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Autore: gattapelosa    07/02/2013    5 recensioni
Rachele ha diciassette anni e nessuna voglia di vivere. Ecco perché si è fatta sfracellare da un'auto.
Non è morta, solo in coma. E ora se ne sta lì, a fissare il suo corpo, ascoltando i discorsi di parenti e amici artefici della sua condanna.
Rachele non è sola. In quell'ospedale, altri tre pazienti in coma sono vittime di tentato suicidio.
Il Signor Scarpa ha cinquant'anni e nessun motivo per tirare avanti: divorziato, senza casa, disoccupato, solo.
Valeria ha dodici anni e seri problemi in casa. Vittima di violenza, si è giustiziata da sé.
Infine, Michele ha ventidue anni, ha cercato di farsi fuori imbottigliandosi di farmaci.
Tra di loro sono in grado di vedersi e di parlare, divisi tra il desiderio di porre realmente fine alle proprie esistenze, e quello di tornare indietro.
Genere: Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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                                                          Me e Me




Perché, diciamolo, me la sono proprio cercata. 

Uscire di notte, in uno dei quartieri più malfamati di Padova, barcollante sulle punte di tacchi altissimi, di ritorno dalla discoteca e pure brilla. 

Avrei potuto prestare più attenzione. La strada era grande, trafficata e pure buia.

Avrei potuto pensarci bene, prima di gettarmi. Avrei potuto riflettere sulle conseguenze. Avrei potuto dirmi “non farlo! Non ne vale la pena”.

E invece niente. Perché era meglio così, dicevo, tanto chi se ne frega. Chi se ne frega se muoio. Non importo a nessuno. 

Balle. Ce lo diciamo tutti, almeno una volta, e poi non è un cazzo vero. Ma di notte, in uno dei quartieri più malfamati di Padova, barcollante su tacchi altissimi, di ritorno dalla discoteca e pure brilla, che importanza volete che abbia avuto? Pretendevate pure che ci riflettessi? Pretendevate che pensassi ai miei genitori, agli amici, a tutti quelli che allora, in quel preciso istante, erano per me motivo d’angoscia?

Perché io non volevo morire, ecco la verità. Ma in quel momento pensavo proprio di sì. E ci ho sperato, che mi colpisse. 

Penso che così facendo avrò tolto dieci anni di vita pure all’autista che mi ha messo sotto. L’ho proprio sentito l’urto: dritto dritto al fianco. La mia testa s’è scontrata contro il parabrezza e ho come avuto l’impressione che parte delle mie gambe fossero state sfracellate dagli pneumatici. 

In quel momento sapevo che sarei morta, ma non ho avuto tempo d’avere paura. Caddi a terra preda del dolore più atroce, tutto si fece buio, silenzioso. 

Poi riaprii gli occhi. 

Mi misi a sedere di colpo, spaventata, ansimante. Un momento di stasi dove compresi che, nonostante, tutto, ero ancora viva. Ero ancora io. Mi tirai in piedi, pronta a darmela a gambe, ma vidi l’autista ancora lì, spaventato, farneticare al cellulare, chiedendo immediato soccorso. E allora provai a dirgli “ehi, guarda che sto bene”, ma quello se ne stava sempre lì a parlare e parlare e gridare. 

Mi ci avvicinai, gridando forte — Sto bene! Metti giù quel cellulare. 

Non mi ascoltò affatto. Iniziò a camminare su e giù, su e giù, lungo il marciapiede, attirando l’attenzione di una piccola folla. Per farlo smettere mi misi davanti al suo cammino, braccia aperte e salda sulle gambe. Lui camminò imperterrito nella mia direzione, sembrava non volersi fermare, non volersi…

Mi attraversò. Così, come se nulla fosse, mi passò attraverso e tanti saluti, via per la sua strada. E poi di nuovo, tornando indietro, e via così, e io me ne stavo ferma lì, impalata.

— Oh mio Dio!— gridò qualcuno. Era una donna, appena scesa da un auto di passaggio. Stava fissando la macchina del tipo. Stava fissando un corpo davanti la macchina del tipo.

Io?

Ero io quella lì? Quella distesa ad occhi chiusi sotto l’auto? Quella tutta sanguinante? Io? 

In quel momento accadde qualcosa di strano, una sensazione orrenda: era come se lentamente stessi scomparendo. Non era un passaggio verso qualcos’altro, era proprio la sensazione di star smettendo di esistere. Mi guardai, ero pallida, sempre più pallida, mi stavo allontanando.

— No!— gridai, pregando che qualcuno mi sentisse. — No! Aiutatemi!

In quel momento sentii le sirene dell’ambulanza farsi sempre più vicine. Arrivò neanche dieci secondi dopo, vi scesero tre uomini e una donna. 

— Tiratela fuori, presto!— gridò lei.

I tre uomini mi tirarono via, la donna prese i defibrillatori collegati all’ambulanza. 

— Libera!— gridò uno, e l’altro diede energia. Quel colpo mi diede un impulso di vita: per un istante divenni meno pallida. — Libera!— e ancora e ancora e ancora tutte le volte che ci provarono. 

Mi misero nell’ambulanza e partirono, salii con loro. Alla fine il cuore era ripartito: l’ennesimo “libera” aveva dato i suoi frutti. 

Emisi un sospiro di sollievo assoluto, nel vedere tutte quelle lineette sul monitor susseguirsi in maniera regolare, nel sentire battere il mio cuore, nel sentirmi ancora viva. 

Credevo che da un minuto all’altro mi sarei svegliata, avrei aperto gli occhi e tutto come prima. Non fu così. 





Bacheca della'utrice



Quanto scommette che questa storia non se la filerà nessuno? Non spicca certo per originalità, ma avevo una tale voglia di scriverla!
  
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