipende dai punti di vista. »

Si voltò verso Gackt poggiando le mani sulla cassettiera cui erano posati i candelabri e sorridendo con dolcezza, coi neri occhi lucenti screziati dell’oro delle candele.

« Vedi, noi non abbiamo alcun legame eccettuata la voglia di fare musica. Veniamo da ambienti distinti, da famiglie e situazioni differenti. Io per esempio sono di Hiroshima, Yu-ki è di Fukuoka, Kami di Ibaragi, Közi di Niigata, l’unico di Tokyo era Tetsu. Qui noi siamo praticamente soli, ma possiamo credere in noi come gruppo. Siamo una famiglia, siamo diversissimi gli uni con gli altri ma siamo comunque uniti dalla musica. È un legame che credo più forte anche di quello di sangue, perché i parenti non te li scegli, gli amici sì. »

Gackt annuì in silenzio e Mana proseguì.

« Sai, alle volte penso che se mi fossi comportato in maniera diversa i miei sarebbero stati più felici. Ho dato loro molti dispiaceri e temo di non avere ancora finito. »

« Anche per me è stato così », sussurrò Gackt, sorprendendolo. Manabu inarcò un poco un sopracciglio, ma decise di non indagare. Satoru gli sembrava restio a parlarne e lui non voleva in alcun modo metterlo a disagio.

« Se ti interessa, ho una videocassetta con la registrazione del nostro ultimo concerto con Tetsu. Vuoi darci uno sguardo? »

Glielo chiese intuendo che era ora di cambiare discorso, e lo vide sorridere di nuovo.

« Certo, volentieri! »

Mana aprì un cassetto scorrevole e passò le mani sulle custodie delle videocassette, principalmente registrazioni di anime – Barbapapà e Doraemon su tutti – e programmi di cucina. Oh, eccola lì la videocassetta dello “Cher de Memoire. L’aveva guardata molte volte, per scovare le imprecisioni, per capire come migliorare e poi… perché ne sentiva la mancanza. Sì, voleva tornare ad esibirsi, non ne poteva più di restare inattivo in quel modo atroce che gli sfiancava e logorava la mente e il corpo.

« Sono stato io a dare il benservito a Tetsu », disse a Gackt mentre gli si sedeva accanto e prendeva in mano il telecomando del televisore.

« Davvero? »

« Sì. Non era in grado di darmi quel che gli chiedevo, non più. Non è che non sapesse cantare, solo… lo faceva adeguandosi a stilemi che io invece voglio superare. Questo è un live dello scorso dicembre. »

Lo vide annuire in silenzio.

« Ah, ti dispiace se prendo la chitarra? Non faccio rumore, ma almeno mi ripasso un po’ di canzoni. »

« Ma scherzi? È casa tua, fai come vuoi! »

« Grazie. »

Gli lanciò di rimando un altro tenue sguardo d’intesa, poi si sentì in dovere d’aggiungere qualcosa: « Ah, e non far caso al fanservice. Essenzialmente comunque ci sono io che volo in braccio a un po’ di gente, nulla di più. »

« Ah, fate anche fanservice? »

Quella certa dimostrazione di finta ingenuità provocò a Mana  un piccolo moto di apprensione che s’espresse soltanto tramite l’impensato corrugarsi delle sue sopracciglia. S’era bloccato a metà di un passo, girando un poco verso Gackt il volto sorpreso e un pelo assorto con le labbra corrucciate e gli occhi che d’improvviso parevano due stranamente enormi e tondi globi di un nero splendente.

« Camui… mi hai visto? »

Non aggiunse altro, perché l’espressione un filo imbarazzata di Satoru lo indusse a credere che aveva capito o almeno afferrato il concetto. Se uno col suo aspetto non faceva fanservicebe’, allora il fanservice non esisteva. Era un modo come un altro per divertirsi, farsi notare e far notare anche la band, quindi non ci vedeva nulla di male a scherzare col suo corpo.

« Comunque niente di più, ribadisco. Non collimerebbe col mio personale concetto di eleganza. »

Già, perché lui di eleganza ne aveva da vendere e se lo dimostrò una volta di più scoccando un’occhiata al se stesso d’uno dei tanti specchi.

Ridacchiò un poco, prese la chitarra e tornò a sedersi accavallando di nuovo le gambe.

« Io sono quello coi capelli neri legati, l’altro col cappello da vedova e la permanente da zitella come puoi vedere è Közi, quello alla batteria è Kami e il tipo che sembra un vecchio e a cui starò spesso in braccio è Yu-ki, il bassista. Közi è stato il primo che ho conosciuto quando mi sono trasferito qui a Tokyo, pensa che quel pazzo ha mollato il liceo ed è venuto qui insieme a un amico senza il becco di un quattrino! Per un pezzo abbiamo suonato assieme in un’altra band, i Matenrow, io però ero il bassista. Yu-ki invece lo vidi esibirsi insieme a un altro gruppo a un live, il suo stile mi piacque subito e quella sera stessa mi infilai nel backstage e andai a reclutarlo per i Malice Mizer. Kami invece l’ho barattato col nostro vecchio batterista, tale Gaz, che non mi piaceva minimamente. A conti fatti ci ho guadagnato. »

S’accorse che Camui lo scrutava con una certa palese perplessità nell’espressione, allora gli rivolse un sorrisetto di puro divertimento: « Eh sì, la compravendita di uomini è la mia specialità. Certe volte mi viene il sospetto di essere la reincarnazione di un mercante di schiavi. »

Si voltò verso di lui e il suo sorriso – che aveva ormai davvero dell’inquietante – s’ampliò: « Non ti preoccupare, sei finito in buone mani. »

Ciò che ricevette in cambio fu un ghignetto seguito da un’occhiata di sbieco.

« Non lo metto in dubbio. »

Sommessamente rise di rimando e prese in mano la chitarra, la stessa che suonava nel live, e per un po’ si dimenticò di Gackt Camui. Per un po’ rimasero solo lui e le canzoni e nessuna parola venne più proferita. Lui stava con gli occhi socchiusi e bassi, senza più sorridere anzi con le labbra chiuse e teneramente assorte nel dar vita alle sue melodie, non curandosi altro che delle sue dita sulle corde. Sbagliò poco, perché di quelle canzoni conosceva ogni singola nota.

Ogni tanto le canticchiava, sottovoce e pure se non sapeva cantare, con una faccetta divertita che avrebbe fatto invidia a un bimbo. Gli occhi di Gackt su di sé li percepì solo di sfuggita e se ne interessò poco.

In quella giungla di colore che stava percorrendo il nastro registrato, in quel palcoscenico strettissimo adorno di fiori e piante, dalle ambigue luci rosse e dalle fatate sfumature azzurrognole screziate d’arancio, c’era tanto di lui e tanto di loro, che vi si muovevano sopra suonando come ossessi e giocando come bambini a fare i vampiri e ballando il valzer avvolti in costumi ricavati un po’ dovunque riciclando vestiti. Ogni tanto ci si metteva pure lui a fare taglia e cuci, non lo negava, specie se si trattava di riadattare vecchi abiti.

« Per quanto riguarda la tua domanda di prima, » smise per qualche istante di suonare e inframmezzò alle note le sue parole « i Malice Mizer sono il mio sogno. Sono una musica che travalica il suono, che si scioglie in un’immagine, che ricrea il mondo a modo nostro trasformandolo in un luogo in cui possiamo vivere. »

« Un luogo in cui possiamo vivere? »

Annuì decisamente.

« Mh. Io voglio un posto dove poter essere me stesso, dove suonare senza dovermi omologare ad uno stile, men che meno a quello che sta andando di moda ora. La musica non è un vestito da copiare, la musica è istinto e cuore prima che teoria. »

Ravviò con un gesto nervoso delle mani alcune lunghe ciocche della sua ondulata chioma corvina, sospirando.

« È vero. La musica è qualcosa di semplicemente troppo grande per poter essere espresso a parole, è qualcosa che deve venirti da un punto al di là della ragione. Per questo la parola non la può esprimere, ma può soltanto appoggiarvisi cercando di imitarne il ritmo. »

« Sì. Un ritmo che mescola elementi diversissimi fra loro ma perfettamente complementari. Una melodia rock per esempio non sarebbe più se stessa senza il basso o la chitarra. »

Ancora un lieve tenue silenzio interrotto solo dai suoni della videocassetta, e loro restavano seduti l’uno accanto all’altro immobili come statue viventi. Poi un sussurro da parte di Gackt Camui, che ridestò in Mana la speranza.

« Mana… »

« Sì? »

« Noi… pensi che possiamo farcela? »

« A fare che? »

« Possiamo riuscire a cambiare radicalmente la scena musicale di questo paese? »

Un sorriso.

« Certo. »

Mana s’alzò in piedi.

« Visto quello che ho sentito, io e te ce la possiamo fare di sicuro. »

Non aggiunse altro, si limitò ad allontanarsi verso il corridoio. Non ebbe modo né volle chiedergli nulla di più. Il video del concerto era quasi finito e lui guardò l’ora nell’orologio che ticchettava sulla parete, erano le quattro. Era ancora un po’ presto, ma…

« Vado a fare una corsetta, tu se vuoi va’ pure a dormire. »

« Una corsetta? Vai a correre tutte le mattine a quest’ora? »

« Sì, be’, solitamente a dire il vero verso le cinque, cinque e mezzo… ma ora più ora meno, cosa cambia? »

« Dai, ti accompagno! »

Mana sgranò gli occhi neri e rimase di sale, incredulo. Ma faceva sul serio?

« Sicuro? »

« Certo che sono sicuro! »

« Mica posso permetterti di raffreddarti! »

« Andiamo, non sono così delicato! Almeno prendiamo un po’ d’aria! »

« Sì, l’aria gelida delle quattro del mattino! »

 

E, cielo, uscirono davvero nell’aria gelida delle quattro del mattino, avvolti in un paio di felpe ciascuno ed entrambi presi a correre come forsennati intorno ad un quartiere ancora deserto, colla volta celeste che si tingeva di viola e le stelle che s’appressavano a scomparire.

Correvano fianco a fianco in silenzio, intenti solo a respirare, fissando le nuvolette di fiato che uscivano dalle loro bocche appena dischiuse.

Con la coda dell’occhio Mana percepì più che vedere l’accelerazione improvvisa di Gackt, udì il suono regolare delle sue scarpe battere sul marciapiede. Anche quella sfida non poté non accettarla.

Scattò a sua volta con la rapidità una lepre e si fece strada fendendo quell’aria tagliente che gli faceva dolere i polmoni fino a soffocarlo, affiancandolo quasi senza sforzo.

Ancora nel quieto, immobile silenzio, lui lo raggiunse.

 

 

 

- continua -

N.d.A. Terminato anche il nono capitolo di Mad Tea Party! Spero che abbiate gradito anche se come al solito non succede poi molto. Comincio a precisare che i nomi delle due sorelle Mari e Hinako sono inventati! Nel prossimo capitolo riusciremo forse a sapere che cosa farà Gackt… anche se io so bene che in realtà lo sapete già tutti voi lettori! :D Mi piacerebbe inoltre far fare un’altra comparsata a Takeshi, e magari tirar fuori un nuovo capitolo di pura imbecillità che ogni tanto ci vuole! A occhio e croce, comunque, conterei un altro paio di capitoli e poi l’entrata nel secondo atto! ;)

 

Un bacio

Vitani

 

   
 
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