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Autore: elsie    31/08/2007    1 recensioni
"Potevano salvarsi entrambi, oppure perdersi entrambi. L'unica cosa che rimaneva da fare ora, l'unica cosa che rimaneva da fare era entrare nel fuoco..." Pyro incontra una ragazza al Xavier Institute e insieme dovranno prendere la decisione più importante della loro vita. Basato su X-Men 2. PyroOC
Genere: Romantico, Avventura | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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ItF7

Disclaimer: Pyro e gli X-men non appartengono a me ma a Stan Lee e a Jack Kirby, alla Marvel Comics e alla Twentieth Century Fox, che ha acquistato i diritti per il film. Possiedo invece, dato che l’ho creata io, il personaggio di Meredith St.Clair.

Ecco il nuovo capitolo. E’ piuttosto triste, quindi tenetevi pronti una bella scatola di Kleneex.

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L’Interstate 87 si snodava sotto di loro come un lungo serpente d’asfalto. Ora che avevano lasciato l’area urbana di New York City il traffico era un po’ diminuito, ma cominciava a fare buio e la strada era scivolosa per via del ghiaccio. Ci avrebbero messo almeno un paio d’ore ad arrivare a North Salem.

Rivedere la neve l’aveva stupita. A Phoenix il sole era caldo e la terra asciutta, e lei si era dimenticata dell’esistenza della neve. Si ricordò vagamente che aveva nevicato la notte prima della sua partenza, e in cinque giorni la neve non si scoglie, non nello stato di New York.

Logan spostò la mano destra dal volante all’autoradio, come se volesse accenderla, ma poi sembrò aver cambiato idea.

“Se vuole accendere la radio, per me non c’è problema.” gli disse Meredith. “Non mi dispiacerebbe un po’di musica.”

Logan posò per un istante gli occhi su di lei. “Davvero?”

“Davvero.” confermò Meredith.

Lui accese la radio, e le note di una canzone pop risuonarono nell’abitacolo. Logan si affrettò a cambiare stazione. Era a disagio. Quando l’aveva vista apparire dal terminal degli arrivi nazionali le era andato incontro e l’aveva abbracciata goffamente. Le aveva chiesto se aveva fame e quando Meredith aveva risposto di no aveva portato per lei la valigia fino alla macchina.

Dopo vari tentativi, la radio si sintonizzò su una vecchia canzone di Bruce Springsteen.

…Now on the street tonight the lights grow dim
The walls of my room are closing in.
There's a war outside still raging
you say it ain't ours anymore to win…

Evidentemente Logan decise che era la più adatta per l’occasione perché smise di cambiare stazione. Forse pensava che si sarebbe offesa se lui avesse lasciato la radio sintonizzata su una canzone troppo allegra. Dopotutto, la stava riportando a casa dal funerale di sua sorella.

Meredith si infilò la mano nella tasca di jeans e il bordo della foto che teneva ripiegata lì le ferì leggermente le dita.

Evie.

L’aveva rivista nel locale interrato delle pompe funebri, il giorno stesso in cui era arrivata a Phoenix. Hannah non era scesa con lei, non ce la faceva a guardare sua figlia. Non di nuovo.

Logan mise la freccia e sorpassò un grosso tir nero. Le ombre degli alberi sul ciglio dell’autostrada si erano fatte più lunghe. “E’ per via dell’inclinazione con cui la luce colpisce la terra al tramonto, Meredith.” le aveva spiegato suo padre tanto, tanto tempo fa. “Più il sole sparisce dietro l’orizzonte, più le ombre si fanno lunghe.”

Evie era sdraiata su di un lettino di alluminio, solo un lenzuolo a coprire il suo corpo nudo. Era magra, più magra di come se la ricordava, forse per via dei mesi passati in strada. I suoi capelli neri, lunghi e liscissimi, erano pettinati con cura, e quando Meredith si era avvicinata si era accorta che aveva anche un filo di trucco sul viso. Si era chiesta se l’avesse il giorno in cui era morta o se era opera del truccatore delle pompe funebri.

Non l’aveva chiesto. Invece aveva chiesto, con un filo di voce: “Come?”

L’impiegato che era con lei aveva sfogliato nervosamente una cartella. “Ehm... overdose da diazepam. Mi dispiace.”

“Sì.” aveva risposto lei. Era una risposta stupida.

“Se vuole, può rimanere sola con sua sorella.” le aveva offerto l’impiegato.

Improvvisamente Meredith aveva sentito un’ondata di repulsione per quell’ometto che si permetteva di girare intorno ad Evie mentre lei era se ne stava sdraiata nuda.

“Sì.” aveva ripetuto.

L’impiegato aveva detto ancora qualcosa mentre se ne andava, ma Meredith non aveva ascoltato. Evie aveva ancora lo stesso identico viso di quando era piccola, affilato ed innocente, con le labbra sottili e il nasino all’insù e quegli enormi occhi verdi.

Meredith aveva alzato una mano e le aveva accarezzato i capelli. “Evie...” aveva chiamato.

Evie non si era svegliata. Meredith si era ricordata di quando erano piccole, e la domenica mattina fingevano di dormire finché papà e mamma non facevano irruzione nella loro cameretta e cominciavano a far loro il solletico e a riempirle di baci finché le bambine non iniziavano a ridere e a contorcersi, rivelando l’inganno. Forse è per questo che non si sveglia, aveva pensato Meredith. Se papà fosse qui, lui le farebbe il solletico ed Evie comincerebbe a divincolarsi e a ridere come una pazza.

Aveva continuato ad accarezzarle i capelli per molto, molto tempo, finché l’impiegato delle pompe funebri non era tornato a dirle che dovevano chiudere.

I cartelli stradali passavano davanti al suo finestrino come informi macchie di colore. La neve non brillava quasi più alla luce del tramonto. Cominciava a farsi tardi: presto anche gli ultimi raggi di sole si sarebbero spenti, e sarebbe calata la notte.

Logan accese i fari. “C’è un’area di servizio, alla prossima uscita.” le disse. “Se vuoi possiamo fermarci. A scuola ti hanno tenuto in caldo la cena, ma se hai fame subito, o hai bisogno di usare il bagno...” Alla parola “bagno” arrossì.

“Sono a posto, grazie.” rispose Meredith.

“Sicura?”

“Sì, sicura.”

Il giorno del funerale era assolato e ventoso. Un vento caldo che soffiava dal deserto e che portava con sé minuscole particelle di sabbia.

Erano arrivati alla spicciolata, composti e vestiti di nero. Parenti, amici, compagni di scuola, persino qualche vicino. Alcuni avevano riconosciuto Meredith e l’avevano salutata, sorpresi e imbarazzati. Evidentemente si erano dimenticati di lei finché non l’avevano rivista ricomparire, e ora si sentivano in colpa per non essersi aspettati la sua presenza al funerale. In fondo, non era lei Meredith, quella di cui Evie parlava sempre, la sorella lontana e mai dimenticata?

Si era seduta accanto ad Hannah. Non perché lo desiderasse, ma perché era l’unico posto rimasto libero. La gente lo aveva lasciato a lei di proposito: se Meredith era lì, quel posto era suo di diritto. Non che non volesse sedersi accanto ad Hannah. Non provava alcun risentimento per lei, e se ne aveva provato in passato ora non se lo ricordava più. Ma erano due estranee, due persone che per un caso fortuito si ritrovavano a piangere la stessa bara. Hannah seppelliva sua figlia; Meredith sua sorella. Ognuna aveva il proprio dolore.

Il prete parlava e parlava. Qualcuno dei presenti piangeva, altri sembravano fissare un punto lontano, trincerati dietro gli occhiali da sole. Meredith se li era dimenticati e ora li rimpiangeva. Si sentiva esposta, vulnerabile. Pregò che per una volta la sua telepatia rimanesse silente. Non le andava di sentire cosa pensassero quelle persone di sua sorella.

Ad un certo punto si era voltata e circa una decina di metri più indietro aveva visto, seminascosto dalla statua di un angelo, un ragazzo bruno e pallido. I suoi vestiti neri erano malmessi e troppo larghi per lui, e le sue mani sottili stringevano con forza le ali dell’angelo, come se cercasse conforto dai singhiozzi che scuotevano il suo corpo magro. Sembrava devastato.

Il prete aveva parlato ancora a lungo e lei non aveva sentito una sola parola. Si chiese se Evie si sarebbe sentita offesa dal fatto che sua sorella si era distratta al suo funerale. No, non credeva si sarebbe offesa. Guardò la bara di legno scuro, e immaginò il suo minuscolo corpo in quel mare di seta bianca che foderava l’interno.

L’avevano vestita di nero, il suo colore preferito. Indossava una gonna e una maglietta a maniche lunghe, calze a rete e anfibi. Meredith aveva insistito perché la truccassero con l’eyeliner nero e il rossetto viola, e le mettessero tutti i suoi bracciali e i suoi anelli. Lo smalto nero che colorava le unghie di Evie era sbeccato, e Hannah glielo aveva rimesso.

Evie era esattamente come nella foto che lei e Meredith avevano scattato a Times Square quando Evie era venuta a trovarla a New York, un anno prima, l’ultima volta che aveva visto sua sorella viva. Meredith infilò di nuovo la mano in tasca.

Un anno.

Era bastato un anno per trasformare la ragazzina sorridente della foto nel corpo che ora stava chiuso in quella bara.

Hannah le aveva messo tra le mani il suo peluche preferito di quando era piccola e Meredith aveva deposto la videocassetta di “The Nightmare Before Christmas” ai suoi piedi, e perfino allora, mentre componevano il corpo di Evie nella bara, perfino allora Meredith e Hannah erano lontane anni luce l’una dall’altra, pietose del loro reciproco dolore ma incommensurabilmente distanti.

Il prete aveva detto qualcosa a proposito del perdono per tutti i peccatori, e lo sguardo di Meredith era passato dalla bara alla fossa lì accanto, e poi alla piccola lapide di marmo grigio a circa mezzo metro di distanza.
Quella lapide portava il nome di John Barrymore, suo padre. Meredith aveva pensato che metà della sua famiglia era sepolta in quel pezzo di terra, e l’altra metà stava per raggiungerla.

Il prete aveva benedetto la bara e tutti si erano alzati in piedi. Gli operai del cimitero, apparsi da chissà dove, avevano preso la bara e avevano cominciato a calarla nella fossa.

Meredith si era sentita mancare l’aria. Più gli operai lavoravano, più le sembrava di non riuscire a respirare. Sentiva il bisogno di strapparsi via la camicia, di gettarsi per terra e di urlare a pieni polmoni.

“No, no, che fate?” voleva gridare. “Lei è viva, è viva, fatele il solletico e vedrete se non si metterà a ridere... Lasciatela uscire, non riesce a respirare chiusa lì dentro, lasciatela uscire, lei è viva, viva vi dico...”

Ma la sua parte razionale, quella che sapeva che Evie era morta, l’aveva costretta a rimanere immobile e in silenzio, perché lì in quella bara non c’era sua sorella, ma solo il guscio, l’involucro mortale di quella che un tempo era stata Evelyne Barrymore Dovunque fosse ora, Evie non poteva sentire più niente.

Quando la sepoltura era finita la gente si era messa in fila per fare le condoglianze ai parenti. Meredith si era fatta largo tra la folla ed era andata dal ragazzo dell’angelo.

Si chiamava Daniel. Davanti ad un cheseburger e ad un bicchiere di Coca-Cola comprati da Burger King le aveva raccontato degli ultimi mesi di Evie.

Ormai fuori era tutto buio, e Meredith non riusciva più a distinguere nulla al di là della luce proiettata dai fari. C’erano solo poche altre auto in giro, e a parte il ghiaccio viaggiavano senza intoppi. Una Mustang grigia li sorpassò e sparì inghiottita dalla notte. Meredith si chiese chi trasportasse. Immaginò due bambine, una con la carnagione ambrata e gli occhi grigi, l’altra pallida e bruna, che giocavano e ridevano sul sedile posteriore.

Daniel e Evie si erano conosciuti in un alloggio per senzatetto, tutte e due in fuga dalle famiglie che non li capivano, da chi li giudicava dei diversi, dalla gente che li guardava con compassione se andava bene e con disgusto se erano sfortunati. Erano rimasti insieme, due cani bastonati che si facevano compagnia. Tiravano avanti chiedendo l’elemosina e rubando nei supermercati.

Ma Evie continuava a scappare, a scappare. Daniel sapeva che questo non andava bene, perché se scappi senza fermarti mai prima o poi ti cederà il cuore. Aveva cercato con tutto se stesso di proteggere Evie dal male, da tutto ciò che potesse ferirla.

Ma lei non smetteva di scappare, perché non poteva smettere, proprio non poteva, capisci? Evie scappava da se stessa, e per quanto scappasse non riusciva mai a lasciarsi indietro.

E alla fine il suo cuore era scoppiato.

L’avevano trovata riversa su di una panchina, o così gli avevano detto. Lui non era lì. Forse vergognandosi, o forse come ultimo gesto d’amore per il ragazzo che amava, Evie era andata a scrivere il suo ultimo atto dove lui non avrebbe potuto vederla. Era stata la polizia a trovarla, con il flacone di pillole vuoto in una mano e il suo biglietto d’addio scribacchiato su di un tovagliolo nell’altra. Solo quattro parole: “La guerra è finita.”

Ci avevano messo tre settimane ad identificarla. Di adolescenti ne spariscono a migliaia e una mutante suicida non è certo una priorità nazionale. Per tre settimane Evie era rimasta in una cella frigorifera all’obitorio della contea prima che la polizia riuscisse a risalire a sua madre, Hannah Barrymore.

A Meredith sembrava di impazzire se pensava a sua sorella chiusa lì dentro da sola e al freddo per tre fottutissime settimane. Evie, che era così fragile, così dolce, così pura, Evie che era capace di illuminare una stanza con il suo sorriso, come avevano potuto fare una cosa simile a lei, a lei che era così innocente, così ingenua, totalmente incapace di fare del male a qualcuno, come avevano potuto farle una cosa del genere, come...

Era stato solo quando era tornata in albergo che a Meredith era venuto in mente che Evie doveva essere stata sottoposta all’autopsia.

Qualcuno aveva dissacrato il suo corpo, le aveva tagliato via i vestiti e quando giaceva nuda sul tavolo d’acciaio le aveva aperto l’addome dallo sterno all’inguine, squartandola come un animale al macello.

Era corsa in bagno e aveva vomitato anche l’anima.

Logan imboccò l’uscita dell’Interstate e si immise sulla strada provinciale. Meredith lesse il cartello che indicava l’inizio della contea di Westchester. Tra trenta minuti, quaranta al massimo, sarebbero arrivati alla scuola.

Aveva passato al setaccio ogni parola, ogni frase, ogni istante che aveva trascorso con Evie, alla ricerca di un indizio, di un segnale qualsiasi che avrebbe potuto annunciare la sua fine. Avrebbe potuto impedire la morte di sua sorella, prevedere il suo suicidio, se solo avesse prestato un po’ più d’attenzione?

Ci aveva pensato e ripensato, esaminando e riesaminando lettere, conversazioni telefoniche e i giorni e le ore che loro due avevano passato insieme, sia prima del suo allontanamento da Phoenix che dopo. Cercava un gesto, un’intonazione della voce, uno sguardo che preannunciasse il suo darsi volontariamente alla morte.

Ma aveva dovuto essere sincera con se stessa. Quante volte aveva pensato ad Evie, da quando aveva conosciuto Jubilee e gli altri? Le aveva telefonato il giorno che era arrivata alla scuola, d’accordo. Ma quando Hannah le aveva detto che era scappata di casa, quanti tentativi concreti aveva fatto per trovarla? Si era limitata a guardare fuori dalla finestra di tanto in tanto, augurandosi che Evie stesse bene. Se si fosse preoccupata veramente per sua sorella, avrebbe mollato tutto e sarebbe volata a Phoenix a cercarla. Questo avrebbe fatto la vecchia Meredith. Invece lei aveva preferito rimanere al sicuro nella bolla di sapone creata dal professor Xavier, mentre al di fuori, nel mondo reale, gli altri mutanti, compresa sua sorella, lottavano per sopravvivere e spesso soccombevano.

E se Evie, disperata, avesse tentato di contattare sua sorella perché l’aiutasse? L’immagine di Evie che con la boccetta di Valium nella tasca del cappotto si sentiva rispondere dai Jackson: “E’ andata via.” le spezzava il cuore. Doveva sapere, così aveva chiamato i Jackson.

Era stata Faye a rispondere.

“Pronto?”

“Sono Meredith St.Clair.”

“Ah.”

“Non ho chiamato per litigare. Voglio solo sapere se qualcuno mi ha cercata.”

“Io... Come?”

“Dopo che me ne sono andata, qualcuno ha telefonato, o scritto, chiedendo di me? In particolare una ragazza, che si è presentata come Evie, o Evelyne, Barrymore?”

“Senti, adesso io devo proprio...”

“Non azzardarti a riattaccare! Allora, mia sorella ha scritto? Telefonato? Sì o no?”

“No... Nessuno ti ha cercata qui da quando sei andata via.”

“Ne sei sicura?”

“Sì.”

Attraversarono il centro abitato di North Salem. La strada principale era un tripudio di luci e di abeti decorati con nastri variopinti. Si fermarono ad un semaforo e Meredith vide un’enorme Babbo Natale che la salutava dalla cima di un lampione.

“Hanno fatto le cose in grande, quest’anno.” disse Logan.

“Davvero?”

“Sì. Gli scorsi anni era un mortorio. A quanto ho sentito, hanno preparato anche una festa con i fuochi d’artificio per Capodanno.”

“Sembra carino.”

“Già.”

Si erano presto lasciati alle spalle le luci e i festoni di North Salem ed erano arrivati nella zona periferica dove sorgeva la villa, chiamata Salem Center. Meredith non aveva mai capito il perché. Se a North Salem c’erano i negozi e i bar, a Salem Center c’era solo una strada, Graymalkin Lane, costeggiata da enormi foreste di abeti secolari e da prati erbosi. Solo ogni tanto il profilo di una casa si stagliava, antico e minaccioso, tra gli alberi.

Mancavano poche centinaia di metri ormai. Alla radio finì una canzone che Meredith non aveva ascoltato, e ne iniziò un’altra.

Come on, come on
Put your hands into the fire
Explain, explain
As I turn and meet the power
This time, this time
Turning white and senses dire
Pull up, pull up
From one extreme to another...

Eccolo, il numero 1407 di Graymalkin Lane. Il cancello si aprì automaticamente appena l’auto gli arrivò a pochi metri di distanza e Logan svoltò nel viale. Indifferente al fatto che ormai erano arrivati e che la radio sarebbe stata spenta prima che la canzone potesse terminare, cominciò il ritornello.

From the summer to the spring
From the mountain to the air
From Samaritan to sin
And it's waiting on the end…

Il fatto che Evie non l’avesse cercata non cambiava proprio nulla, ovviamente, né in un senso, né nell’altro. Era solo un piccolo, minuscolo dettaglio perso nel quadro generale, e il quadro generale era uno solo: Evie se n’era andata, se n’era andata per sempre e ora lei, Meredith Grace St.Clair, era più sola di quanto non fosse mai stata.

Logan fermò la macchina davanti all’entrata e spense la radio, interrompendo a metà la canzone. Meredith scese dall’auto e camminò cauta nella neve. Guardò il profilo scuro e austero della villa, a malapena visibile nella semioscurità. Le luci provenienti dalle sue finestre si riflettevano sul cortile immacolato, e ogni tanto una sagoma passava velocemente davanti ai vetri, creando un gioco di luci e ombre sul manto candido della neve. Meredith mise la mano nella tasca dei jeans per assicurarsi che Evie fosse ancora lì.

Logan tirò fuori la valigia dal portabagagli. “Lasci a me, professore.” disse Meredith. “Non è pesante.”

Lui sorrise. “Scherzi? Sono un gentiluomo, io.” Meredith si sforzò di restituirgli il sorriso.

Erano sugli scalini d’ingresso quando il portone si aprì e apparve Jean Grey, l’ultima persona al mondo che Meredith avrebbe voluto vedere in quel momento. Poco più dietro di lei, Bobby, Jubilee e Marie la salutarono con la mano.

“Bentornata, Meredith.” disse la Grey.

“Grazie dottoressa.” rispose. Poco più in là, seminascosto nell’ombra che le scale gettavano, John la fissava con le mani nelle tasche dei jeans.

“Ti abbiamo tenuto da parte la cena.” continuò la dottoressa.

“Grazie, ma io...” Cercò una scusa attendibile. “ho già mangiato sull’aereo.”

La dottoressa Grey la guardò. “Come preferisci.” disse. “Se più tardi ti venisse fame, il vassoio con la tua cena è in sala mensa. Buonanotte, Meredith. Ragazzi...” Detto questo, si incamminò verso il corridoio che portava agli alloggi dei professori.

“Buonanotte.” li salutò Logan, seguendola.

“Grazie di tutto, professore.” disse Meredith.

Lui le sorrise e le accarezzò i capelli. “Non dirlo neanche, piccolina.” le rispose con tenerezza. Per la prima volta in quella giornata Meredith sentì un’ondata di calore per lui.

Appena Logan si fu voltato, Jubilee le saltò al collo e le diede un bacio sulla guancia.

“Come stai, Meredith?” le chiese stringendola più che poteva.

Fu contenta quando Bobby la liberò dalla stretta di Jubilee e l’abbracciò, evitandole di mentire.

“Ci sei mancata.” le disse. Meredith vide che John era sgusciato via dal suo nascondiglio ed era sparito.

Marie fece per abbracciarla, ma poi si trattenne e si limitò ad accarezzarle i capelli come aveva fatto Logan. “Sei sicura di non voler mangiare?” chiese.

“Sì.” rispose Meredith. “Sono molto stanca, preferisco andare in camera.”

“Vengo con...” esordì Jubilee, ma Marie le strinse il braccio. Portava dei guanti bianchi lunghi fino al gomito.

“D’accordo. Se hai bisogno di noi, saremo in sala comune.” le disse con il suo tono gentile.

Dopo aver rifiutato l’offerta di Bobby di portarle la valigia, Meredith si diresse verso la sua stanza.

Quando arrivò, la trovò stranamente pulita e ordinata. Probabilmente Jubilee aveva pensato di farle piacere sistemando la camera, e sebbene la sua premura nel farle questa piccola cortesia la commuovesse, la rattristò trovare la stanza così diversa. Significava che ciò che una parte di lei ancora si ostinava a rifiutare era successo veramente.

Per non pensare, aprì la valigia sul letto e si mise a svuotarla. Dopo qualche minuto, sentì dei passi in corridoio e qualcuno si fermò davanti alla porta aperta. Probabilmente Jubilee non aveva resistito ed era venuta a vedere come stava.

Invece, quando si voltò, trovò John appoggiato allo stipite. Per un istante si domandò come avesse fatto ad entrare nel dormitorio femminile.

“Vuoi parlare?” le chiese. Prima che avesse il tempo di pronunciare l’ultima sillaba Meredith aveva già risposto alla sua domanda.

“No.”

John guardò in silenzio mentre Meredith continuava a svuotare la valigia.

“Vuoi che ti lasci sola?” chiese dopo un po’.

Meredith si voltò di scatto a guardarlo. “No.” rispose.

C’era un tono di supplica nella sua voce, e se normalmente questo l’avrebbe spaventata ora non le importava affatto. Perché era vero. Non voleva rimanere sola.

Un lampo illuminò per un secondo gli occhi di John. “Non lo farò.” disse.

Si guardarono negli occhi in silenzio. Meredith infilò la mano nella tasca dei jeans.

“Verresti con me in un posto?” gli chiese.

John annuì. “Certo.”

****

Raggiunsero il cortiletto delle cucine non dal corridoio, ma dall’esterno, facendo il giro della casa. Meredith non era più tornata lì a fumare dalla sfortunata sera del vetro rotto, ed era sicura che anche John avesse fatto lo stesso: sarebbe stato stupido tornare in quel posto dopo quello che era successo. Quando arrivarono al cortiletto, trovarono intatta la neve che copriva il pavimento. Nessun altro era stato lì.

Meredith si fermò davanti all’aiuola delle rose. I tronchi sottili sbucavano dal tappeto bianco della neve, nudi e legnosi. Era difficile credere che da lì a qualche mese, quando fosse arrivata la primavera e la neve si fosse sciolta, quelle cose secche e morte si sarebbero ricoperte di foglie verde scuro, e i loro boccioli si sarebbero aperti per svelare petali delicati e candidi come la neve che ora li teneva prigionieri nel suo gelo.

Meredith tirò fuori la fotografia dalla tasca dei jeans e l’aprì, lisciandola con cura. Due ragazze si tenevano abbracciate e sorridevano spensierate alla macchina fotografica, felici di essersi ritrovate dopo tanto tempo. I loro sorrisi sembravano gridare al mondo che sarebbero rimaste unite per sempre. Evie cingeva con un braccio la vita di sua sorella e faceva il segno della vittoria con l’altra mano. I suoi grandi occhi verdi, messi ancora più in risalto dall’eyeliner, guardavano dritti dentro l’obiettivo della fotocamera, e il rossetto viola scuro (Evie l’aveva visto in una profumeria di Manhattan e l’aveva voluto comprare a tutti i costi, spendendo un capitale, e dio quanto l’aveva presa in giro Meredith per questo) non riusciva ad indurire i suoi tratti, così infantili e delicati.

“E’ molto bella.” disse John.

Meredith sorrise. “Sì, lo è davvero.”

Si inginocchiò nella neve e cominciò a scavare ai piedi della rosa più grande e più forte. Il terreno era duro a causa del freddo e le sue dita faticavano a sbriciolarlo. La terra gelata le ferì i polpastrelli e Meredith iniziò a singhiozzare, continuando a graffiare il terreno e a lottare perché esso cedesse e le lasciasse spazio. Senza nemmeno accorgersene cominciò a piangere sempre più violentemente, liberandosi di tutte la lacrime che non era riuscita a piangere da quando aveva saputo che Evie era morta. Forse di tutte le lacrime che non aveva pianto in tutta la sua vita.

John non le mise un braccio intorno alle spalle e non cercò di consolarla. Senza dire una parola si inginocchiò accanto a Meredith e cominciò a scavare insieme a lei. Lottavano con le unghie e con le dita contro un muro compatto di terra ghiacciata e di minuscole pietruzze appuntite, tornando ancora e ancora ad assaltare lo stessa zolla finché essa non cedeva e si sbriciolava, combattendo strenuamente per ogni singolo millimetro di spazio che guadagnavano.

Quando la buca fu abbastanza grande e profonda Meredith diede un ultimo bacio alla foto di Evie e la depositò sul fondo. Sua sorella la guardò, raggiante e piena di luce come era stata ogni singolo giorno della sua vita.

“Addio, Evie.” le disse. “Sarai al sicuro qui.”.

Poi, con grandissima cura a delicatezza, lei e John cominciarono a ricoprirla di terra. Fecero molta attenzione a ridurre i grumi di terriccio in polvere fine, scartando tutti i sassolini e gli agglomerati di argilla che non riuscivano a frantumare, perché la terra non pesasse troppo su Evie.

Quando la buca fu colma, la nascosero con cura sotto uno strato di neve, perché fosse invisibile e irraggiungibile per chiunque dovesse trovarsi, seppure per caso, a passare davanti alla rosa.

Rimasero inginocchiati nella neve finché Meredith non smise completamente di piangere. Pian piano, i suoi singhiozzi diminuirono d’intensità finchè il suo pianto non divenne un rivolo silenzioso che dagli occhi scendeva a bagnarle le guancie e il collo. Lentamente, le lacrime cominciarono a diminuire sempre più, sempre più, finché non smisero di scendere.

Dopo che la sua ultima lacrima le ebbe solcato il viso, Meredith chiuse gli occhi e respirò due volte a pieni polmoni. Poi si asciugò il volto con la manica della maglietta e si alzò lentamente in piedi. Si sentiva totalmente in pace ora. Sotto la rosa, la neve custodiva e proteggeva la buca.

“Torniamo” disse con calma. John annuì.

Percorsero il giardino della villa fianco a fianco. Ormai tutti erano rientrati nelle loro stanze e la casa era immersa nel silenzio. Solo poche, fioche luci si diffondevano ancora dalle finestre e si riflettevano nella neve. Anche il parco sembrava addormentato da un incantesimo. Né il richiamo di un uccello notturno, né i movimenti di un animale, né il mormorio del vento tra le foglie ruppero il silenzio che regnava quella notte.

Meredith iniziò a tremare. I suoi jeans e le sue scarpe erano fradici e non aveva preso niente per ripararsi dal freddo quando era uscita. John si sfilò la felpa e gliela porse.

“Tieni.”

Lei lo guardò. Indossava solo una maglietta a maniche lunghe che non aveva l’aria di essere molto pesante. John intuì la sua indecisione. “Io non ho mai freddo.” le spiegò. “Prendila.”

Meredith si infilò la felpa e il suo calore fu consolatorio per il suo corpo intirizzito dal freddo. Improvvisamente si rese conto di sapere così poco di John, di essersi interessata così poco alla sua vita.

“Il tuo accento.” gli disse. “Non ti ho mai chiesto.”

Lui alzò le spalle. “Sono nato in Australia.” spiegò. “Mio padre era un alcolizzato che picchiava me e mia madre e che non riusciva a tenersi un lavoro. Perciò emigrammo negli Stati Uniti, ma anche qui lui continuò a bere e a picchiarci.” Fece una pausa. “Un giorno picchiò mia madre talmente forte da ucciderla. Lui è finito in carcere, io in orfanotrofio. E questo è tutto. Non c’è altro.”

“Mi dispiace.” disse Meredith.

Lui alzò le spalle. “Non ci pensare.”

Meredith lo guardò negli occhi. “No, davvero mi dispiace.”

John le restituì lo sguardo e annuì lentamente. “Grazie.” disse.

La lasciò ai piedi delle scale del dormitorio femminile. Quando entrò in camera Jubilee alzò gli occhi dal libro che stava leggendo e il suo sguardo si posò sulle mani di Meredith, sporche di terra e di sangue.

“Meredith... cosa...” balbettò.

“Io e John abbiamo seppellito Evie.” le spiegò. Avrebbe davvero voluto essere più chiara e permettere a Jubilee di capire, ma non esistevano parole più adatte di quelle per descrivere ciò che era successo.

Fu solo dopo essersi fatta la doccia e preparata per andare a dormire che si accorse di non aver restituito a John la sua felpa.

“E quella, Meredith?” chiese Jubilee guardandola sistemare ordinatamente la felpa sulla sedia che stava davanti alla scrivania.

“E’ di John. Domani gliela restituisco.” le aveva risposto.

Molto, molto più tardi, quando da tempo avevano spento la luce e Jubilee dormiva profondamente, Meredith si alzò dal letto, si infilò la felpa e si addormentò avvolta nel suo tepore.

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Ecco fatto. Spero che siate arrivati alla fine senza bisogno di antidepressivi, e che vi sia piaciuto. Non vorrei sembrare una presuntuosa, ma rileggendo questo capitolo mi sembra la cosa migliore che io abbia mai scritto, e mi farebbe molto molto piacere se qualcuno volesse dirmi se ho ragione ad essere orgogliosa di me stessa o se sarebbe meglio che mi dessi all’ippica. Ringrazio fin da ora chi volesse lasciare una recensione.

P.S 1: La canzone del divino Bruce Springsteen che viene citata nel capitolo è “No Surrender”. Ecco la traduzione della strofa riportata:

“[...]Nelle strade stanotte la luce si sta affievolendo
Le pareti della mia stanza si stanno chiudendo.
C’è una guerra là fuori che ancora infuria
Tu dici che non sta più a noi vincerla[...]”

P.S. 2: “La guerra è finita”, il messaggio che Evie scrive nel suo biglietto d’addio, è in realtà il titolo di una canzone dei Baustelle. Racconta di una ragazza che si uccide lasciando come ultimo messaggio, appunto, le parole “la guerra è finita”. E’ da questa canzone che nasce il personaggio di Evie.

P.S. 3: Come probabilmente avrete immaginato, se avete letto le mie note all’inizio del capitolo due, la canzone che inizia a suonare poco prima che Meredith e Logan arrivino alla scuola è “Into the Fire” dei Thirteen Senses, e che dà il titolo a questo racconto. Segue traduzione:

“Andiamo, andiamo,
metti le mani nel fuoco.
Spiega, spiega,
mentre io mi volto e incontro il potere.
Questa volta, questa volta,
diventando bianco e presagendo la catastrofe.
Spingi, spingi, da un estremo all’altro.

Dall’estate alla primavera
Dalla montagna all’aria
Dal Samaritano al peccato
E aspetta alla fine[...]”

  
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