Per chi non conosce Candy Candy:
“1898, Stati Uniti d’America:
presso un piccolo orfanotrofio chiamato Casa di Pony, vicino alle sponde del
lago Michigan, vengono abbandonate due neonate. Il loro pianto viene udito da Miss Pony e Suor
Maria, le direttrice, che le accolgono amorevolmente. Le due bambine, la timida
Annie e l’intraprendente Candy, crescono insieme diventando ben presto
inseparabili. Nulla sembra turbare la loro felicità, ma quando compiono sei
anni Annie viene adottata da una coppia molto facoltosa, il signore e la
signora Brighton. Il distacco è triste e doloroso. Per un breve periodo Annie e
Candy restano in contatto, ma ben presto si vedono costrette a interrompere la
loro fitta corrispondenza per colpa di allora importanti questioni sociali. Proprio il giorno del loro definitivo addio, sulla collina
dove è solita ritirarsi nei momenti di maggiore tristezza, Candy incontra un
giovane dai capelli biondi vestito con un kilt
scozzese, che la consola suonando per lei la cornamusa che porta con sé. Prova
di questo incredibile incontro è per la spilla a forma di aquila con sopra una
lettera "A" che il giovane, da lei soprannominato il Principe
della Collina, perde prima di andarsene.
Candy ha già compiuto dodici anni quando un giorno,
rientrando alla Casa di Pony, trova il maggiordomo di una ricca famiglia, i
Legan, che ha presentato a Miss Pony una richiesta per assumere la bambina come
dama di compagnia della figlia minore, Iriza. Candy ha sempre desiderato un
papà e una mamma ed è delusa dal fatto che la vogliano solo come dama di
compagnia, ma riconoscendo sulla vettura lo stemma del Principe della Collina,
si decide ad abbandonare l’orfanotrofio. Suor Maria e Miss Pony non vorrebbero
lasciarla andare, ma con la tristezza nel cuore devono acconsentire alla sua
partenza immediata. Durante il viaggio la bambina continua a chiedersi come può
essere questa Iriza, tanto bisognosa di compagnia, e si diverte ad immaginarla
molto simile alla piccola Annie. Ma le cose purtroppo non stanno affatto così:
Iriza, così come il fratello maggiore, Neal, è viziata e malvagia e, fin
dall’inizio, non perde occasione per incolpare Candy delle sue malefatte, per
umiliarla e metterla in cattiva luce di fronte ai genitori. Un giorno Candy,
dopo l'ennesima cattiveria, fugge nel bosco e fa un incontro inaspettato:
davanti ad un cancello ricoperto di rose rampicanti c'è un ragazzo identico al
suo Principe che la consola con le stesse parole di un tempo. Quando Candy,
persa nei propri ricordi, si ridesta, però, lui non c'è già più. Candy ritorna
ancora a cercare il ragazzo ed così ha l’occasione di far conoscenza con due
fratelli, Archie e Stear Corwell. I due invitano Candy ad una festa a casa
Andrew, dove la piccola può finalmente rivedere il famoso ragazzo biondo. Egli
non è altri che Anthony Brown, cugino dei suoi due nuovi amici e anch’egli
membro della famiglia Andrew. Tra i due nasce subito un tenero sentimento
d’amore. Tra le nuove conoscenze di Candy si aggiunge anche Albert, un giovane
vagabondo amante degli animali, che più volte interviene in suo aiuto.
Ma i pestiferi fratelli Legan, non fanno altro che mettere i
bastoni tra le ruote alla piccola biondina, ed arrivano a farla mandare in
Messico, per immeritata punizione. Durante il viaggio, però, Candy viene
"rapita" da George, l'uomo di fiducia di William Andrew, misterioso
capostipite della famiglia che dietro le pressanti richieste dei suoi nipoti
Anthony, Archie e Stear ha deciso di adottarla, nonostante il disappunto della
vecchia zia Elroy. Per presentare Candy a tutti i componenti della grande
famiglia Andrew, viene organizzata la classica caccia alla volpe. È in questa
occasione che Anthony perde tragicamente la vita cadendo da cavallo. Distrutta dal dolore Candy torna alla Casa di Pony per
ritrovare la serenità perduta. È lì che un emissario dello zio William la
raggiunge per condurla a Londra a studiare in un esclusivo collegio dove sono stati
già mandati Archie e Stear.
Imbarcata sulla nave che dall'America la conduce in
Inghilterra, Candy si imbatte in un giovane misterioso e affascinante dai
lunghi capelli castani, Terence, che stranamente di spalle le ricorda Anthony.
Ben presto si rende conto che questi ha un temperamento nettamente differente
dal suo primo amore: è maleducato ed irriverente nei suoi confronti e la prende
in giro chiamandola "Signorina tutte-lentiggini". In Inghilterra,
Candy ha l’occasione di conoscere Patty, una ragazza timida e problematica e
rivede anche la sua cara Annie da cui, in seguito alla pubblica scoperta delle
sue umili origini, ridiventa inseparabile. A Londra rincontra anche Albert.
Purtroppo anche i Legan hanno mandato a studiare alla Saint Paul School i loro
figli Neal e Iriza. Contro le loro angherie interviene Terence, con il quale
Candy comincia a stringere una burrascosa ma sincera amicizia. Pian piano il
ragazzo inizia a nutrire un sentimento sempre più forte per Candy e, deciso a
farle dimenticare Anthony, prima la costringe ad una cavalcata infernale, poi,
la bacia [qui l’anime si scosta dal manga originale: nel primo questa scena
avviene durante le vacanze in Scozia, nel secondo durante la festa di Maggio.]
Alla fine anche Candy si innamora di Terence ed i due trascorrono insieme
momenti felice e spensierati. Ma Iriza, gelosa, pone subito fine al loro
piccolo idillio. Con uno stratagemma riesce a far espellere Candy dal collegio.
Terence decide allora di sacrificarsi per lei e abbandona l’Inghilterra per
andare negli Stati Uniti dove spera di poter seguire le orme materne,
diventando un attore.
Ma Candy non se la sente più di restare al collegio.
Intraprende così un viaggio burrascoso e ritorna alla casa di Pony, scoprendo
che Terence è stato li per vedere il luogo dove lei è cresciuta e di cui gli ha
tanto parlato. Ma lei non vuole restare, capisce che la sua vera vocazione è
fare l'infermiera, decide di frequentare la scuola Mary Jane e conseguire la
qualifica che le consentirà di esercitare questo lavoro. Intanto scoppia la
prima guerra mondiale e Archie e Stear vengono richiamati in America insieme a
Annie, mentre Candy e altre allieve infermiere, per mancanza di personale,
vengono mandate in un ospedale di Chicago. Lì la biondina ha l’occasione di
rivedere, seppur solo per qualche istante, a causa di numerosi eventi
sfortunati, l’amato Terence. Felice per quel incontro ritorna in ospedale dove
la direttrice le annuncia che c'è bisogno di una volontaria che parta per
soccorrere i feriti di guerra. Candy esita un attimo di troppo e al suo posto
parte Flanny, sua impassibile compagna di stanza.
Un giorno in ospedale giunge Albert, ferito e senza memoria.
Candy si prende cura di lui al meglio, ma quando il direttore le annuncia che
ha intenzione di dimettere il ragazzo perchè ormai fisicamente ristabilito, lei
decide di andare a vivere con lui in una casa tutta loro. Intanto a Terence,
che è al corrente di tutto perchè lei gli scrive puntualmente, viene assegnata
la parte di Romeo. Entusiasta egli la invita alla rappresentazione teatrale,
felice di poterla finalmente riabbracciare. Purtroppo, però, durante le prove per lo spettacolo, Susanna, l’attrice che
avrebbe dovuto interpretare Giulietta, lo salva dalla caduta di un proiettore,
perdendo una gamba e spezzando la sua carriera. Arrivata a New-York, Candy apprende la notizia dell'incidente di
Susanna e decide di andare a parlare con la ragazza, per dirle che non è giusto
che lei approfitti del suo gesto per legare a sé Terence condannandolo
all'infelicità. Ma una volta in ospedale Candy si rende conto che Susanna è
disperata: la trova sul tetto in procinto di suicidarsi. Candy la salva, si rende conto dell'amore
profondo che lega Susanna a Terence, capisce la sua disperazione e, seppur con
il cuore a pezzi, decide di tirarsi indietro e farsi definitivamente da parte.
L'addio in ospedale tra i due ragazzi è straziante, un abbraccio che vorrebbero
durare un eternità e che segna solo l'inizio della fine di un grande amore.
Candy arriva a Chicago svenuta sul treno e con la febbre alta e quando riapre
gli occhi a casa Andrew apprende dai suoi amici Archie, Annie e Patty che Stear
è partito volontario per la guerra.
Intanto entra in scena Neal che, dopo essere stato salvato da
Candy da un pestaggio, inizia a innamorarsi di lei. La segue, la spia, scopre
che vive con un uomo e ne è geloso, la invita ad un appuntamento ma Candy si
rifiuta di lasciarsi corteggiare. Allora lui, offeso, fa in modo che venga
bandita da tutti gli ospedali di Chicago. La ragazza decide
allora di aiutare un vecchio dottore nella gestione di una piccola clinica di
periferia. La sua vita, però, viene nuovamente sconvolta: Stear muore in un
combattimento aereo, Patty ritorna in California per cercare di ritrovare un
po’ di serenità, Albert, che nel frattempo ha segretamente ritrovato la
memoria, decide di partire e Terence, come è annunciato su tutti i giornali,
sopraffatto dal dolore, ha abbandonato Susanna e il teatro. Distrutta, Candy si mette alla ricerca del suo protettore e
incappa per caso in un piccolo teatro ambulante in cui vede Terence recitare
malamente, completamente ubriaco. Il giovane la vede, seppur creda sia un
allucinazione, e capisce la tristezza e il dolore che le sta causando. Decide
allora di riprendere in mano la sua vita e di tornare dall'altra donna che per
lui sta terribilmente soffrendo, Susanna. Rincuorata, almeno su questo fronte,
Candy apprende che la famiglia Legan sta organizzando il suo matrimonio con
Neal, per volere dello Zio William. Furiosa, riesce a rintracciarlo e scopre
che questi non è altro che Albert, il buon amico che l'ha sempre aiutata. I due
chiariscono ogni cosa e il matrimonio viene annullato. Il finale vede una
gioiosa festa alla Casa di Pony, dove tutto è cominciato ormai sedici anni
prima. Candy, passeggiando per la collina che tanto ama, sente nuovamente il
suono di una cornamusa. Si volta e con sorpresa rivede quel principe che non ha
mai dimenticato e che altri non è che Albert.”
Midsummer's Act
Atto di mezz’estate
C’è un detto che circola tra gli
scenari dei teatri. Una legge non scritta che sibila dietro il sipario e danza
tra la polvere illuminata dai riflettori. Aleggia nelle pagine consunte e
sottolineate dei copioni e raggiunge anche il retroscena, nei suoi più
reconditi angoli. È una sentenza che assume quasi il carattere oscuro di
maledizione e scandisce inesorabile l’esistenza degli attori che hanno
l'audacia di recitare quello spettacolo, ripetendo nel silenzio teso del
pubblico quelle parole. Educano il loro cuore a vibrare sotto la corda
di falsi sentimenti per ottenere la fama e l’onore e non si rendono conto di
sfidare lo stesso destino. Perché l’attore e l’attrice che recitano Romeo e
Giulietta sono destinati a unirsi in matrimonio e a restare insieme per
sempre.
A qualunque costo.
***
Si preannunciava una bella giornata. I raggi maliziosi di
un sole intraprendente si erano gia intrufolati tra le spesse tende della
camera e venivano agitare le loro punte accecanti intorno a lei. Girò la testa
da un lato, poi dall’altro, le sopraciglia aggrottate e l’espressione
imbronciata. Il caldo scottante di quella mattina di fine luglio cominciava a
invadere la stanza. La giovane donna si raddrizzò e decise di uscire sul
terrazzo alla ricerca dell’ultima freschezza mattutina. Alzandosi, posò uno
sguardo teneramente triste sulla figura addormentata al suo fianco.
Silenziosamente e con precauzione, attenta a posare con leggerezza a terra il
piede destro, abbassò la maniglia della portafinestra e scivolò nell’apertura.
Una brezza leggera volteggiò attorno a lei, liberando il
suo bel viso dalle lunghe ciocche aggrovigliate dalla notte. Si avvicinò al
balcone e si appoggio leggermente sulla balaustra per ammirare, come a sua
abitudine, il magnifico roseto esteso un po’ più in basso, nel seno del vasto
giardino. Il delicato profumo delle rose dalla molteplice essenza si innalzava
invitante verso di lei. Sorrise annusando quei teneri odori, di uno di quei
sorrisi malinconici che talvolta apparivano sulle sue labbra piene, quando i
ricordi dolorosi si facevano più presenti e venivano pizzicare il suo fragile
cuore.
Era stato lui a volere quelle rose nel loro
giardino, qualche anno addietro, dopo esserne rimasto abbagliato un giorno che,
durante una gita vicino al lago Michigan, passeggiando in campagna, si erano
ritrovati davanti ad un’elegante dimora estiva che doveva appartenere ad una
qualche ricchissima famiglia.
Sapeva chi gli avevano ricordato.
L’aveva capito dall’improvviso bagliore addolorato che aveva attraversato il suo sguardo, impedendogli di muoversi.
Quanti anni erano trascorsi da quella maledetta notte
innevata in cui, per un triste scherzo del destino, si erano ritrovati tutti e
tre sul tetto di un ospedale di New-York? Aveva smesso di contarli, tentando di
allontanare per sempre dalla sua mente quelle immagini di disperazione e di
spasimo e, con loro, il profondo senso di oppressione che la stringeva in una
morsa quasi letale.
Le doveva tutto, ne era cosciente, eppure non riusciva neanche a
pronunciare il suo nome. Farlo avrebbe accentuato l’eco di quel volto, che
ancora troppe volte le annebbiava la vista. Riccioli biondi da bambina a
incorniciare un volto di donna falsamente sereno, con i muscoli contratti sotto
la pelle e lo sguardo al soffitto per evitare le lacrime.
Lo stesso sguardo risoluto e fragilmente perduto che le
capitava di vedere nei suoi occhi oltremare.
Sospirò piano, mescolando il suo respiro alla tenera aria
mattutina che gia cominciava a farsi afosa, riscaldata dai raggi di quel sole
sempre più vivo, e passò piano il dito attorno al cerchietto di metallo che le
avvolgeva l’anulare sinistro, come a rassicurarsi. Era felice oramai, si disse,
coccolata da uno sposo che adorava e circondata da una famiglia a cui, in fondo
a se stessa, aveva temuto di dover rinunciare per sempre. Eppure il benessere
affettivo e lussuoso che la circondava non le impediva di vivere
nell’inquietudine permanente di perdere quel equilibrio che aveva cercato di
costruire piano, piano, negli anni.
E che forse si stava gia incrinando.
Lasciò il suo sguardo vagare oltre il pacifico giardino e
il muricciolo che lo delimitava, in lontananza, ignara degli occhi fermi che
erano appoggiati sulla sua esile schiena, avvolta dall’azzurro pallido di una
camicia da notte leggera. A torso nudo, lui se ne stava lì, con la fronte
accostata al vetro appena fresco della portafinestra, protetto dalla
semioscurità della grande camera da letto, l’alito che ancora tradiva i postumi
di quella notte che lei pareva aver dimenticato, ma che lui sentiva come
l’ennesima macchia in quella sua anima tormentata.
Di nuovo, un errore su quella scena di cui era il
protagonista obbligato, rinchiuso negli abiti ingrati dell’uomo in cui si era
trasformato.
Cosa penseresti di me?
Le sue mani si serrarono su se stesse in una morsa ferrea,
scosse da tremiti indomabili che tradivano tutta l’irritazione che sentiva
crescere dentro di sé.
Per un istante, si permise di richiudere gli occhi e far sparire
l’esile figura che, al di là del vetro, continuava ad ammirare il giardino
fiorito. Subito, il volto che aveva scorto la sera precedente sulla prima
pagina di un plumbeo quotidiano lo colpì con forza, involontariamente crudele,
inconsapevolmente carnefice, con il suo sorriso, del suo cuore gia ammaccato.
Di nuovo, era bastato un accenno velato, un’ombra sbiadita
di lei, per fargli dare fuoco a quella serenità pacata e appena
percettibile che aveva duramente conquistato.
Di nuovo, di fronte a quello sguardo scintillante di
primavera non aveva potuto, voluto, tirarsi indietro e aveva permesso ai
suoi occhi di scorrere con avidità le parole del trafiletto.
E queste gli avevano marcato a fuoco l’animo claudicante.
Si aggrappò alla tenda e respirò profondamente. Le sue
gambe lo sostenevano appena e solo la presa sul tessuto corposo gli permise di
non cedere. Il pensiero insostenibile che lo tormentava dalla sera precedente,
il sospetto indubbiamente fondato che in qualche modo fosse proprio lui la causa
di quella decisione, colpì la sua impulsività. L’immagine delicata al di là del
vetro cercò, nello stesso momento in cui aprì gli occhi, di arrestare la sua
caduta in quel baratro di tormento che già gli bloccava il respiro. Invano.
Furente, mandò in frantumi la finestra, strappandosi dal
legame che lo vincolava a lei.
Susanna, sorpresa dal rumore improvviso, sussultò,
lasciando scivolare dalle sue labbra un grido di spavento. La speranza che il
sonno avesse calmato l’animo inquieto che poche ore prima l’aveva travolta
scivolò all'istante lontano. Timorosa di incontrare di nuovo quello sguardo
deformato da un qualcosa che non era riuscita a comprendere, si voltò piano,
imponendosi di trattenere lo sconforto che le stringeva lo stomaco. I suoi
occhi bambini incontrarono, però, soltanto il vuoto del vetro frantumato. Si
strinse forte le labbra tra i denti per non lasciare scappare il singhiozzo di
un presentimento intimo amico dell’evidenza e, al rumore della macchina
sgommante sulla ghiaia del viale d’ingresso, si lasciò scivolare per terra.
Se n’era andato. Di nuovo.
***
Guardò con dolcezza il piccolo ambulatorio adagiato in uno
schizzo di verde ai margini del centro città. Il sole caldo ormai quasi pronto
al tramonto accarezzava le assi di legno delle pareti vivacizzandole con
sfumature sempre più tendenti al vermiglio e rifletteva i suoi densi bagliori
contro le esigue finestre. Un sorriso le illuminò il volto al ricordo della
prima volta in cui aveva varcato quella porta, preoccupata e furente, ancora indossante
la camicia da notte rosa acceso che aveva quando era stata svegliata
dall’affittuario e informata dell’incidente del suo protettore.
Articolò silenziosamente una parola di saluto verso quel
luogo, rifugio per la sua vocazione calpestata, e risalì sull’automobile
elegante che l’aspettava con il motore acceso.
Il bel viso sporto dal finestrino per prolungare il
contatto visivo con la semplice struttura, chiese gentilmente all’autista di
portarla all’originaria destinazione, dopo quella piccola deviazione. L’aria
che piacevolmente entrava nella vettura si insinuava tra i suoi riccioli dorati
di miele, inscenando con loro un ballo spensierato, e rinfrescava piacevolmente
il suo viso amabile e costellato di piccole lentiggini chiare che dal piccolo naso
appuntito arrivavano fino agli zigomi sfumandosi gradualmente.
Se la via intrapresa la metteva in apprensione, questo non
traspariva né dai suoi tratti, serenamente rilassati, né dalle iridi smeraldine
che osservavano lo scorrere del paesaggio con disarmante tranquillità. Solo un
leggero tremore alle mani, saldamente unite e appoggiate con falsa noncuranza
alle gambe, tradiva la sua agitazione. Agitazione mescolata a quello strano
misto di paura, coraggio, eccitamento e a una sensazione strana che davvero non
riusciva a spiegare.
Era come se il suo destino la stesse chiamando a gran voce,
per un appuntamento fissato in anticipo, gia molto tempo prima.
Aveva ricevuto un addestramento particolare in previsione
di un simile evento, già quando non era altro che una semplice allieva
pasticciona e sbadata. Era giunto il momento, lo sapeva, di metterlo in
pratica.
Il ricordo di Catherine, che le aveva inconsapevolmente
consentito di continuare a svolgere la sua professione, come quello del cugino
divertente e fantasioso che aveva rallegrato tante sue giornate, le tornarono
alla mente. Si chiese se avesse davvero la forza di abbandonare la tranquilla
vita di Chicago, l’affetto e la compagnia da cui era sempre circondata, e la
casa dov’era nata e dove soleva tornare per ritrovare la serenità.
Ad un incrocio, quando l’automobile si fermò per dare la
precedenza, una giovane coppia con un bambino passò davanti a lei. La donna
sembrava radiosa, la mano appoggiata fermamente sul braccio del marito che
teneva in braccio suo figlio.
Non doveva avere più un paio d’anni. Aveva gli stessi
capelli rossi scarmigliati del padre.
Li guardò passeggiare lungo la strada finché la macchina
non ripartì, allontanandoli dalla sua vista. Sembravano così felici e così
estranei al pericolo imminente che il paese avrebbe dovuto fronteggiare. Pensò
allora che quella donna avesse delle buone ragioni per restare sana e salva
sotto la protezione della sua madrepatria in quanto, dopotutto, aveva una
famiglia sulla quale vegliare.
Ma lei non aveva nessuno che l’aspettava a casa, e se
qualche anno prima il suo pensiero l’aveva fatta esitare adesso sentiva
di aver esaurito le scuse.
Estrasse dalla tasca il ritaglio di giornale che le avevano
dato qualche giorno prima, chiedendosi ancora come la notizia fosse trapelata
così in fretta. Sorrise alla sua foto. Risaliva a qualche anno da allora,
quando aveva ricevuto il suo diploma e viveva con leggerezza ed esuberanza
nell’attesa di rivederlo. Nessuna mestizia aleggiava nel suo sorriso e non vi
era traccia dell’attuale ombra del suo cuore. Era genuinamente felice, allora,
a pochi passi da quelli che amava e in fitta corrispondenza epistolare con lui.
Sospirò leggermente, senza farsi sentire, per scacciare via
con quel respiro il dolore che ancora le suscitava il suo ricordo, e per non
permettere a quella scena di ripetersi nella sua mente, impedendo alle sue
orecchie di sentire altro che quelle parole.
Ma lo sforzo fu vano.
Si rivide nel cappottino rosso.
Scendeva le scale precipitosamente, l’animo confuso e
annebbiato. Per un momento aveva creduto si trattasse di uno dei suoi incubi,
ma il forte battito del suo polso così dolorosamente nitido, le aveva
confermato che era ben sveglia.
Aveva sentito quei passi frenetici che la seguivano.
Era lui, lo sapeva.
Scappava e al tempo stesso desiderava non arrivare mai
all’ultimo gradino.
E poi, lui le aveva cinto la vita, allacciando le
mani sul suo tenero ventre, tirandola piano, ma con foga, contro di sé. E lei
si era ritrovata contro il suo petto, il profumo pungente di lui
che le stuzzicava il piccolo naso cosparso di efelidi. Aveva sentito tremante i
suoi ricci scomposti accogliere il suo volto e udito il pianto nella sua
voce.
Quella voce così calda e scherzosa e irriverente che ancora
le sembrava di sentire chiamante il suo nome, di notte.
Gli occhi accolsero un velo di lacrime, ma queste non
ebbero il tempo di sfuggire sulle guance candide di latte, fermate in anticipo
dalle sue fini dita veloci. Abbassò un attimo le palpebre, sentendo lo
spegnersi del motore, per ritrovare dentro di sé la calma necessaria per quel
commiato, poi, sistemandosi velocemente i capelli e stampandosi un sorriso
smagliante sul volto quasi a fare il verso all’ultima luce del giorno, scese e
si precipitò incontro alle due donne, le sue due madri, che l’attendevano su
quella soglia tanto amata.
***
L’aveva osservata correre, allontanarsi dalla vettura,
senza una parola, senza un gesto, paralizzato com’era dall’emozione che lo
sommergeva. Gli era sembrata così bella, così pura, talmente diversa da tutte
le giovani donne che aveva l’occasione di incontrare a teatro o alle feste
mondane cui era invitato con…
Indossava un abito estivo, sulle tonalità del giallo e
dell’arancio, semplice come voleva il suo carattere, con maniche corte
leggermente sbuffanti e una gonna che ricadeva naturalmente fin sotto il
ginocchio. I lunghi capelli ricci erano trattenuti indietro da un largo nastro
coordinato. Notò con una piccola stretta al cuore che non aveva più i codini
smisurati che sfoggiava nella sua più tenera giovinezza, messi da parte, nella
soffitta della sua memoria, immaginava, come il restante di un passato
ormai compiuto.
Non sapeva spiegarsi esattamente come avesse capito che
l’avrebbe trovata lì, in quel luogo di cui tante volte gli aveva parlato con
gli occhi brillanti di gioia; l’unico pensiero che gli vorticava in testa era
che avrebbe tanto voluto parlarle e dirle che la trovava più attraente che mai
e che l’amava come il giorno del loro primo incontro su quella nave che li
conduceva verso Southampton, verso l’Inghilterra, verso il collegio di Londra,
che aveva segnato a vita i loro due destini. Scosse il capo.
No, si disse, l’amore che provava allora non era niente
paragonato a quello che gli stava schiacciando ogni razionale pensiero in quel
momento.
Erano passati gli anni, eppure gli pareva di ritrovarla
sostanzialmente come l’aveva lasciata: chiassosa, vivace, sprigionante una
gioia di vivere capace di superare ogni freno. Tuttavia, non riusciva ad
ignorare che, giusto un attimo prima, l’aveva scorta attraverso i vetri
abbassati passare ripetutamente le dita sugli occhi e respirare profondamente
prima di abbandonare il sedile, quasi a voler scacciare un malessere profondo,
a tratti troppo pesante per la sua anima. Si chiese se fosse per la stessa
ragione per cui lui passava tante notti insonni a errare per il giardino, se
nemmeno lei, nonostante tutta la sua forza, fosse ancora riuscita a
dimenticare.
Partiva per questo?
Eppure non era stata lei stessa a spronarlo ad
andare avanti a testa alta verso la sua meta?
Ricordava ancora il giorno in cui gli era parso di vederla,
in quel miserabile teatro dove si esibiva, il testo dimenticato, la voce
tremante, le orecchie assordate dall’alcool che non riuscivano a sentire le
basse parole dell’attrice che recitava con lui.
Era apparsa, in quel momento in cui lui aveva toccato il
fondo, in mezzo agli schiamazzi e agli insulti che lo circondavano. Per un
istante non aveva potuto muoversi né pensare a respirare e poi, all’improvviso,
la sua volontà aveva preso il sopravvento e lui era stato capace di ridare
valore a quel testo maltrattato. Era tornato sé stesso e il pubblico l’aveva
capito. Il baccano si era fermato e la folla si era messa ad ascoltare le sue
parole, senza accordare più nessuna attenzione all’indegno scenario, alla
vecchia donna che era supposta essere la sua compagna o ai costumi
inappropriati.
Non appena aveva finito di declamare la sua parte, quella platea
così rozza aveva cominciato ad applaudire e lui si era chinato in un
ringraziamento silenzioso.
E quando aveva alzato gli occhi per cercarla, lei,
visione o realtà che fosse, era sparita.
L’effetto della sua presenza, però, era rimasto e lo
aveva spronato a guardare che cos’era diventato. Un attore scadente, ma
soprattutto un uomo miserabile, incapace di perseguire i propri sogni, semplice
ombra di quel padre che tanto aveva criticato.
Allora, in quel momento, l’immagine dolce di Susanna,
bussando appena, era entrata nel suo cuore scotendolo piano. E lui si era
ricordato di come, quando l’aveva informata della sua partenza, non avesse
cercato di fermarlo, ma l’avesse semplicemente seguito con gli occhi
augurandogli buona fortuna. All’inizio aveva pensato che fosse un modo di
suscitare la sua compassione, ma poi, poi aveva capito che non c’era niente di
malevolo nel suo sguardo, niente di sbagliato. Solo una luce d’amore nuova, un
po’ triste, diversa da quella che gli aveva mostrato quando ancora recitavano
insieme. Più matura, cresciuta all’improvviso.
Si era accorto allora che anche lei stava soffrendo e che
tutto quel dolore, forse, sarebbe stato più sopportabile se affrontato assieme.
Così, era tornato.
Lei non gli aveva fatto domande, si era limitata, come
quando se n’era andato, a regalargli uno dei suoi mesti sorrisi a cui si era
visto rispondere sinceramente.
La sua nuova vita era iniziata in quel momento: aveva
reintegrato la compagnia teatrale Stradford, riconquistando con facilità, quasi
come se la sua scomparsa fosse stata soltanto un’abile mossa pubblicitaria,
pubblico e critica, e, dopo qualche mese, aveva chiesto a Susanna di sposarlo.
No, non era lei, non sarebbe mai stata lei, e
mai avrebbe potuto amarla allo stesso modo, lo sapevano entrambi, ma si era
instaurato tra loro un affetto tranquillo che gli aveva donato una sorta di
placida serenità. Vivevano in un equilibrio fragile, ma poggiante sulle basi
della considerazione e dell’onestà e non su amare illusioni.
Eppure era andato via di nuovo, consapevole di ferirla.
Ogniqualvolta nella loro vita entrava un frammento di lei,
per quanto piccolo e insignificante, lui si chiudeva in una stanza per giorni
interi, uscendo solo per andare al lavoro, e Susanna, paziente, aspettava il
consueto ritorno alla normalità. Pochi giorni prima, però, aveva completamente
perso la testa. Quelle poche righe lo avevano spinto a entrare nel primo bar e
a bere fino a perdere anche l’ultimo barlume di ragione che gli restava.
Quello che aveva fatto dopo, preferiva non ricordarlo.
Delle grida di festa lo smossero dallo stato di apatia in
cui era caduto. Un ghigno di simpatia gli apparve sul volto aristocratico nel
vedere l’accoglienza calorosa che le stavano riservando i bambini
dell’orfanotrofio, strepitando e abbracciandola come una sorella più grande,
oggetto di affetto e rispetto, orgoglio e devozione. Dall’interno illuminato
emersero anche due figure dall’aria famigliare, teneramente unite in un
abbraccio. La più bassa delle due si lanciò verso di lei, che l’accolse
a braccia aperte e la strinse con chiara tenerezza, l’altra si avvicinò con più
calma e si limitò a scompigliarle gentilmente i capelli. I nomi e i volti dei
due si fecero chiari nella sua mente e si ritrovò a ringraziare Dio per quegli
amici preziosi che le aveva lasciato.
Si ricordava di quando lei gli aveva raccontato la
travagliata storia di profonda amicizia che fin da bambina l’aveva legata
proprio a quella Annie, un tempo timida e impacciata, che ora la stava
trascinando all’interno.
Quando fu certo che fuori non fosse rimasto nessuno, uscì
dal suo nascondiglio, avvicinandosi alle finestre illuminate. Voleva vederla un
istante più da vicino, senza essere scorto da nessuno, senza dover nascondere
nessuna delle emozioni che si disegnavano sul suo volto.
Voleva osservarla in ogni particolare, contare le
lentiggini sottolineate dal sole, seguire il disegno dei suoi riccioli
capricciosi.
Voleva avere un nuovo ricordo da sovrapporre a quello della
loro bruciante separazione, su quelle maledette scale che non era più riuscito
a percorrere senza aggrapparsi al corrimano.
***
La tavola apparecchiata e le risate sdentate dei più
piccoli sembravano il riflesso dei dieci splendidi anni che aveva trascorso
alla Casa di Pony. Quella dolce quotidianità che le era tanto costato
abbandonare e che non era mai riuscita a trovare in nessun altro posto. Quando
ancora era piccola, immaginava che la sua famiglia sarebbe stata così, aperta e
accogliente, ricca dello stesso amore che le era stato trasmesso, poi,
crescendo, aveva pensato di poter realizzare quel desiderio lontano accanto a lui.
Ma questo non era accaduto.
Scacciò quel pensiero, cercando di far propria l’ignara
allegria dei bambini, tutti intenti a consumare il loro pasto e ad impedire al
silenzio di riempire la stanza. La serata passò tranquillamente, scandita dai
bisogni dei piccoli ospiti. Una volta terminata la cena e riordinata l’esigua
stanza affollata, questi furono lavati e messi a letto.
Lei insistette un attimo per restare ad augurare loro la
buonanotte.
Rimboccò i lenzuoli colorati e lasciò sulla fronte di
ognuno un bacio affettuoso, poi, intimando loro bonariamente di dormire
immediatamente senza chiacchiere, si richiuse la porta alle spalle. Dovette
riaprirla due volte, fintamente accigliata, prima di poter tornare in sala.
In assenza dei bambini l’aria si era notevolmente
appesantita. Cercò di ignorare i volti tesi dei presenti e gli occhi turchini
di Annie gia umidi di lacrime. Non guardò nemmeno il volto torvo di Archie, in
piedi vicino al camino; semplicemente si sedette su una sedia e rimase in
silenzio, incapace di trovare le parole giuste per render loro più accettabile
la sua decisione. Poteva comprendere la paura e la tristezza che li animava ed
era cosciente che lei stessa si sarebbe comportata in quel modo, al loro posto.
Non avrebbe mai potuto accettare serenamente la partenza della sua piccola
Annie o di Archie verso quel continente di morte.
Ma lei, come aveva spiegato anche ad Albert, era
un’infermiera. E quello era il suo dovere.
Prese un profondo respiro.
- Ho pensato…ho pensato a tutti gli esseri cari che ho
amato e perso brutalmente, come se ogni persona, ogni cosa che avvicino dovesse
essere allontanata da me. Come se la sorte non si stancasse mai di prendermi in
giro in qualsiasi momento e di mettermi alla prova…
- Candy…
- No Annie, ti prego…non riuscirei a finire di parlare
davanti alle tue lacrime. Una parte di me non desidera altro che stare con voi
e con tutte le persone a cui voglio bene, ma l’altra…l’altra mi spinge a
compiere un dovere al quale non posso sottrarmi…Come dicevo…ho perso tante
persone care…se posso fare qualcosa per impedire questa sofferenza ad altra
gente…
- Questo è un altro dei tuoi stupidi colpi di testa! Vuoi
la nostra benedizione per far tacere la coscienza? Dietro al tuo buonismo c’è
solo egoismo, Candy! Guarda cosa stai facendo alle persone che dici di amare!
Alla nostra sofferenza non pensi?
- Non è un colpo di testa, come lo chiami tu…qualche anno
fa, quando frequentavo ancora la scuola per diventare infermiera, ho seguito un
corso speciale per prestare assistenza sanitaria sul campo di battaglia. Allora
la guerra sembrava così lontana, vi ricordate? Eppure ci ha raggiunti lo stesso
e si è portata via Stear.
- Ma è proprio per questo! Abbiamo gia perso lui…
- Sai forse chi avrebbe potuto salvarlo, Archie?
Un’infermiera.
- Può partire qualcun’altra, non servi tu.
- Non potrei mai sacrificare nessuno per la mia serenità!
Come puoi anche solo pensare che riuscirei a vivere sapendo di aver condannato
un’altra persona a…
- A cosa? Morire? E questo che vai a fare, in Europa ?
No, non andava a morire, si disse.
Andava a cercare di recuperare almeno in parte il controllo
perduto della sua esistenza. Andava, perché sperava di poter ritrovare se
stessa tra quelle desolanti macerie.
Andava per offrire al maggior numero di uomini la vita, non
perché il suo nome fosse aggiunto a quello dei deceduti sul campo. Sentiva di
dover cercare una nuova strada da percorrere, come molti anni prima, a Londra,
quando aveva abbandonato il mondo delle signorine per bene che non faceva per
lei. Sospirò, raschiando con le unghie il fondo della sua calma, per evitare
che il nervosismo accumulato nelle ultime settimane prendesse il sopravvento.
- Tornerò sana e salva, ve lo prometto. Datemi la vostra
fiducia, ancora una volta, vi prego.
- Oh bambina mia, pregheremo perchè Dio ti accompagni fino
in Europa e ti protegga nelle prove che ti aspettano. Il nostro cuore di mamme
si stringe all’idea di saperti in pericolo, ma sappi che siamo orgogliose di
te.
- Suor Maria ha ragione. E ricordati, Candy, di non perdere
mai le qualità che porti nel cuore, perchè una donna infermiera cosciente, istruita e pietosa è doppiamente donna.
- Ve lo prometto, Miss Pony. Io…sapevo di poter contare sul
vostro appoggio. Vi ringrazio per essere sempre state così buone e gentili con me
e credetemi, so che la mia partenza vi causerà molte preoccupazioni,
semplicemente sento che è una scelta giusta.
Abbracciò le due donne, permettendosi di restare un lungo
attimo stretta tra le loro braccia morbide e confortanti, coccolata dai battiti
tranquilli dei loro cuori debordanti d’amore.
Si staccò solo quando sentì un singhiozzo trattenuto
scappare dalle labbra di Annie. La sua amica d’infanzia, seduta sul divano, si
muoveva avanti e indietro, stringendo la gonna dell’elegante vestito tra le mani.
Grosse lacrime le segnavano le guance pallide prima di andare a morire sui suoi
piccoli pugni serrati. Sembrava tornata la sua sorellina di un tempo, sempre
bisognosa di protezione, spaventata da ogni cosa, cercante riparo presso di
lei.
Le si sedette accanto, dondolandola piano in un abbraccio
gentile.
- Annie, devi essere forte, mi senti? Qui c’è bisogno di
te, ora che io vado via. Non piangere, Annie. Nessuno ci può separare, ricordi?
Ci siamo sempre ritrovate, nonostante tutto. Sarà così anche sta volta.
Andiamo, hai tutti gli occhi rossi, asciugati un po’ quelle lacrime. Quando
torno voglio una data, hai capito?
- Una…data?
- Per il vostro matrimonio, no? Ovviamente sarò la
damigella d’onore, non è vero?
- Oh, Candy…ma certo, certo che lo sarai!
Scoppiarono a ridere insieme, tenendosi ancora le mani.
Le asciugò le lacrime con il suo fazzoletto e fece per
rimetterselo in tasca, quando, all’improvviso cambiò idea e glielo poggiò in
grembo. Annie sorrise ancora stordita da quel pianto inarrestabile, guardando
le sue iniziali di un tenero color pastello, ricamate sul pezzetto di stoffa.
Estrasse a sua volta una pezzuola bianca dal vestito e gliela tese, quasi a
risaldare quel antico legame.
Abbassò gli occhi un istante per asciugarsi le ultime lacrime,
chiedendosi se avrebbe fatto la sua stessa scelta, qualora, molti anni prima, i
Brighton non avessero adottato lei.
Non ebbe il tempo di darsi una risposta, perchè lei
aveva gia ripreso a parlare.
- Archie…sai che non potrei mai volere la vostra sofferenza.
Ti ricordi quel giorno passato nella piccola casetta sull’albero? Dicesti che
se un giorno l’America fosse entrata in guerra anche tu saresti andato a
combattere, per difendere il nostro paese e per riportare la pace. Bhe è quello
che voglio fare anche io…solo non con le armi, ma con cure e medicine…
Se Archie avesse risposto, lei non lo avrebbe sentito
perchè quando alzò gli occhi perse ogni capacità.
- Terence…
Si coprì il volto con le mani.
Gli altri, preoccupati, si alzarono e le si avvicinarono,
ma lei inizialmente non se ne accorse e poi, liberato il bel viso e chiusi e
riaperti gli occhi più volte, li respinse e corse fuori, travolgendo una sedia
e spalancando la porta senza curarsi del rumore che faceva.
Gli corse incontro, senza riuscire a pensare a nulla e si
gettò tra le sue braccia aperte. Lui la strinse con tale slancio da sollevarla
da terra e farla girare in aria, come era successo solo nei suoi sogni. Le
lacrime che qualche ora prima era riuscita a trattenere, si ribellarono in un
singhiozzo disperato, mentre affondava il volto nel suo petto, dopo essere
stata nuovamente appoggiata a terra.
Lui premette quel corpo, minuto come ricordava, contro il
suo, travolto da un’emozione che lo obbligò a chiudere gli occhi. Sentiva il
suo pianto contro il suo cuore e non poteva fare altro che continuare a
stringerla in quel abbraccio che aveva il gusto piacevole della libertà.
Mormorò il suo nome contro il suo orecchio, abbassando il volto fino a
respirare tra i suoi capelli. Il suo profumo di rose lo invase, più pungente
ancora di quello che lo avvolgeva quando camminava nel suo roseto,
ravvivandogli la memoria. Dovette trattenersi per non andare a cercare le sue
labbra, frementi contro la stessa camicia di seta cui si stringevano le sue
piccole mani.
Una lacrima apparve sul suo volto, incerta. Per un istante
vacillò accanto alla sua palpebra abbassata, poi spiccò un salto, scivolando
sulla guancia, oltre la cortina delle sue ciocche ribelli, tracciando un solco
bagnato fino al collo. Alla prima se ne unì un’altra, illuminata dalla luce di
quella notte stellata, che accennò un tratto leggero simile al previo,
ugualmente muto, ma sulla gota opposta.
Dopo un istante dall’ineffabile durata, lei si staccò
piano, tremante ancora, senza osare alzare lo sguardo.
Volle fare qualche passo indietro, per mettere un po’ di
distanza tra loro, ma non appena il contatto con le sue braccia venne
meno, la sua testa cominciò a girare ed ebbe bisogno del pronto sostegno delle sue
mani, per non cadere rovinosamente sull’erba bagnata dall’umidità della sera.
Cercò di riprendere fiato e di riorganizzare i pensieri, ma
il suo tocco all’altezza della vita, continuava ad annebbiarle la mente. Sentì
le sue dita sollevarle il mento con delicatezza insolitamente impacciata e si
accorse del suo tentativo di sorridere sardonicamente, quasi a volerla prendere
in giro per quella sua debolezza, in modo da alleggerire l’atmosfera.
Poi, le loro iridi turbate si incontrarono, smeraldi negli
abissi del mare, incatenandosi, e né l’uno, né l’altra, seppe più distinguere
le proprie emozioni da quelle che leggeva nello sguardo altrui.
Li osservavano in silenzio, sulla soglia, dolorosamente
inteneriti da quel incontro così inaspettato. Le due donne più anziane, tanto
quanto Annie, non poterono nascondere la sofferenza così esplicitamente dipinta
sui loro volti. La disperazione della stretta e dello sguardo di cui si erano
viste inappropriate testimoni, l’avevano capito subito, non era altro che il
riflesso di quello che quei due cuori erranti portavano nascosto dentro di
loro.
L’allegria di Candy in tutti quegli anni era stata dunque
solo una maschera costruita con impensabile maestria, per non causare la loro
preoccupazione?
Un barlume di comprensione li attraversò, ripensando alla
decisione che ancora avevano difficoltà ad accettare, e che sarebbe dovuta
essere l’unica preoccupazione della serata. Era evidente che ormai ce n’era una
molto più importante.
***
Miss Pony e Suor Maria avevano insistito perché tutti
andassero immediatamente a riposare, rimandando qualsiasi conversazione
all’indomani, e lo avevano pregato di fermarsi lì per la notte, assicurandogli
che non recava loro alcun fastidio. Malgrado non fosse per niente incline a
dormire e piuttosto ripugnante all’idea di separarsi da lei, seppur per poche
ore, si era visto costretto a piegare il capo di fronte all’irremovibile
autorità delle due donne. Aveva notato che lei non gli aveva più concesso uno
sguardo da quando si erano divisi per rientrare e sentiva la necessità di
portarla in un luogo isolato in cui avrebbero potuto parlare. Era per questo
che, dopo una notte insonne, non appena aveva percepito le prime luci dell’alba
entrare nella grande camerata che condivideva con Archie e i bambini, si era
alzato e, avendo cura di non svegliare nessuno, si era diretto verso la sua
stanza, che sapeva essere quella in fondo allo stretto corridoio.
Aperta la porta, gli bastò un’occhiata per notare che c’era
solo Annie a dormire nel piccolo letto. La parte destra, infatti, era vuota e
solo il cuscino lievemente sformato testimoniava che era stata occupata durante
la notte appena trascorsa. Accigliato, richiuse silenziosamente la porta,
tenendo sott’occhio fino alla fine il sonno placido della ragazza bruna.
Girandosi, sussultò trovandosela davanti, gia vestita di un essenziale abito
bianco di cotone leggero. Le sorrise e si lasciò scappare uno sbuffo esasperato
davanti alla sua aria accusatrice.
Uscirono nell’aria fresca del mattino e si fermarono un
attimo a contemplare i raggi ancora assonnati del sole, sfocati nella
nebbiolina tipica dell’aurora, appoggiati allo steccato. Davanti a loro il
sentiero sterrato e, spostata lateralmente, la collina gemella a quella che li
aveva ospitati ai tempi di Londra. La stessa collina che quel lontano inverno
li aveva accolti entrambi, piegandosi silenziosamente innanzi ai loro solitari
pensieri.
- Passavo di qui e mi sono chiesto come stavi.
- Avrei potuto non esserci.
- Lo so.
- Ma sei venuto lo stesso.
- Si, sono venuto lo stesso.
Lasciò parlare qualche minuto di silenzio, completamente
riempita dalla sua presenza. Il sangue che scorreva bruciante lungo le vene
andò ad arrossirle le guance nivee.
- Ti va di venire in un posto con me? Mi piacerebbe fartelo
vedere.
Verrei ovunque con te. – Certo.
Gli disse di aspettarla un attimo e corse in casa. Si
sentiva d’un tratto euforica come quel giorno che aveva organizzato il pic-nic
di compleanno con Annie. Preso un cestino, lo riempì velocemente con una
tovaglia e i tramezzini che stava preparando quando aveva sentito che si era
svegliato. Aggiunse la torta di pesche che la sera precedente non erano
riusciti a terminare, immaginando con divertimento il volto contrariato di
Archie, e la bottiglia di vino segreta che Miss Pony custodiva sempre allo
stesso posto. Poi scarabocchiò velocemente due righe tranquillizzanti, per
evitare di preoccupare qualcuno a causa della sua, loro, assenza.
Quando tornò fuori aveva sul viso l’aria furba e spensierata
di una bambina. A lui si strinse il cuore pensando che quella felicità appena
ritrovata sarebbe durata troppo poco per entrambi, breve fuoco d’artificio in
una notte buia, ma riuscì a mascherare i suoi sentimenti in tempo, in modo da
non farle sospettare nulla. La seguì divertendosi a guardarla ammirare il
paesaggio come se non ne conoscesse perfettamente a memoria ogni particolare.
Camminarono per un po’, in assenza di rumori che non fossero lo scricchiolio
dei sassolini sotto le loro scarpe, lungo il sentiero, poi lei gli fece cenno
di girare ed immergersi nel bosco.
Più andavano avanti, più gli alberi si facevano numerosi;
lui iniziò ad avere qualche difficoltà a seguirla in mezzo a quel intrigo di
rami e fronde, ma decise di non dire nulla. La guardava muoversi con la stessa
abilità di sempre, incurante del vestito piuttosto delicato. Quando si fermò
d’un tratto, rischiò di sbattere contro la sua schiena. Appoggiò le mani sulle
sue spalle, raddrizzandosi e rimase senza fiato.
Erano sulla cima di una bassa collinetta che degradava
dolcemente verso valle, dove si stendeva un arcobaleno di fiori che arrivava
quasi fino alla sponda del lago Michigan che si allargava a perdita d’occhio,
coperta da una finissima sabbiolina bianca. Il sole, ormai quasi del tutto
sorto, esaltava i colori delle corolle e faceva letteralmente risplendere le
acque placide tenuemente colorate d’azzurro, riflesso di un cielo immacolato.
- Guarda Candy, è il più antico colore della terra, la
tonalità del cielo e dell’acqua…
La brezza dolce passando mi ha riportato il tranquillo
mormorio di Terence, poi è scomparsa. Siamo rimasti a guardare per un lungo
momento nella stessa direzione senza osare poggiare gli occhi l’uno sull’altra.
Forse non ha pronunciato alcuna parola. Eppure le sue lemme sono venute in
sogno alle mie orecchie, come la musica della sua voce serena.
Guarda Candy, è il più antico colore della terra, la tonalità del cielo e dell’acqua…(*)
La vide assorta pensare a ciò che le aveva detto. Non era
stato più che un bisbiglio, ma sapeva che lei l’avrebbe sentito.
Riportò la sua attenzione sul paesaggio; l’unica volta che
aveva visto qualcosa di vagamente simile era un’estate, in Scozia, sempre con
lei.
Sembrava quasi che la natura, in sua presenza, desse il meglio
di sé.
Lo guardò di sottecchi, beandosi di quel attimo di intimità
che stavano condividendo e fu sinceramente compiaciuta dalla meraviglia che
leggeva nei suoi occhi scuri, ma non poté trattenere oltre la sua vivace
allegria.
- Ci tieni ai tuoi pantaloni?
- Cosa?
Senza rispondergli, si sedette sul bordo del pendio,
assicurò il vestito tra le gambe ed il cestino sulle ginocchia, poi,
guardandolo furbescamente, si lasciò scivolare giù gridando e sparì in mezzo ai
fiori, sollevando un po’ di petali profumati. Lui si sporse un poco cercando di
capire dove sarebbe riemersa. Aspettò, ma il manto sbocciato rimase immobile.
Lungi da farsi spaventare, osservò con più attenzione il prato fino a scorgere
delle corolle scosse da un leggero tremore. Era certo che lei là sotto stesse
cercando di trattenere una risata. Imitandola, si lasciò scivolare giù in modo
da ritrovarsi a pochi passi da lei e, trovatola, le si gettò addossò,
catturandola tra le sue braccia. Lei finalmente scoppiò a ridere,
divincolandosi e, uscita allo scoperto, gettando la testa all’indietro,
illuminata dalla luce del sole. I suoi capelli sciolti le ricoprivano la
schiena e parevano preziosi gioielli aurei. Troppo turbato da quella visione
ancor più bella del paesaggio circostante, l’attirò a se, ricadendo
all’indietro tra gli steli. Lei smise di ridere e si sollevò sulle braccia per
poterlo guardare negli occhi.
Le ci volle tutta la forza di cui disponeva per
allontanarsi da lui, tentata com’era dalle sue labbra.
Si raddrizzarono entrambi.
-Avevo conservato di questi luoghi addormentati sotto la
neve, un ricordo di riposo e serenità, e li ritrovo, al risveglio di questo
lungo sonno, splendenti di luci e di colori singolari, unici e armoniosi, come
un dipinto incantatore. Capisco oramai l’insaziabile bisogno che hai di venire
a rigenerarti qui. Avete così tanto in comune tu e questo paesaggio…
- Durante tutta la nostra vita, abbiamo cercato di
condividere ciò che avevamo di più prezioso, ma ci siamo sempre mancati, come
quel pomeriggio quando ho corso fino a perdere il fiato verso la collina di
Pony, trovandovi solo le orme dei tuoi passi, gia sbiadite dal vento e dalla
neve. Ho gridato, ti ho chiamato per diversi minuti, ma mi ha risposto solo
l’eco della mia voce, soffocato dalle raffiche sempre più violente. La tazza di
the che avevi bevuto era ancora tiepida. Qualche secondo, qualche minuto
sarebbe bastato per…per…è per questo che ti ho voluto portare qui oggi. Era
un’occasione che non poteva essere sprecata.
- Lo so. Te l’ho gia detto una volta, ma è un pensiero così
ricorrente quando sono con te: vorrei che il tempo rimanesse sospeso in eterno
proprio a quest’istante.
Lei non disse niente, ma da come lo guardò lui capì che
condivideva lo stesso desiderio. Lo amava ancora, dunque? Nonostante tutti gli
anni che erano passati? Eppure prima si era scostata da lui… Per cosa aveva
deciso di sacrificarsi? Sentì il bisogno di porle quella domanda che lo
angosciava da giorni. Tremante, estrasse dalla tasca un pezzo di carta in cui
spiccava la sua foto in bianco e nero. Quando notò la curiosità sul suo volto
glielo tese, rigido. La vide strabuzzare gli occhi dalla sorpresa, poi
abbassare il capo.
- Come l’hai avuto?
- Ci sono i giornali anche a New-York. Perché vuoi
partire?
- È per questo che sei qui? Per farmi cambiare idea?
- No. Si.
- Perchè sei venuto, allora? Che cosa ci fai qui?
- Mi ci hai portato tu. Perché vuoi partire?
- Sai cosa intendo.
- Perché vuoi partire?
Si girò a guardarlo, colpita dal tono disperatamente serio che
aveva usato. La leggera vena ironica dietro alla quale si era schermato fino a
quel momento aveva ceduto, rivelando nella sua voce timore e tormento. Osservò
la sua fronte aggrottata e il volto contratto. Dietro l’aria cupa, le parve di
scorgere il bambino angosciato e spaventato che era stato anni prima, ai tempi
della riconciliazione con la madre. Gli prese la mano stringendogliela piano
con l’intenzione di rasserenarlo, ma lui non rilassò un muscolo. Sospirò e gli
si avvicinò con lentezza, senza alzarsi, fino ad appoggiare la guancia sulla
sua spalla.
Lui scivolò dalle sue dita per circondarla con un braccio e
stringerla contro di sé.
- Sono un’infermiera. È il mio dovere partire, lo sai.
- Non parti per questo.
- Si, invece. Sarei dovuta andare già quattro anni fa,
quando è scoppiata la guerra, ma mi hanno preceduta. Ho esitato un attimo di
troppo… Avevo appena rivisto te.
- Saresti potuta partire in qualsiasi momento dopo, ma non
lo hai fatto. Non solo, non ne hai mai fatto parola con nessuno. Perché vuoi
partire adesso?
- Non capisco dove sia il problema, sai? Me l’anno proposto
e ho accettato. L’avrei fatto anche l’anno scorso se ne avessi avuta
l’occasione, o l’anno prima, ma sta di fatto che me lo hanno proposto adesso.
- Eppure non avevi nessuna intenzione di farlo quando sei
venuta da me, a Brodway.
- Cosa vuoi insinuare?! Certo che non ne avevo
l’intenzione, pensavo che sarei rimasta con te.
- Io non insinuo niente, faccio accuse precise. Tu stai
scappando. Imponi tanto agli altri di affrontare il loro destino e poi sei la
prima a tirarti indietro!
- Non ti permetto di parlarmi in questo modo! Non puoi
ritornare, così, all’improvviso, e pretendere di decidere della mia vita!
Nessuno, mi hai capita?, nessuno ha questo diritto!
Si era alzata, scostandolo brutalmente e ora lo guardava
dall’alto, i piccoli pugni serrati di rabbia. Nonostante la profonda collera
che animava anche lui, non poté trattenersi dal provare un moto d’orgoglio di
fronte alla sua tempra e alla sua determinazione. Era diventata la donna fiera
e ribelle, che aveva immaginato, si disse. Si era quasi dimenticato di come
potessero essere gradevoli le dispute con lei. Era pungente e sapeva colpire
profondamente, certo, ma era sempre stata l’unica con cui poteva bisticciare,
apprezzando il sentimento che questo procurava.
Si calmò un poco.
- D’accordo, d’accordo…eppure ieri stavi piangendo quando
sei arrivata alla Casa di Pony…
Lei si arrestò, come se lui l’avesse colpita. L’aveva vista
mentre cercava di trattenere quelle lacrime tanto amare che il suo
ricordo faceva sempre sorgere.
L’aveva vista.
Era già lì, vicino a lei.
E non se n’era accorta.
Avrebbe potuto passare con lui qualche istante di più e
invece non si era manifestato.
Avrebbe potuto tornare indietro e stroncare quel incontro
prima che potesse avvenire. Non sapeva più cosa pensare. Rivederlo, sapere che
l’aveva osservata per ore di nascosto, litigare con lui, quando pensava che i
loro cammini non si sarebbero mai più incrociati era davvero troppo per lei.
Sentiva che i suoi pensieri si erano gia allontanati troppo dalla coerenza.
Si mise a gridare, ignorando quanto le aveva detto.
- Perché sei venuto qui, perché?
- Non si risponde ad una domanda con un’altra domanda.
- Perché sei venuto qui?!
- Come puoi chiedermelo? Pensavo fosse chiaro…
- Come potrebbe essere chiaro?! Sei sposato, pensi che non
lo sappia! Sei sposato e sei tenuto a stare con lei. Hai giurato il tuo amore
per lei davanti a Dio e davanti agli uomini! I giornali non hanno
parlato d’altro per giorni! In prima pagina c’eravate tu e questa maledetta
guerra. E non so cosa facesse più male.
-Sei tu che te ne sei andata da New-York! Ti sei tirata
indietro e te ne sei andata e mi hai detto di occuparmi di lei! E quando l’ho
lasciata sei venuta in quel teatro ambulante a spronarmi a fare il mio dovere!
E io l’ho fatto, maledizione! Ti ho ascoltata! Pensi che non abbia sofferto
ogni giorno della mia miserabile vita? Ma non ho mai smesso di preoccuparmi
per te, hai capito? Non ho mai smesso ed è per questo che sono venuto. Per
questo e perché ti amo come allora.
- Non hai alcuna ragione di preoccuparti.
La sua voce si era ammorbidita davanti alla sua confessione appassionata e sofferta. Non si era adirata per le accuse che le aveva malignamente rivolto. Nello stesso momento in cui lui si era girato di schiena respirando affannosamente, come se parlare gli fosse costato troppo, lei aveva spazzato via la collera.
Soffriva più di lei, si disse, ed era la seconda volta che
se ne rendeva conto in quegli anni.
Soffriva più di lei, quando lei non voleva altro che la sua
felicità. Era per quello che se n’era andata.
Si sentì improvvisamente colpevole.
- Nessuna ragione, eh? Figuriamoci. Vai solo a fare la
crocerossina. Vai solo in guerra!
Il suo tono era rimasto sarcastico e provocatorio. Non era
mai stato capace di calmarsi con la sua stessa rapidità. Cercò con cura le
parole da usare nella sua risposta, attenta a non farlo di nuovo arrabbiare.
Uno stormo di uccelli, non avrebbe saputo dire di quale specie, planò sfiorando
la superficie del lago.
Prese un gran respiro.
- Vedi quegli uccelli? Fra qualche mese, anche meno,
torneranno a sud, da dove sono venuti. E tu farai la stessa cosa, sai benissimo
che è così. È la tua vita, il tuo destino. Tornerai da lei. Avrai una
famiglia di cui occuparti. Ma io…cerca di capire, ti prego! Io non avrò mai
niente di tutto questo…
- Potresti crearti una famiglia anche tu, Candy…anche se
vederti con un altro mi ucciderebbe.
Rabbrividì sentendo il suo nome uscire dalle sue labbra,
per la prima volta dalla sera precedente. Poche volte da quando si conoscevano
si era rivolto a lei in quel modo, divertito com’era a crearle numerosi nomignoli.
Lo guardò e soccombé.
La verità le scappò dalle labbra prima che potesse
accorgersene.
- Credi davvero che potrei sposare qualcun altro?
Lui si rigirò a guardarla, il cuore in gola. Scosso da
quella rivelazione inaspettata, trapelante disarmante rassegnazione, non poté
fare altro che maledire quel destino che si era sempre accanito contro di loro.
Stringendo i denti d’amarezza, la voce gli uscì incerta.
- Se tu sapessi quanto mi dispiace, Candy. Avrei desiderato
così tanto che le cose fossero andate diversamente tra di noi. Se l’avessi
saputo, quand’eravamo ancora in Inghilterra, ti avrei portata via dal collegio.
Saremmo potuti partire insieme! Se fossi stato meno stupido!
- Eravamo così giovani allora…dei bambini, protetti da mura
invalicabili che chiudevano fuori il resto del mondo. Se fossi venuta via con
te…chi può dire come sarebbero andate le cose? Magari non saresti riuscito a
diventare attore…lo avresti rimpianto tutta la vita…
- Credi sia meglio rimpiangere te? Niente, mi senti?,
niente, nemmeno il teatro, può superare in intensità quello che provo per te.
Non puoi capire quanto mi sei preziosa! Quando sono sul palco, è per te che
recito; le mie parole sono destinate a te, anche se non le puoi sentire. Oh mio
Dio…non ho fatto altro che commettere errori e scaricare le colpe agli altri!
Sui miei genitori, su…Susanna, sono arrivato ad accusare te!
- Non parlare così. Ti stai torturando per niente, in nome
di un passato contro il quale non possiamo fare nulla…
- No, mi sto torturando in nome di un sentimento più grande
di me. Mi sto torturando perché quando ti guardo, Candy, quando ti guardo vedo
ciò che ho sempre desiderato e che non potrò mai avere.
Le accarezzò piano la guancia, portando via le lacrime dai
suoi begli occhi color smeraldo arrossiti da un pieno troppo grande di
sofferenza. Con l’altro braccio, le cinse la vita e la accostò a sé, cullandola
piano. I suoi singhiozzi diminuirono poco a poco, lasciando spazio ai battiti
del suo cuore, che la ferivano quasi, rimbalzando contro il suo petto e
mescolandosi a quelli rapidi di lui, le cui labbra avevano deviato dalla fronte
alla nuca, sfiorandola con la stessa leggerezza adottata dallo stormo, poco
prima, sulla superficie dell’acqua. Si allontanò animosamente, respingendolo
nuovamente un poco, e cercando di leggere i pensieri che attraversavano quel
viso dai tratti raffinati, in parte coperto dalle sue ribelli ciocche color
cioccolato.
- Candy…
La richiamò teneramente, facendole chiudere gli occhi e accorciando
la distanza che aveva posto tra loro. Non pensò più a respingerlo, lasciò che
l’immagine di Susanna che l’aveva tormentata scivolasse via e che una felicità
intensa l’invadesse. Il contatto dolce, appena accennato delle labbra di
Terence sulle sue risvegliò in lei una sensazione meravigliosamente piacevole,
che credeva aver dimenticato e che si manifestava con sempre più trasporto.
Sentiva il suo profumo rosato solleticarlo e le sue mani che tiravano la
camicia color panna. Le sue labbra quasi troppo sottili rincorrevano le sue,
ben troppo lente a tirarsi indietro, in un bacio umido di naturalezza, lento e
leggero. Era un toccarsi intimo di due anime nascoste, un calore che si
propagava ovunque, fino alle guance e alla nuca, bruciando qualsiasi pensiero.
Si staccarono un istante, respirando con urgenza, e si osservarono, cercando
negli occhi dell’altro un solo motivo per fermarsi, ma, annebbiati da quel
amore così a lungo celato, non furono capaci di trovarne nessuno.
Le loro labbra si unirono di nuovo, instaurando un dialogo
muto in una lingua che era nota solo a loro. Le sue braccia gli circondarono il
collo, permettendo alle dita di giocare con le lunghe ciocche brune, e lui si
sentì libero di attirarla a sé con ancora più vigore. Era un gioco nuovo che da
lieve diventava preda di un desiderio sempre più intenso e acquisiva vivacità.
Nuovi singhiozzi nacquero sulle sue labbra, streganti e voluttuosi, ben diversi
dal pianto e assai meno controllabili. I loro gesti, a seguito, divennero più
audaci ed esigenti, richiamanti un possesso verso il quale i loro corpi e le
loro anime si abbandonarono, cedendo alla quasi legittima tentazione. Sentiva
la pelle infiammarsi contro colui che amava, sciogliendosi al piacere e alle
sensazioni provocanti che la stavano attirando verso la voragine di una
comunione fisica contro la quale il poco controllo che le restava soccombeva
lentamente.
Dovette racimolare tutta la forza che le restava e
inalvearla in uno sforzo sovraumano, incosciente gesto di salvezza per la sua
anima, per riuscire a respingerlo, ancora una volta. Le mani di lui lasciarono
sfuggire il fiocco bianco che le cingeva la vita, colte alla sprovvista da quel
gesto acerbo. La fissò intensamente, colpevole e dispiaciuto, respirando con
affanno, poi si arrese e abbassò il volto, indietreggiando.
- Perdonami. L’hai mai…?
- Non ce n’è bisogno. Avrei voluto…sarebbe piaciuto anche a
me… No.
Rialzò il capo e le indirizzò un sorriso triste ma
complice, che solo lei poteva capire e che gli rinviò, identico, messaggio di
quel amore di cui entrambi conoscevano l’impossibilità.
Lei si risedette tra i fiori che avevano ospitato le loro
parole e i loro gesti, a osservare il lago.
Lui, come era solito fare in Scozia, le si lasciò cadere
accanto e, a sua grande sorpresa, tirò fuori dalla tasca una vecchia armonica
grigia. Portatasela alle labbra, incominciò a suonare l’unico motivetto che
avesse mai imparato.
Non si guardarono, mentre la musica invadeva le loro
orecchie, facendo tacere ogni altro suono.
Non si guardarono, ma seppero di stare piangendo entrambi,
invasi ancora e ancora da ricordi sempre più celeri.
Rimasero così per ore, la pelle baciata dal sole arrossata,
l’uno accanto all’altra. Le lacrime, inesauribili, continuavano a percorrere
loro le gote, morendo ora tra le labbra, ora sul collo o rischiando in un salto
fino a terra, accompagnate da quella melodia. Sentivano di morire
lentamente dentro, nonostante la gioia della prossimità e furono obbligati, dovettero,
lacerare quel momento con qualche parola.
Qualsiasi parola.
A costo di litigare di nuovo.
Perché sapevano di poter fronteggiare la rabbia ma
non…non…il resto.
- Permettimi di partire.
- Hai gia deciso, no?
- Non voglio che tu ti tormenti per questo… Capiscimi,
Terence, ti prego…Morirò se resterò qui.
- Io… metti a repentaglio la tua vita, maledizione!
- Lo so, ma ne potrò salvare tante altre.
- Potresti morire ancor prima di aver preso in mano una
benda.
- È un rischio che sono disposta a correre.
- Ma io no! Io non sono pronto a…a vivere sapendo che
non ci sei più.
- Oh Terence…dicevo così per dire! Resterò viva.
- Come se potessi decidere tu!
- Resterò viva per te. Te lo prometto. Mi salverò per te.
Davanti alla sua aria risoluta lui non poté far altro che
abbassare il capo, sconfitto. Lei sorrise a quel gesto, il cuore riempito dalla
tenera preoccupazione che le aveva riservato e si premurò di scacciare lontano
da lui l’amarezza che, lo sapeva, l’aveva vestito, ancora turbata dall’estrema
tribolazione che continuava a trasudare.
Esibì il suo miglior sorriso, arricciando il naso
lentigginoso.
- Che ne diresti di un certo paté in crosta alla zucca?
Lui la guardò, sorpreso dal brusco cambiamento di tono. Poi
vide il suo sorriso esagerato che lo supplicava di non farsi vincere dallo
sconforto e si riassestò. L’irresistibile attrazione di una presa in girò gli
distese i lineamenti. Inarcò le sopraciglia con fare scettico, memore del
contenuto della gerla che lei gli aveva rapidamente mostrato per strada.
- Paté in crosta alla zucca? Ma se in quel cestino c’è
appena qualche tramezzino dall’aspetto bislacco e un resto di crostata di
pesche!
Lei gonfiò le guance soffiando, l’aria ridicolamente imbronciata,
e lui non poté trattenersi dal premerle per sgonfiarle nuovamente.(**) Di nuovo
la risata argentina e fresca di lei si unì a quella vibrante di lui, avvolta da
quella quotidianità splendidamente ripetitiva che entrambi avevano sognato
poter condividere per tutta la vita. Non avevano neppure finito di sistemare i
piatti sulla tovaglia a quadretti che lei aveva steso sull’erba, che il cielo
cominciò ad annuvolarsi, guastando il tempo splendido di cui avevano
approfittato fino a quel momento.
Il vento si alzò, segno inequivocabile di un temporale
estivo, allungando con forza gli steli dei fiori fino al suolo. Rimasero un
istante a guardare quei gambi, nei rari intervalli in cui le raffiche li
liberavano dalla loro ferrea torchiatura, rialzarsi delicatamente e tornare
alla loro posizione immaginaria, seppur orfani di qualche petalo. Le acque del
lago iniziarono ad ingrossarsi, colpendo con sempre più asprezza la fine sabbia
bianca del litorale. Le gocce di pioggia li sorpresero ancora intendi a piegare
velocemente la tovaglia, per poterla riporre nella piccola gerla. Si guardarono
intorno, alla ricerca di un luogo ove potersi riparare, ma i loro occhi non
incontrarono altro, oltre la distesa sterminata di fiori, che alberi ed
arbusti. Un lampo squarciò il cielo, ormai interamente annerito, richiamando
dopo di se il brontolio di un tuono che parve dare il via all’acquazzone.
Non ebbero il tempo di raggiungere la macchia che si
ritrovarono gia completamente grondanti.
I suoi riccioli biondi si erano scuriti assumendo una
tonalità simile allo zucchero bruciato e si erano sciolti in onde più morbide e
docili appiccicate alla sua schiena e il fiocco si era afflosciato facendo il
verso al vestito leggero che le ricadeva mollemente addosso, reso trasparente
dall’acqua. Non portava nessun corpetto, se ne accorse stupefatto, ma solo una
leggera sottoveste che, bianca anch’essa, non opponeva nessuna resistenza allo
sguardo. Lui l’ammirò a metà tra l’incantato e il divertito. Incrociò le
braccia davanti al petto, sempre alla merce della pioggia, appena schermata
dalle fronde, e tremò all’intensità che leggeva nei suoi occhi. Anche lui era
completamente bagnato. I capelli sembravano più scuri contro la sua camicia di
seta pallida. I lineamenti del suo corpo le parvero più adulti, ora che li
poteva scorgere attraverso il tessuto.
Una mano sottile andò a sfiorargli piano con le dita
affusolate il petto e le spalle, quasi ammaliata.
- Quando cesserà di piovere ripartirai…
C’era una nota nuova nella sua voce, che raramente aveva
avuto modo di ascoltare in passato. Era il suono basso dello smarrimento,
impastato ad un pianto interiore che riusciva solo ad immaginare.
- Non capisco se la tua è una domanda o un’affermazione.
- Fa qualche differenza?
- No.
Le gocce continuavano ad infrangersi contro la loro pelle
calda e assolata, facendoli intirizzire. Lei si strinse più forte con le
braccia, cercando di intiepidirsi almeno un poco. Sentì lui che gli posava la
larga tovaglia sulle spalle, come fosse un mantello, e la circondava con le sue
braccia, in un gesto spontaneamente premuroso. Era come il riflesso delle
piccole attenzioni che le aveva sempre riservato fin dal principio, quando lei
ancora piangeva lacrime di lutto.
Per Anthony.
Quel lontano primo amore bambino, da fiaba, che l’aveva
fatto tremendamente ingelosire. Che l’aveva spinto a trascinarla in quella
corsa infernale.
Era riuscito a dissolverlo alla fine. Ma a quale prezzo?
Un fantasma era il nulla in confronto alla vivida, reale
presenza che si era insinuata tra loro, troppo fragile e troppo innamorata per
essere combattuta.
- La ami?
Fu colto così alla sprovvista che non ebbe il tempo di
mascherare il suo disorientamento. Abbassò il volto per incontrare i suoi
occhi. Il suo mento grazioso era alzato e gli sfiorava il petto.
- Come si ama una sorella…
Annuì rimanendo in silenzio. Una domanda aliena le fece
capolino nella testa. Lui se ne accorse e la incalzò con lo sguardo, ma lei
scosse la testa con veemenza, rifiutando l’invito.
-Non servirebbe a niente. Qualunque risposta farebbe male.
-Non te l’ho mai potuto dire!
La voce gli uscì come uno spasmo angoscioso e tremendamente
amaro, amalgamata a impulsi contradditori. Alla rabbia. All’amarezza.
All’affetto. Al tormento. Ancora una volta lei venne a placare il suo animo.
Entrambi ignorarono l’incurante affermazione che per un
momento non aveva precluso una possibilità inesistente.
-Me lo hai sempre dimostrato. L’ho sempre saputo.
Lui passò le dita tra i suoi capelli, tirandoli piano e
allontanandoli dal bel viso schizzato di lentiggini. Le sue labbra si
abbassarono a baciarle una a una, per poi risalire a sfiorarle gli occhi e la
fronte.
La tovaglia, ormai completamente bagnata, scivolò ai loro
piedi, macchiandosi di fango.
La pioggia non sembrava voler diminuire.
Lei sorrise sotto il suo tocco. Gli si avvicinò, falsamente
maliziosa, ma prima che potesse sfiorarlo agitò il naso e starnutì. Lui non
poté trattenere una risata.
-Sarà meglio rientrare…prenderai un accidenti…
Alzò gli occhi verso di lui, smarrita. Aveva pronunciato la
frase con semplicità, quasi come se avesse dimenticato che “rientrare”
significava “dirsi addio”. Abbassò gli occhi e raccolse il drappo,
appoggiandolo sopra il cestino; poi s’incamminò verso il piccolo pendio. Lei lo
rincorse e intrecciò le sue dita con le sue.
Si aiutarono nella salita, resa meno agevole dal terreno
scivoloso, senza dire una parola. Quando arrivarono sul sentiero, il silenzio
era diventato teso e grave. Si voltarono uno verso l’altra senza avere il
coraggio di cercarsi con gli occhi, di nuovo incuranti di essere completamente
bagnati. Lui allungò l’altra mano, facendole fare un passo indietro.
- È meglio che vada…
- Ti accompagno…
- No…non ne vale la pena, la stazione è a due passi…
- Forse è l’ultima volta che ci vediamo…
Lei annuì, un groppo in gola troppo serrato per articolare
alcuna parola.
- Ma volevo dirti…volevo dirti che l’amore più bello è
quello che risveglia l’anima. Questo è quello che tu mi hai dato e che io avrei
voluto darti per sempre.(***)
- Il destino aveva in serbo altri progetti per te. Torna da
lei. Lo sai che Romeo e Giulietta devono stare insieme per sempre…
- …finché morte non li separi, lo so. Questa maledizione mi perseguita. Ma voglio che tu ti ricordi sempre una cosa: la mia Giulietta è quella che ha ballato con me sulla collinetta sperduta nel parco del Collegio S. Paul di Londra. E così sarà per tutta la vita.
- Terence…
- Non dimenticare la promessa che mi hai fatto, Candy. Salvati da questa maledetta guerra. Non potrei mai vivere in un mondo privo di te.
Lo disse con dolcezza, poi, seppur malvolentieri, si
distanziò da lei, stringendo un’ultima volta la sua mano minuta e fragile, come
se volesse conservarne per sempre l’impronta. Si girò e si allontanò sotto la
pioggia.
E lei si senti perduta.
Gli concesse un’ultima occhiata, poi, coraggiosamente,
circondata solo dal vuoto dell’assenza e dalla pioggia amara, si apprestò a
rientrare alla Casa di Pony. Camminava piano, facendo fatica a mettere un piede
dopo l’altro, il capo chino. Il cestino si era fatto pesante e dovette fermarsi
un istante per riprendere fiato e scacciare le lacrime che le annebbiavano la
vista.
Fu in quel momento che un fulmine squarciò il cielo,
illuminando spettrale il paesaggio, e si abbatté con violenza su un tronco
massiccio.
L’albero rimase immobile per il lasso di un battito di
ciglia, avvolto dal rumore della pioggia. E all’improvviso il suono sinistro di
legno spezzato. Lui alzò lo sguardo e vide la chioma agitarsi ancora un
momento, in stallo, e poi piegarsi verso di lui.
Ebbe appena il tempo di muovere un passo, gli occhi
incollati all’albero, prima di essere travolto dalla caduta. Fu spinto a terra
dalla forza immane della pianta e strinse i denti al doloroso impatto con il
terreno ghiaioso del sentiero. Sentì i sassolini conficcarsi nella carne
bagnata e la camicia strapparsi. Poi, solo un peso opprimente che gli scurì la
vista.
Quando lei si girò, preoccupata dal fragore che aveva
udito, rimase agghiacciata. Non poté muovere un passo scorgendo il suo
corpo imprigionato sotto il fusto. Sembrò che il mondo intero, i prati, il
viottolo, le montagne lontane, si stesse disfacendo attorno a lei. Il cestino
cadde a terra, aprendosi. La bottiglia di vino, imbevuta, rotolò fuori,
rompendosi.
Il pietrame si tinse di rosso.
- Terence!
Si mosse con passi incerti, ma sempre più rapidi verso di
lui. Cadde, inciampando in una radice, ma non si curò dei pezzettini di legno
che avevano graffiato le sue ginocchia. Lo raggiunse, gettandoglisi accanto e
chiamandolo ripetutamente, sempre più disperata. Lo vide aprire piano gli
occhi.
L’oceano delle sue iridi incontrò le sue lacrime.
-Candy…
-Shh…Non parlare…non affaticarti.
-Candy…
Respirava a fatica, boccheggiando, oppresso dal peso
insostenibile che lo schiacciava. Vide il suo torace che faticava a
contrastarlo. Il suo viso si contraeva in smorfie di dolore ogni volta che
cercava un po’ di aria ed era sempre più esangue.
- Vado a cercare aiuto!
- No!
La voce gli uscì chiara e forte. Dove aveva trovato la
forza per gridare? Una smorfia più marcata le fece comprendere quanto gli era
costato pronunciare quel monosillabo.
- No…ti prego…
- Devo andare a cercare aiuto, capisci? Bisogna spostare
questo maledetto tronco.
Parlava in modo concitato, preda di un’agitazione
crescente. Alzatasi cercò di spingere via la pianta. Ma la sua forza era ben
esigua. Piangendo si lasciò cadere nuovamente a terra. Dio ti prego, non mi
importa se morrò di solitudine, se dovrò passare tutta la vita lontana da lui!
Salvalo, ti supplico, salvalo e non ti chiederò nient’altro!
- Sei un’infermiera…sai che non servirebbe a niente.
- Terence…ti supplico…
- Vieni più vicina…voglio vedere solo te…
Consapevole della sua impotenza, gli si avvicinò
proteggendolo dalla pioggia. I riccioli bagnati caddero su di lui,
disordinatamente, ancora vagamente impregnati del suo profumo.
Di nuovo i loro occhi si incatenarono. Senza parlare
lasciarono scorrere in quel oceano di primavera gli attimi che avevano
condiviso e che erano stati loro cari quanto crudeli in quegli anni. I loro
ricordi.
- Chi siete? Cosa volete?
- Scusate volevo parlarvi…ma avevate l’aria così triste…
- Triste? Io, triste? Dove l’avete visto, signorina? Questa
è proprio buona!
- Cosa c’è di così divertente?
- Perché siete qui fuori quando c’è un ballo nel salone?
- Non mi piacciono molto le feste ecco tutto…
- Scommetto che non riuscite a trovare un cavaliere.
- Non è vero!
- Non arrabbiatevi, signorina Tuttelentiggini!
- Spiacente, ma mi piacciono molto le mie lentiggini. Mi
sto anche chiedendo come fare per averne di più. Sono sicura che siete solo
geloso perché non ne avete, ecco!
- Allora dovrei anche essere geloso del vostro naso!
- Che cos’ha il mio naso?!
Gli strinse la mano tra le sue, appoggiandola sul cotone
sgualcito del suo vestito.
- Perché mi guardi così? Mi vuoi fare una dichiarazione
d’amore signorina Tuttelentiggini? Se vuoi possiamo andare alle scuderie! Lì
non ci disturberà nessuno!
- Ma sei impazzito?
- Mi rassicuri…non mi piacciono le ragazze con le
lentiggini! Ci vediamo!
Le sue dita tremanti scesero a sentirgli il polso. Il suo
cuore batteva così lentamente. Sembrava sussurrasse.
- Cosa ci fai qui?
- Sono scappata dalla cella di meditazione.
- Ti ci avevano rinchiusa?
- Ho detto alla Madre Superiora che è una testa di legno.
- Testa di legno?! Neanche io sarei arrivato a tanto!
Lui la richiamò. Lei riapri gli occhi. La pioggia si
mischiava alle sue lacrime, mentre lo guardava, ferita nell’anima quanto lui
nel corpo.
- Oh, oh, Tarzan si trasforma in Giulietta!
- Terence! Terence mi hai guardata mentre mi cambiavo?!
- Ti ho vista, ma vedere non vuol dire guardare.
- …
- È una bellissima musica…permette, signorina?
Racimolando tutta la sua forza, mosse la mano facendola scivolare dalle sue dita e le sfiorò le guance, accarezzando di nuovo le sue efelidi. Poi si perse tra i suoi capelli, attorcigliandoli attorno alle dita. Il suo respiro era tanto lieve da passare inosservato.
- Ferma il cavallo, Terence!
- Non devi far altro che gridare! Che piangere! Forse
Anthony ritornerà!
- Ti prego, ferma questo cavallo!
- Chiama Anthony! Chiamalo quanto vuoi…è morto, non
ritornerà più! Non può tornare. Dimentica! Devi Dimenticarlo! Apri gli occhi,
Candy, aprili e guardati intorno!
Continuò verso la fronte, gli occhi, il piccolo naso. Le accarezzò le labbra e il mento. Stava per riabbassare il braccio, stremato, ma lei glielo sorresse e appoggiò la gota sul suo palmo. La sua mano era ancora tiepida.
- Sanguini!
- Oh, non è niente…
- Tieni, prendi questo…
Lo sentì contrarsi e rantolare. Si chinò a sfiorare le sue labbra e respirò piano dentro di lui. Gli scappò un piccolo faticoso sorriso.
- È commovente. Vedo che pensi a me anche quando sei da
sola. Non sapevo che il tuo cuore fosse gia pieno di me!
- Dimmi, Terence...
- Cosa?
- Non ti starai facendo delle strane idee perché mi hai
vista pronunciare il tuo nome? Sai avrei potuto pronunciarlo per stregarti.
- Stregarmi…capisco…vuoi stregarmi perché mi innamori di
te!
Si stava per ritrarre, ma i suoi occhi la trattennero. Si
chinò di nuovo su di lui, lasciandosi fuggire un singhiozzo.
- Non sapevo ti piacesse il teatro, non l’avrei mai detto…
- Ti spiego…quando sarai vecchia sarai sempre Candy…
- Si, certo, e allora?
- E io quando avrò i capelli bianchi sarò sempre Terence
Grandchester.
- Si, ma continuo a non capire…
- Nella vita non puoi essere altro che quello che sei…ma a
teatro…lì puoi essere chi vuoi, capisci?
Il suo cuore batteva forte, quasi a voler dar coraggio a quello sempre più timido di lui. Si chinò piano a baciargli la parte sinistra del petto, l’unica libera dal tronco.
- Mi hai fatto paura…
- Anche tu…non sapevo ci fossero delle scimmie in questa
foresta…
Un altro lampo straziò il cielo. Alla sua luce lui apparve
come uno spettro.
- Sei soltanto un delinquente!
- Non permetto a nessuno di parlarmi così, hai capito?
- Nemmeno io!
- Se ti ho baciata è perché nutro per te dei sentimenti
sinceri!
- Non ti credo! Non si sa mai come bisogna comportarsi con
te!
Mosse le labbra per parlare. Non uscì altro che un suono
rauco, appena udibile. Lei scosse la testa, rassicurante. La immaginò con i
suoi malati. Non poté trattenere un moto di orgoglio.
- Terence?
- Sono qui…
- Perché mi hai dato appuntamento così tardi?
- Ma sei tu che mi hai chiesto di venire qua!
Gli pose un dito sulle labbra, impedendogli di aprir bocca. Vedeva il blu dei suoi occhi cedere ad una pena troppo grande. Si sforzò di abbozzargli un sorriso. Non ebbe bisogno di parlare per ringraziarla.
“Ho deciso di lasciare la scuola…ovunque andrò pregherò perché
tu sia felice.”.
Chiuse gli occhi un istante per racimolare le poche forze
che gli erano rimaste. Lei tremò, preoccupata.
“ …mi sto preparando. Se otterrò la parte ti inviterò a Brodway. Allora arrangiati per essere libera quel giorno. A te mio angelo dalla divisa bianca. Terence”
Prese un penoso respiro e sollevo piano la testa. Lei andò
rapidamente a sostenergli la nuca.
- Sei diventato un uomo adesso. Vedo che sei un po’
cambiato…
- E tu…
- Si, lo so, non sono cresciuta affatto…
- Non serve usare quel tono…!
- È che con te devo sempre essere sulla difensiva…
- …
- Avevo così voglia di rivederti…
- Anch’io…
Le sue labbra articolarono piano un debole sussurro contro
il suo orecchio. Le sue iridi brillarono facendo il verso alle sue parole. Ti
amo.
- Ho cancellato il nome di Susanna e ho messo il mio…sul manifesto posso benissimo fare la parte di Giulietta!
Il capo ritornò pesantemente a terra, producendo un piccolo schizzo. Le sue palpebre traballarono, mentre lottava per tenerle sollevate. Gli accarezzò la guancia. Anch’io.
- Ti prego…promettimi che ti sforzerai di essere felice…
- Promettimelo anche tu…
Lo vide sospirare, il viso un po’ più sereno. La guardò ancora una volta intensamente, poi lasciò che le palpebre si chiudessero come un sipario sulla sua vista. Lei lo scosse, ma lui non riuscì a concederle ancora un saluto.
Nessun applauso fece il verso alla sua uscita di scena.
Un gemito acuto le uscì dalle labbra. I singhiozzi si fecero violenti e le scossero tutto l’esile corpo. I suoi occhi rossi furono nuovamente accecati dalle lacrime. Lanciò un grido di disperazione, grave e riempito di dolore e si abbatté con rabbia contro il suolo, i piccoli pugni che colpivano il sentiero. Ma dopo un istante si sentì semplicemente svuotata e sfinita. Continuando a piangere seppellì il volto nell’incavo del suo collo e rimase lì, con lui, avvolta dal diluvio incessante e dal nulla.
***
Si preannunciava ancora un pomeriggio rovente e afoso. Delle nuvole bianche erano apparse a imbrigliare i raggi allegri del sole, ma l’aria non si era affatto alleggerita, anzi, il manto che copriva il cielo pareva opprimere ancora di più. Nessun vento muoveva le foglie dei grandi alberi secolari che ornavano la proprietà. Lei, comodamente seduta su una poltroncina di vimini, il bastone appoggiato accanto a sé, si passò sulla fronte un fazzoletto ricamato, senza staccare gli occhi dal volume che stava leggendo. Era la sua opera teatrale preferita, nonostante tutto. Romeo e Giulietta. Artefice della sua rovina e della sua felicità, contemporaneamente. L’aveva privata dei sogni, delle passioni, quasi della vita, ma le aveva dato lui. Una volta scherzando gli aveva detto che se un giorno avessero avuto una figlia l’avrebbe chiamata proprio come quel personaggio che tanto sentiva vicino.
Preferì non ricordare l’espressione che gli si era dipinta sul viso, allora.
Sospirò, facendo trasparire tutta la sua preoccupata tristezza e tutto il suo dispiacere. Ogni volta che sentiva la porta aprirsi sobbalzava attendendosi di incontrare i suoi occhi oltremare, ma lui non era ancora tornato. Sperava vivamente che il suo animo si fosse placato dopo il fuoco che l’aveva arso poche sere prima.
Aveva avuto sue notizie, ne era certa. Solo lei avrebbe potuto animare fino a quel punto il suo cuore. Lei, che ricordava ancora con l’abito strappato e la scarpa in mano, il piede scalzo graffiato dall’asfalto. Lei che aveva avuto il coraggio di salutarla e andarsene, senza voltarsi indietro.
Se fosse stata come lei, si disse, avrebbe avuto la forza di lasciarlo libero.
Sentì l’andatura particolare della cameriera avvicinarsi e, all’improvviso, fu colta da una fitta al petto, all’altezza del cuore, forte da mozzarle il respiro. Chiuse gli occhi piegandosi su sé stessa. Il libro cadde a terra, aperto, mentre lei premeva con forza le mani sul punto dolente.
Quando la donna arrivò, preoccupata dal rumore che aveva sentito; e si premurò ad aiutarla, tutto era gia passato. Restava solo un disagio fastidioso a scorrerle nelle vene.
- Signora, si sente bene?
Sorrise per non causare ulteriori allarmismi e annuì, riappoggiandosi allo schienale. Respirò profondamente un paio di volte, recuperando il fiato.
- Vuole che chiami qualcuno?
Scosse il capo, ringraziandola. La donna le servì il the e raccolse il testo da terra appoggiandolo sul basso tavolino. Sembrò riflettere un momento, fermandosi, poi estrasse qualcosa dalla tasca e glielo porse, incerta.
- Signora, questa mattina facendo le pulizie hanno trovato questo nella vostra stanza…
Susanna si voltò a guardare l’oggetto che brillava sul palmo grinzoso della mano. Era un cerchietto di oro giallo, semplice e lineare, abbastanza largo. Tremante, lo prese tra le dita e lesse con sgomento il proprio nome inciso all’interno, vicino alla data della sua più grande felicità.
Si sentì nuovamente mancare.
Aveva tolto la fede, il simbolo del loro fragile legame. Aveva tolto la fede che lei gli aveva messo al dito, giurandogli amore e fedeltà. Gli occhi turchini le si macchiarono di lacrime, sotto lo sguardo stupito della cameriera. Si coprì il volto tra le mani, piangendo sempre più sonoramente e chiedendo di essere lasciata sola.
Se qualcuno fosse passato in quel momento, non avrebbe visto altro che un esile corpo scosso dal dolore, sull’orlo di un vasto giardino, avvolto dal forte profumo di una miriade di rose.
***
C’è un detto che circola tra gli
scenari dei teatri. Una legge non scritta che sibila dietro il sipario e danza tra
la polvere illuminata dai riflettori. Aleggia nelle pagine consunte e
sottolineate dei copioni e raggiunge anche il retroscena, nei suoi più
reconditi angoli. È una sentenza che assume quasi il carattere oscuro di
maledizione e scandisce inesorabile l’esistenza degli attori che osano recitare
quello spettacolo, ripetendo nel silenzio teso del pubblico quelle
parole. Educano il loro cuore a vibrare sotto la corda di falsi sentimenti per
ottenere la fama e l’onore e non si rendono conto di sfidare lo stesso destino.
Perché l’attore e l’attrice che recitano Romeo e Giulietta sono destinati
a unirsi in matrimonio e a restare insieme per sempre. Finché morte non li
separi.
Dopo, non è più tempo di
maledizioni.
***
Come Romeo e Giulietta, insieme fino a che morte non li separi. E' un'ottima storia; più che per la trama, per l'evidente sentimento che ha caratterizzato la sua stesura, sentimento che è possibile leggere in ogni aggettivo, nelle frasi non dette ma scritte, nella trama tragica ma così adatta alla storia a cui si ispira. Storia pregna delle atmosfere delle storie d'amore d'un tempo, dove il dovere veniva prima dell'amore, dove rinunciare ad essere personalmente, egoisticamente e meravigliosamente felici era una scelta concepibile. Erika
NdA. Credits:
I personaggi di “Candy Candy” appartengono a © Toei Animation | © Kyoko Mizuki e Yumiko Igarashi - 1978
(*) Libera traduzione del poema n. 1 di Kyoko Mizuki.
(**) Libera
traduzione di una parte del poema n. 5 di Kyoko Mizuki.
(***) Battuta
tratta dal film “The Notebook” ispirato al romanzo di Nicholas Sparks.
I dialoghi in
italico della penultima scena, rimanendo simili a quelli originali, sono stati
liberamente modificati.
Ringraziamenti:
Ringrazio la mia
beta, che non è altri che la mia sorella maggiore, Eli, per l’appoggio e i
consigli.
Un grazie speciale
anche a feliesan che mi ha permesso di rivedere tutti gli episodi dell’anime
nella lingua in cui li amo di più: il francese.
Ringraziamenti
sinceri anche ai miei che mi hanno dato una brillante ispirazione, senza
saperlo!
Un grazie a Erika
per avermi premiata con il secondo posto.
© ChiaraF.//Sally90 - 2007