- Mad Tea Party -
ATTO PRIMO, SCENA NONA
-
La Notte del Giglio e della Rosa
Incedeva silenziosamente per il corridoio di
casa sua, muovendosi sulla punta di due piedini inciabattati
in un paio di pantofole blu, ascoltando ed interpretando con trepida attenzione
ogni singolo rumore che alle sue orecchie capitava di udire. Mica lo sapeva
come mai si stesse facendo tutti quegli scrupoli nel suo territorio… ma che gli
diceva la testa? Un mare di assurdità forse, però… segui il tuo intuito, si
disse, seguilo e tientelo
bello stretto.
Svicolò agilmente per il corridoio fino a
raggiungere l’armadio dove teneva i futon e se ne
caricò sulle spalle uno che andò a piazzare accanto al letto in camera sua.
Aveva come la sensazione che non avrebbero dormito molto, ma la tenne per sé.
Non era una persona tanto sconsiderata.
« La cena è stata di tuo gradimento? »
Glielo chiese con un tenue sorriso sulle
sottili labbra rosee non appena Gackt Camui varcò la
soglia di quella stanza, guardandosi intorno con curiosità evidente e
comprensibile. Lui da parte sua l’osservava con una punta d’inquieto
divertimento negli occhi neri e lucenti: alla fine dei conti lo conosceva
appena e ancora gli risultava difficoltoso inquadrarlo. Oh, ma a quella sfida non
si sarebbe certo tirato indietro.
« Certo! Era tutto buonissimo! Come hai
imparato a cucinare? »
« Principalmente esercitandomi sul campo. Sai,
quando i miei restavano fuori per lavoro toccava a me far da mangiare anche per
la mia sorellina. »
« Hai una sorella? »
Accennò appena di sì con un lento movimento del
capo, invitando intanto il suo ospite a sedersi accanto a lui sul letto.
« Si chiama Hinako,
ha tre anni meno di me. Ha fatto contenti i miei, volevano tanto una femmina. »
« Sai, anche io ho una sorella! Più grande,
però. Si chiama Mari, e si è presa molta cura di me quando… »
Ecco, il greve improvviso silenzio che aveva
seguito quelle parole non era normale. Gli era parso in effetti che Satoru odiasse il silenzio, e allora perché adesso…?
Quando Mana lo guardò, senza parlare e senza
mettergli alcuna fretta, vide che non sorrideva più. S’affrettò quindi a
cambiare argomento, conscio d’aver involontariamente toccato una corda che
forse era meglio non stimolare. Poco gli importava dei segreti di quel ragazzo,
non erano minimamente affare suo.
« Allora? Cosa suoniamo di bello? »
Chiaramente si sentì addosso gli occhi marrone
scuro di Gackt e a sua volta alzò su di lui un paio di luminose ed innocenti
iridi di un nero profondo, che lo scrutarono in palese attesa di un suo
qualsiasi cenno affermativo. C’era un qualcosa di ignominiosamente furbo nel
sorriso flebile che stava ravvivando quel suo viso dal candore di porcellana, e
la cosa suonava straordinariamente inquietante perfino a lui stesso. Da secoli
non provava più un tale divertimento.
Corrugò un poco le nettissime sopracciglia nere
e distolse lo sguardo puntandolo con insistenza verso la porta e intanto
dondolandosi con lentezza bambinesca sul letto avanti e indietro.
« Avevamo deciso di suonar qualcosa, no? Su
allora, fammi sentire come te la cavi. »
S’alzo in piedi sulle lunghe e belle gambe
fasciate da normalissimi pantaloni larghi di tessuto felpato, candidi e da
uomo, tutto pregno di quella sotterranea vitalità che era così disordinatamente
incongrua col ragazzo calmo e tranquillo che pareva a prima vista.
« Usiamo la tastiera però, che se suono il
piano a quest’ora come minimo entro domani gli altri
condomini m’hanno già denunciato. Purtroppo per me non ho altre case oltre a
questa. »
« Hai pure la tastiera? »
« Ovvio.
»
« Comunque, Mana, lasciati dire una cosa. »
« Sì? »
A sua volta Gackt s’era alzato in piedi e lo
osservava sorridendo, dall’alto in basso e forte dei quasi dieci centimetri di
altezza che li separavano. Manabu riusciva alla perfezione
a sentire la presenza imponente di quella figura dietro le sue spalle, anche
senza voltarsi.
« Io col pianoforte non me la cavo, io sono un
genio! »
A quelle parole finalmente si girò lentamente,
tenendo alta la testa e squadrandolo con tale attenzione da indurlo quasi a
fremere, corrucciando un poco il suo sorriso dolce in una smorfietta
di pura e semplice determinazione che – lo vide bene – ebbe quasi il potere di
impensierire Satoru. Quel ragazzo aveva parlato
seriamente pur se dietro una volontaria maschera bonaria, e così anche la
risposta che lui gli diede fu più che seria.
« Anche io. »
Con incredibile indolenza s’afferrò una spalla,
massaggiandosela per qualche istante come a voler sciogliere i muscoli, poi
lasciò i suoi splendidi capelli ondulati liberi dall’elastico che fino a quel
momento li aveva trattenuti. Scosse un paio di volte la testa e andò a prendere
lo strumento, una Yamaha, sistemandolo in salotto.
Mentre controllava rapidamente la tastiera non
parlò né alzò gli occhi, ben cosciente che Gackt lo stava guardando senza
perdersi una sua sola mossa. Gli avrebbe accordato l’onore d’esibirsi per
primo, anche per poter saggiare quanto realmente valesse quel tipo. Lui era ben
sicuro delle proprie, di abilità, e almeno si sarebbe potuto regolare. E poi…
c’era dell’altro sotto, a voler dire tutta la verità: si stava divertendo e pure parecchio, e quello
era uno splendido segno. Mai e poi mai si sarebbe abbassato a collaborare con
qualcuno che lo annoiava, piuttosto preferiva andare avanti da solo.
« Posso accendere quelle candele? » gli domandò
Gackt, avendo evidentemente notato i due o tre candelabri che amorevolmente
avevano trovato parcheggio nel suo salotto « Sopporto poco la luce dei
lampadari. »
« Certo, fai pure. »
Lui accese la tastiera regolandone attentamente
il volume mentre Camui si dava da fare con le
candele. Ben presto l’intera stanza fu pregna di quella densa luce aranciata
che scaldava, e morbidi guizzi d’oro e rosso scivolarono come fiamme riflesse
sulle sue chiome d’ebano quando infine s’alzò tornando a guardare l’altro.
« Prego, tutta tua. »
Nell’aria era l’odore dolciastro della cera.
« Sul serio? »
I suoi occhi a mandorla si chiusero mentre
esalava una parola morbida come un sospiro.
« Certo. »
Si fece da parte e il suo sguardo corse
rapidamente alle candele e al suo riflesso in uno specchio, poi indietreggiò un
poco e si sedette silenziosamente sul divano accavallando con morbidezza una
gamba e ignorando quella tenera inquietudine. Stupì invece se stesso per
quell’aria professionale, e per fortuna che Camui gli
dava le spalle mentre lui lo guardava poggiandosi leggermente il mento su una
mano candida.
Non per niente, nel suo piccolo anche lui era
un produttore. Lo tenne d’occhio mentre si sgranchiva le dita, leggermente inarcando
le sopracciglia e con un sorrisetto d’eccitazione sul viso che gli fece pensare
a quanto tempo era trascorso dall’ultima volta che aveva provato quel brivido
di indescrivibile attesa che gli faceva presagire con precisione infallibile
che stava per fare una grande scoperta. Una ciocca di capelli rotolò
morbidamente davanti ai suoi occhi e lui se la tolse con un soffio che gli
storse appena le sottili labbra rosa. Stava solo attendendo che cominciasse.
Quando infine attaccò, Mana non ebbe neppure il
tempo di essere deluso dalla scelta: il Chiaro
di Luna di Beethoven… avrebbe anche potuto
permettersi qualcosa di più insolito. Immediatamente notò che stava sviluppando
la melodia su un tono basso, e non fu necessario che se ne domandasse il
motivo. L’ascoltò ripetere due volte il tema principale, alzando il tono e
velocizzando il tempo, e infine arrangiare una variazione e concludere il tutto
scattando con una rapidissima marcetta che
evidentemente stava improvvisando. Il suo sorriso s’ampliò e prima d’accorgersene
si ritrovò a battergli il tempo con le dita perfettamente e senza alcun timore
di sbagliare. Gli succedeva sempre così, la musica la sentiva a malapena ormai:
aveva un modo tutto suo di percepirla, un modo che andava al di là dell’udito e
del ritmo ed era incredibilmente più vitale e pulsante.
Satoru Okabe si prese
un’intera mezz’ora per suonare e Mana gliela concesse senza nulla da obiettare.
Non sbagliava, non sbagliava: sentendo quella musica aveva provato la stessa
inebriante sensazione di quando aveva ascoltato quella sua voce così bassa e
potente. Sentì la sua musica nelle orecchie, scintillante, tenne vigilmente d’occhio le mani di Camui
controllando le dita una per una e osservandone lo scorrere, poi guardò gli
occhi di quel ragazzo e vide che erano lucidi e rapiti e ogni tanto si
chiudevano per l’estasi. Quel ragazzo stava sudando e lui socchiuse i suoi
occhi neri: vedevano la stessa armonia, ormai ne era certo.
Rise e gli batté le mani fortemente quando
smise.
« Bravissimo! »
Ed era bravo sul serio, accidenti. Tecnica e
concentrazione che avevano dell’impressionante, peccato che lui nel suo piccolo
non fosse affatto da meno. Suonava da quando aveva memoria, la musica era stata
parte di lui sempre.
S’alzò in piedi e si stiracchiò, scuotendo il
capo come un gatto appena sveglio e si mosse verso la tastiera pensando a cosa
poteva suonare. L’illuminazione lo attraversò fulminea e a lui venne l’idea
mentre prendeva in mano un pacco di spartiti che stava in un ripiano accanto al
muro. Se lo ricordava bene, ma non sapeva se sarebbe riuscito a suonarlo tutto
a memoria ed era decisamente meglio non rischiare.
Edvard Grieg, il Concerto per Pianoforte in La minore,
era stata la sua scelta. Le prime note dell’Allegro
Molto Moderato furono per lui come un riscaldamento. Fu con forse
addirittura troppa lentezza che le suonò, per un istante senza badare neppure
al tempo. Sembrava quasi che si stesse addormentando, ma il suo era solo quel
torpore dei sensi che precedeva lo scatto. Lo sapeva bene, lui che era capace
di passare ore ed ore su un singolo accordo, provando infinite combinazioni e
tornando indietro e riprovando, cercando di trovare la precisa armonia che
cercava. Aveva molta e molta strada da fare ancora e ne era cosciente, mai si
sarebbe fermato.
Respirò una e due volte a fondo con gli occhi
neri socchiusi, poi definitivamente li chiuse e finalmente sentì la musica. Il ritmo l’aveva alla fine pervaso ed erano solo
lui e quel battito che tanto facilmente assimilava a quello del suo cuore. La
musica era il suo cuore. Era parte di
lui quanto lo era il sangue e forse anche di più, perché il sangue gli aveva
donato un’esistenza comune a molti, ma era stata la musica a farlo diventare
ciò che era.
Fu con quella sola percezione nella mente che
si buttò a capofitto nell’Adagio,
gettando solo ogni tanto brevi occhiate nella penombra allo spartito e
affidandosi alla sua memoria per il resto. Non sapeva se Camui
lo stesse guardando o meno, e gliene interessava poco o nulla. Per lui
l’importante era riuscire a suonare. Non aveva idea di quanto tempo fosse
trascorso quando finalmente concluse il Concerto.
Seppe solo che in quel preciso istante gli venne la bislacca idea di mettere di
nuovo mano alla tastiera e di inserire l’organo.
Le candele giacevano ormai consunte e quella
stanza era quasi completamente buia se si eccettuava il lieve fulgore dei
lampioni all’esterno. Non gli saltò in mente neppure per un istante di
accendere la luce, tanto non gli sarebbe più servita.
Avrebbe potuto suonarla con tale precisa
compiutezza da parere quasi Bach in persona,
immaginando il battito di ogni singola nota prima ancora d’eseguirla, eppure
non gli piaceva più così. Era diventato talmente bravo che imitare e copiare
non lo stimolava più, per quanto ovviamente impossibile gli fosse raggiungere
il suo modello. Non se ne rese neppure conto quando cominciò a variare la
melodia, seguendo il suo estro e i suoi desideri ma restando fedele all’ossatura
che aveva sotto le dita, quella di Bach. Continuò a
suonare seguendo il fluire dei suoi sensi, rapidi e sciolti come l’acqua e
incalzanti come una piena, fino a che non ne fu pieno. La musica cessò così
naturalmente, quando si sentì completamente sazio e ristette con gli occhi
alzati al soffitto e le labbra socchiuse accontentandosi di solamente
respirare. Gli formicolavano le dita e lui adorò e maledisse quella sensazione
che precedeva l’inevitabile ritorno al reale.
Gli volevano ricordare ch’aveva un corpo, che
non era un suono e neppure un sogno, che era un uomo.
« Cielo! »
D’improvviso sbarrò gli occhi e si girò verso
Gackt, scattando come se si fosse svegliato in quell’attimo: « Quanto ti ho
fatto aspettare? Scusami, mi sono fatto prendere la mano! »
Si stupì nel vedere che gli stava sorridendo.
« Stai tranquillo, per me è stato solo un
piacere ascoltarti! Sei stato stupendo! »
« Grazie. »
Attendendo si guardarono, per quel poco che
riuscivano a vedersi.
« Non so tu, ma io non ho sonno. »
Era la sacrosanta verità quella che Mana gli
disse, per davvero gli era passato tutto il sonno che poteva aver avuto in
quella notte. Era stato troppo, troppo il divertimento.
« Oh, io non ho quasi mai sonno. Sono piuttosto
insonne. »
Quella risposta lo rallegrò un poco.
« Io pure non ci vado leggero, anche se poi
puoi vedermi addormentarmi ovunque e a qualsiasi ora. Quando mi prende sonno io
dormo. »
« E fai bene! »
Gackt rise apertamente e Mana andò a sedersi
accanto a lui e gli parlò senza quasi guardarlo in viso, conscio che se doveva
dirgli qualcosa era giunto il momento di farlo.
« Bene, se ora vogliamo passare a cose più
serie… se hai qualche domanda, fai pure. Chiedi tutto quello che vuoi. »
Qualche secondo di nuovo silenzio trascorse, ed
entrambi udirono solo i reciproci respiri.
« Mana, io… »
« Sì? »
« Che cosa posso fare io per i Malice Mizer? »
Non s’era aspettato quella domanda così a
bruciapelo e lo scrutò, voltandosi verso di lui con gli occhi seri.
« Dalla mia ottica di leader e produttore del
gruppo, io penso che tu potrai fare molto, se lo vorrai. »
« Perché hai voluto proprio me? Neanche mi
conoscevi, e in Giappone ci sono centinaia di buoni vocalist su cui avresti
potuto contare. »
« Lo so, e non credere che non abbia ascoltato
nessun altro prima di contattarti. Però sai… è stata la tua voce. Quando ho
sentito la tua cassetta, la tua voce mi ha trasmesso qualcosa. È stato questo a
farmi capire che tu potresti essere quello che cerco, e ne sono ancora
convinto, per quanto non potrò averne la certezza finché non ti avrò
definitivamente messo alla prova. »
« Ma se io non dovessi accettare sarebbe stato
tutto inutile. »
Mana gli sorrise allora, e fu quasi certo
d’averlo sorpreso.
« Be’, non direi. Alla fine siamo diventati
amici, o no? Quindi vada come vada non sarà stato poi tutto così inutile! »
« E dimmi, i Malice Mizer… cosa sono? »
« Cinque scemi. »
Mana rise nel vedere l’espressione curiosamente
e drammaticamente perplessa di Gackt a quell’uscita, poi s’alzò in piedi ancora
ridacchiando e andò ad accendere un altro paio di candele facendosi dare in
prestito l’accendino da Satoru. Avvicinò la linguetta
di fuoco a uno stoppino e l’osservò affascinato accendersi facendo ballare la
piccola fiamma come un essere vivente, infine lanciò di nuovo l’accendino al
proprietario, che lo afferrò al volo e se lo ripose in tasca. Utilizzando
quella che già ardeva, accese anche le altre.
« O cinque fratelli, dipende dai punti di
vista. »
Si voltò verso Gackt poggiando le mani sulla
cassettiera cui erano posati i candelabri e sorridendo con dolcezza, coi neri
occhi lucenti screziati dell’oro delle candele.
« Vedi, noi non abbiamo alcun legame eccettuata
la voglia di fare musica. Veniamo da ambienti distinti, da famiglie e
situazioni differenti. Io per esempio sono di Hiroshima, Yu-ki
è di Fukuoka, Kami di Ibaragi, Közi di Niigata, l’unico di Tokyo era Tetsu.
Qui noi siamo praticamente soli, ma possiamo credere in noi come gruppo. Siamo
una famiglia, siamo diversissimi gli uni con gli altri ma siamo comunque uniti
dalla musica. È un legame che credo più forte anche di quello di sangue, perché
i parenti non te li scegli, gli amici sì. »
Gackt annuì in silenzio e Mana proseguì.
« Sai, alle volte penso che se mi fossi
comportato in maniera diversa i miei sarebbero stati più felici. Ho dato loro
molti dispiaceri e temo di non avere ancora finito. »
« Anche per me è stato così », sussurrò Gackt,
sorprendendolo. Manabu inarcò un poco un
sopracciglio, ma decise di non indagare. Satoru gli
sembrava restio a parlarne e lui non voleva in alcun modo metterlo a disagio.
« Se ti interessa, ho una videocassetta con la
registrazione del nostro ultimo concerto con Tetsu.
Vuoi darci uno sguardo? »
Glielo chiese intuendo che era ora di cambiare
discorso, e lo vide sorridere di nuovo.
« Certo, volentieri! »
Mana aprì un cassetto scorrevole e passò le
mani sulle custodie delle videocassette, principalmente registrazioni di anime
– Barbapapà e Doraemon su
tutti – e programmi di cucina. Oh, eccola lì la videocassetta dello “Cher de Memoire”.
L’aveva guardata molte volte, per scovare le imprecisioni, per capire come
migliorare e poi… perché ne sentiva la mancanza. Sì, voleva tornare ad
esibirsi, non ne poteva più di restare inattivo in quel modo atroce che gli
sfiancava e logorava la mente e il corpo.
« Sono stato io a dare il benservito a Tetsu », disse a Gackt mentre gli si sedeva accanto e
prendeva in mano il telecomando del televisore.
« Davvero? »
« Sì. Non era in grado di darmi quel che gli
chiedevo, non più. Non è che non sapesse cantare, solo… lo faceva adeguandosi a
stilemi che io invece voglio superare. Questo è un live dello scorso dicembre.
»
Lo vide annuire in silenzio.
« Ah, ti dispiace se prendo la chitarra? Non
faccio rumore, ma almeno mi ripasso un po’ di canzoni. »
« Ma scherzi? È casa tua, fai come vuoi! »
« Grazie. »
Gli lanciò di rimando un altro tenue sguardo
d’intesa, poi si sentì in dovere d’aggiungere qualcosa: « Ah, e non far caso al
fanservice. Essenzialmente comunque ci sono io che
volo in braccio a un po’ di gente, nulla di più. »
« Ah, fate anche fanservice?
»
Quella certa dimostrazione di finta ingenuità
provocò a Mana un piccolo moto di
apprensione che s’espresse soltanto tramite l’impensato corrugarsi delle sue
sopracciglia. S’era bloccato a metà di un passo, girando un poco verso Gackt il
volto sorpreso e un pelo assorto con le labbra corrucciate e gli occhi che
d’improvviso parevano due stranamente enormi e tondi globi di un nero
splendente.
« Camui… mi hai
visto? »
Non aggiunse altro, perché l’espressione un
filo imbarazzata di Satoru lo indusse a credere che
aveva capito o almeno afferrato il concetto. Se uno col suo aspetto non faceva fanservice… be’, allora il fanservice non esisteva. Era un modo come un altro per
divertirsi, farsi notare e far notare anche la band, quindi non ci vedeva nulla
di male a scherzare col suo corpo.
« Comunque niente di più, ribadisco. Non
collimerebbe col mio personale concetto di eleganza. »
Già, perché lui di eleganza ne aveva da vendere
e se lo dimostrò una volta di più scoccando un’occhiata al se stesso d’uno dei
tanti specchi.
Ridacchiò un poco, prese la chitarra e tornò a
sedersi accavallando di nuovo le gambe.
« Io sono quello coi capelli neri legati,
l’altro col cappello da vedova e la permanente da zitella come puoi vedere è Közi, quello alla batteria è Kami
e il tipo che sembra un vecchio e a cui starò spesso in braccio è Yu-ki, il bassista. Közi è stato
il primo che ho conosciuto quando mi sono trasferito qui a Tokyo, pensa che
quel pazzo ha mollato il liceo ed è venuto qui insieme a un amico senza il
becco di un quattrino! Per un pezzo abbiamo suonato assieme in un’altra band, i
Matenrow, io però ero il bassista. Yu-ki invece lo vidi esibirsi insieme a un altro gruppo a
un live, il suo stile mi piacque subito e quella sera stessa mi infilai nel
backstage e andai a reclutarlo per i Malice Mizer. Kami invece l’ho barattato
col nostro vecchio batterista, tale Gaz, che non mi
piaceva minimamente. A conti fatti ci ho guadagnato. »
S’accorse che Camui
lo scrutava con una certa palese perplessità nell’espressione, allora gli
rivolse un sorrisetto di puro divertimento: « Eh sì, la compravendita di uomini
è la mia specialità. Certe volte mi viene il sospetto di essere la
reincarnazione di un mercante di schiavi. »
Si voltò verso di lui e il suo sorriso – che
aveva ormai davvero dell’inquietante – s’ampliò: « Non ti preoccupare, sei
finito in buone mani. »
Ciò che ricevette in cambio fu un ghignetto
seguito da un’occhiata di sbieco.
« Non lo metto in dubbio. »
Sommessamente rise di rimando e prese in mano
la chitarra, la stessa che suonava nel live, e per un po’ si dimenticò di Gackt
Camui. Per un po’ rimasero solo lui e le canzoni e
nessuna parola venne più proferita. Lui stava con gli occhi socchiusi e bassi,
senza più sorridere anzi con le labbra chiuse e teneramente assorte nel dar
vita alle sue melodie, non curandosi altro che delle sue dita sulle corde.
Sbagliò poco, perché di quelle canzoni conosceva ogni singola nota.
Ogni tanto le canticchiava, sottovoce e pure se
non sapeva cantare, con una faccetta divertita che avrebbe fatto invidia a un
bimbo. Gli occhi di Gackt su di sé li percepì solo di sfuggita e se ne
interessò poco.
In quella giungla di colore che stava
percorrendo il nastro registrato, in quel palcoscenico strettissimo adorno di
fiori e piante, dalle ambigue luci rosse e dalle fatate sfumature azzurrognole
screziate d’arancio, c’era tanto di lui e tanto di loro, che vi si muovevano
sopra suonando come ossessi e giocando come bambini a fare i vampiri e ballando
il valzer avvolti in costumi ricavati un po’ dovunque riciclando vestiti. Ogni
tanto ci si metteva pure lui a fare taglia e cuci, non lo negava, specie se si
trattava di riadattare vecchi abiti.
« Per quanto riguarda la tua domanda di prima,
» smise per qualche istante di suonare e inframmezzò alle note le sue parole «
i Malice Mizer sono il mio
sogno. Sono una musica che travalica il suono, che si scioglie in un’immagine,
che ricrea il mondo a modo nostro trasformandolo in un luogo in cui possiamo
vivere. »
« Un luogo in cui possiamo vivere? »
Annuì decisamente.
« Mh. Io voglio un
posto dove poter essere me stesso, dove suonare senza dovermi omologare ad uno
stile, men che meno a quello che sta andando di moda
ora. La musica non è un vestito da copiare, la musica è istinto e cuore prima
che teoria. »
Ravviò con un gesto nervoso delle mani alcune
lunghe ciocche della sua ondulata chioma corvina, sospirando.
« È vero. La musica è qualcosa di semplicemente
troppo grande per poter essere espresso a parole, è qualcosa che deve venirti
da un punto al di là della ragione. Per questo la parola non la può esprimere,
ma può soltanto appoggiarvisi cercando di imitarne il ritmo. »
« Sì. Un ritmo che mescola elementi
diversissimi fra loro ma perfettamente complementari. Una melodia rock per
esempio non sarebbe più se stessa senza il basso o la chitarra. »
Ancora un lieve tenue silenzio interrotto solo
dai suoni della videocassetta, e loro restavano seduti l’uno accanto all’altro
immobili come statue viventi. Poi un sussurro da parte di Gackt Camui, che ridestò in Mana la speranza.
« Mana… »
« Sì? »
« Noi… pensi che possiamo farcela? »
« A fare che? »
« Possiamo riuscire a cambiare radicalmente la
scena musicale di questo paese? »
Un sorriso.
« Certo. »
Mana s’alzò in piedi.
« Visto quello che ho sentito, io e te ce la
possiamo fare di sicuro. »
Non aggiunse altro, si limitò ad allontanarsi
verso il corridoio. Non ebbe modo né volle chiedergli nulla di più. Il video
del concerto era quasi finito e lui guardò l’ora nell’orologio che ticchettava
sulla parete, erano le quattro. Era ancora un po’ presto, ma…
« Vado a fare una corsetta, tu se vuoi va’ pure
a dormire. »
« Una corsetta? Vai a correre tutte le mattine
a quest’ora? »
« Sì, be’,
solitamente a dire il vero verso le cinque, cinque e mezzo… ma ora più ora
meno, cosa cambia? »
« Dai, ti accompagno! »
Mana sgranò gli occhi neri e rimase di sale,
incredulo. Ma faceva sul serio?
« Sicuro? »
« Certo che sono sicuro! »
« Mica posso permetterti di raffreddarti! »
« Andiamo, non sono così delicato! Almeno
prendiamo un po’ d’aria! »
« Sì, l’aria gelida delle quattro del mattino!
»
E, cielo, uscirono davvero nell’aria gelida
delle quattro del mattino, avvolti in un paio di felpe ciascuno ed entrambi
presi a correre come forsennati intorno ad un quartiere ancora deserto, colla
volta celeste che si tingeva di viola e le stelle che s’appressavano a
scomparire.
Correvano fianco a fianco in silenzio, intenti
solo a respirare, fissando le nuvolette di fiato che uscivano dalle loro bocche
appena dischiuse.
Con la coda dell’occhio Mana percepì più che
vedere l’accelerazione improvvisa di Gackt, udì il suono regolare delle sue
scarpe battere sul marciapiede. Anche quella sfida non poté non accettarla.
Scattò a sua volta con la rapidità una lepre e
si fece strada fendendo quell’aria tagliente che gli faceva dolere i polmoni
fino a soffocarlo, affiancandolo quasi senza sforzo.
Ancora nel quieto, immobile silenzio, lui lo
raggiunse.
- continua -
N.d.A.
Terminato anche il nono capitolo di Mad Tea Party!
Spero che abbiate gradito anche se come al solito non succede poi molto.
Comincio a precisare che i nomi delle due sorelle Mari e Hinako
sono inventati! Nel prossimo capitolo riusciremo forse a sapere che cosa farà
Gackt… anche se io so bene che in realtà lo sapete già tutti voi lettori! :D Mi
piacerebbe inoltre far fare un’altra comparsata a Takeshi, e magari tirar fuori un nuovo capitolo di pura
imbecillità che ogni tanto ci vuole! A occhio e croce, comunque, conterei un
altro paio di capitoli e poi l’entrata nel secondo atto! ;)
Un
bacio
Vitani