51. Will You Get Your Wish?
Mikoto Uchiha non aveva mai conosciuto una notte così
lunga.
Non riusciva a ricordare una notte in cui aveva avuto così
tanta paura, neppure tornando a scavare in quelle notti di quando era bambina, quelle
notti passate a tremare sotto le coperte per poter riuscire ad affermare di
essere stata abbastanza coraggiosa da non spegnere la luce.
I suoi passi cadenzati e ritmici sul tatami erano l’unico
rumore nella casa semivuota. Suo marito, in silenzio, era seduto vicino al
tavolo e scorreva velocemente lo sguardo fra i file della polizia di Konoha.
Apparentemente tranquillo.
Vi erano momenti in cui Mikoto Uchiha invidiava
tremendamente suo marito e, in quei momenti, non poteva fare a meno di
chiedersi cosa esattamente ci fosse di sbagliato in lei.
Si accorse troppo tardi che le sue mani stavano tremando:
cercò di nascondere l’evidenza attorcigliandole in grembo, movimenti spastici
che di poco servivano a coprire l’ansia.
Alla fine, sconfitta, si lasciò cadere seduta sui cuscini.
Occhi color pece che saettavano, di tanto in tanto, verso
la porta, verso il marito, prima di tornare sulla gonna rossa stropicciata.
Fugaku sollevò lo sguardo dai documenti, limitandosi a
battere ciglio.
“Mikoto?”
Lei sussultò appena, cercando di rimandare il cuore –
arrivatole in gola – al suo posto anatomicamente corretto.
“… si, caro?”
“Mi stai facendo venire mal di testa.”
Burbero, schietto Fugaku. Dannatamente tranquillo, e
burbero, e schietto Fugaku.
“Scusami.” Azzardò un sorriso, uno dei tanti, senza
riuscire però a costruirlo come si deve. Suo marito – che d’altronde lo era da
sei anni, ormai – sembrò captare la bugia.
Mikoto diede la colpa alla sua dannata deformazione
professionale.
“Starà bene. Arriverà a casa tra poco.”
Fu probabilmente il tono pratico, pragmatico ed
essenzialmente calmo a far traboccare il vaso. Assottigliò appena lo sguardo,
due sottili lame d’inchiostro. “Cosa te ne fa essere così sicuro, Fugaku? Ha
solo cinque anni, lo sai. E’ il tuo unico figlio. Teyaki l’ha perso di vista,
e…”
“… starà bene. Se la sa cavare.”
“… come diamine fai ad essere così tranquillo!! Ha cinque
anni, per l’amor del cielo! Non so come funzionava a casa tua, ma a casa mia i
bambini di cinque anni non vanno in giro da soli! Non a quest’ora! Non a qualsiasi
ora. E’ sbagliato. E’ semplicemente sbagliato. Per quello che ne sai, potrebbe
essere…”
“… Sono a casa.”
Quella voce, piccola e tranquilla, quasi controllata,
arrivò alle sue orecchie come se quel saluto fosse stato urlato a squarciagola.
Restò per un attimo a bocca leggermente aperta, voltando lo sguardo sulla porta
ed incontrandovi la fonte della sua preoccupazione.
L’unica creatura capace di poterla far preoccupare a quel
modo.
Suo figlio. Itachi Uchiha, 5 anni.
Sporco di fango e dai vestiti fradici.
La tensione accumulata in quelle ore di attesa esplose lì
in quel momento, in un singhiozzo che aveva pregato di farsi strada e di uscire
allo scoperto. Gli si gettò incontro, noncurante del fango, abbracciandolo e
stringendolo forte al petto.
“Non si fa, Itachi, non si fa, non puoi andare in giro da
solo a quest’ora, sei troppo piccolo, avresti potuto…”
Il bambino, ora appena accigliato, cercò di divincolarsi
dall’abbraccio troppo stretto. Dopo qualche tentativo ci riuscì, abbastanza
contrito.
Mikoto sentì l’ennesima piccola pugnalata al petto, dritto
al cuore. Ma, come sempre, la ignorò.
“Stai bene?” indagò piano, dolcemente, piccolo sorriso
sulle labbra.
Incerto su come prendere la situazione, il bambino annuì. “Volevo
provare gli shuriken che mi ha dato papà.” Si giustificò, laconicamente, eppure
con l’innocenza e la candidezza che solo l’infanzia può avere.
Mikoto, per qualche ragione a lei del tutto
incomprensibile – così le piaceva credere – si sentì furiosa.
Con Itachi, con suo marito e con sé stessa.
“… shuriken?” fu tuttavia l’unico, infranto sostantivo che
abbandonò le sue labbra. Senza intaccare il sorriso che ancora aleggiava sulle
labbra.
“Sapevo che ti arrabbiavi.” Spiegò lucidamente in bambino,
scostando lo sguardo. “Non potevo usare il giardino.”
Ne aveva sentite davvero troppe, quella sera.
“Ah!” suono forzatamente divertito che sfuggì dalle sue
labbra, mentre si alzava e spostava l’attenzione su Fugaku. Che, dalla sua
postazione, si era limitato a seguire lo scambio con lo sguardo. “Hai sentito,
caro? Shuriken. Un bambino di cinque anni scompare da casa per poter fare
pratica con gli shuriken.” Si interruppe lì, mordendo ansiosamente il labbro
inferiore. “Un bambino di cinque anni!” ripetè, questa volta appena più
infervorata.
All’assenza di risposta del marito, strinse i pugni,
spasmodicamente, per qualche attimo. Il gesto sembrò calmarla per, rivolgendosi
al figlio, il sorriso tranquillo era di nuovo stampato sulle labbra. “Itachi,
va’ in camera tua. Ti prego di non fare più una cosa del genere. La mamma si
preoccupa, e perde anni di vita, lo sai? Puoi usare il giardino, se ti va. Vai
ad asciugarti, o ti prenderai un malanno. Su, su.”
Probabilmente intuendo l’aria che tirava, il bambino
eseguì senza fare una piega. Lanciò solo uno sguardo, con la coda dell’occhio,
al padre. Fugaku, distrattamente, annuì.
“… Itachi è molto maturo per la sua età, Mikoto.”
Borbottò, ritornando a dedicare lo sguardo ai documenti sul tavolo. “Per
settimane ha insistito, dopo aver visto Shisui allenarsi giù al fiume. Voleva
provare anche lui, diceva.”
“E così tu gli dai un set di shuriken? Ad un bambino che
deve ancora iniziare l’accademia? Che non la inizierà prima di due anni?”
sbottò la donna, incredula, incespicando appena sulle parole.
“Certo che no!” sospirò l’altro, scotendo il capo.
“Mikoto, c’ero io quando ha provato la prima volta.”
Mikoto si limitò a chinare il viso d’un lato,
apparentemente non comprendendo quale fosse la differenza.
“Ha centrato tutti i bersagli, Mikoto. Al secondo
tentativo. E chiudi quella bocca, lo sai che non scherzo su queste cose.”
Incredula, lei obbedì.
Seguì qualche attimo di silenzio, mentre tentava invano di
digerire l’ultima informazione ottenuta.
“Nostro figlio, allora…?”
“Un talento naturale, apparentemente. Un genio.” E non
potè fare a meno di notare la nota d’orgoglio nascosta, insidiosa, tra quelle
parole. “Uno di quei pochi individui che nascono per essere ninja. Penso
riuscirà a diplomarsi in un solo anno.”
Ancora, lei scosse il capo, negando di convenire, di
essere d’accordo in alcun modo con ciò che le era stato detto.
“Può essere stato solo un caso. E poi, una buona mira non
presuppone anche le qualità psicologiche necessarie per affrontare…”
“Mikoto, non devi tarpare le ali a tuo figlio solo per la
tua esperienza personale. Che tu non abbia avuto le qualità psicologiche nece…”
“… non c’entra assolutamente nulla con me! Assolutamente
nulla! Tu hai regalato delle armi letali al nostro bambino! Al mio bambino!
Poteva aspettare! Potevi chiedere il mio parere, consultarmi! Cosa ti ha dato
il diritto di… cosa ti ha dato…” tuttavia la frase le si smorzò in gola, questa
volta soffocata da un singhiozzo di frustrazione.
Accorgendosi dello stato pietoso del suo respiro, si fermò
qualche attimo.
Cercando di regolare l’ammontare di aria incamerato nei polmoni.
Suo marito ne approfittò per poggiare i documenti sul
tavolo con un piccolo tonfo.
Un gesto plateale, come il martello di un giudice al
momento di proclamare il suo verdetto.
Fu in quel momento che Mikoto capì che, in fondo, era
dapprincipio una battaglia persa.
La corte, apparentemente, aveva già deciso.
“Itachi è la speranza del Clan. Di gente come lui ne nasce
una ogni chissà quante generazioni. Lo sai che il Clan sta avendo problemi con
il Consiglio di Konoha, Mikoto. Itachi potrebbe essere la chiave per…”
“Itachi non è nessuna chiave, Fugaku.” Tuttavia, adesso,
la sua voce non era rovinata dalla rabbia. Era frammentata, e terribilmente mortificata.
“Itachi è mio figlio. Mi detesta, credo. Non dovrei trattarlo come un bambino?
E’ quello che è.”
“Il suo cervello non è quello di un bambino. Non vuole
essere trattato come tale.”
E suo marito riusciva a dire tali atrocità senza staccare
neppure un attimo lo sguardo dal fascicolo.
Cosa c’era di sbagliato, nella loro famiglia?
Mikoto scosse il capo, portando entrambe le mani a
massaggiare le tempie. Era stanca. Non riusciva più ad affrontare tanto bene
situazioni così emotivamente stremanti. Il lavoro in campo, come kunoichi, e
quella missione di un cinque anni prima l’avevano logorata.
Quella tensione non prometteva bene per i suoi nervi.
Quella frustrazione minacciava di causarle un crollo a
livello nervoso, e, seriamente, non credeva di poterselo permettere. Asciugò
frettolosamente quelle poche lacrime che erano riuscite a farsi strada sul viso
pallido, tirando appena su con il naso.
Poteva star calma, se voleva.
Era questo che le avevano insegnato.
“Stai bene?” la voce di suo marito era genuinamente
preoccupata.
Lei si limitò a sorridere ed annuire dolcemente. “Si,
scusami. Probabilmente… hai ragione tu, si. E’ così che funziona nel Clan, no?
Il Clan prima di tutto. Tendo… a dimenticarlo, lo sai. E’ stato sempre così.”
Ed anche Fugaku sorrise, lasciando da parte i suoi
documenti per alzarsi e andarle incontro. La abbracciò piano, quasi lei fosse
una cosa fragile, quasi l’avesse dimostrato con lo sfogo di quella notte.
“Lo so, lo so. Lo sai che non devi agitarti troppo. Non ti
fa bene.”
Senza dire altro, lei continuò a sorridere. Fu abbastanza
brava da non permettere neppure ad un singhiozzo di sorpassare la barriera
della sua forza di volontà.
Andando a letto, si fermò a sbirciare dalla porta
semisocchiusa della cameretta di suo figlio. Non appena vi fece capolino,
tuttavia, due piccoli occhi – identici ai suoi – incontrarono tranquilli il suo
sguardo.
Itachi era sveglio e la stava guardando. Candida curiosità
che, in qualche modo, la inquietava.
Gli augurò la buona notte, senza entrare a rimboccargli le
coperte, e chiuse silenziosamente la porta.
Quella notte, donando la schiena a suo marito, pianse
lacrime amare e discrete, serrando le labbra affinché l’unico rumore a
sfuggirle fosse una sorta di uggiolio contenuto.
Suo marito sicuramente ne udì ogni sfumatura ma, tuttavia,
le permise di concedersi quel dovuto sfogo.
Era sbagliato, per una madre, voler accudire e proteggere
suo figlio?
Voler essere, almeno nei primi anni della sua vita, il
centro del suo mondo?
Coccolarlo? Raccontargli favole? Dormire accanto a lui
qualora avesse avuto paura del buio?
Non è forse il desiderio di qualunque donna?
Non è forse diritto, di ogni donna?
Prima di addormentarsi, Mikoto pensò di essere una madre
molto, molto egoista.
Quando, due settimane dopo, Mikoto Uchiha si svegliò per la seconda mattina di seguito con l’impulso di correre in bagno per rimettere i resti della cena del giorno prima, si ritrovò il viso bagnato di lacrime di gioia.
Il silenzio, si lasciò scivolare seduta contro la porta chiusa del bagno, capelli spettinati, accarezzando amorevolmente il ventre che, apparentemente, aveva deciso di donare una nuova vita al mondo.
“Andrà tutto bene, questa
volta.” Mormorò distrattamente, un sussurro leggero che volò via nel chiarore
mattutino.
“Non preoccuparti, andrà
tutto bene. Con te andrà tutto bene. La mamma ti proteggerà. Riuscirai ad avere
la tua infanzia. Non temere, la mamma è con te.”
E, fra le lacrime di
gioia, sorrise.
A/N: stavo scrivendo la flavour AnkoxSasuke, ma
questa qui mi ha fulminata. L’idea intendo. E’ sempre il solito studio su mamma
Uchiha, ma stavolta l’ho preso da una angolazione diversa. Fra le prossime
flavour troverete pairing assurdi, del tipo AnkoSasuke – appunto – o la mia
fantomatica KarinTayuya X°D Più probabile che arrivi prima la KarinTayuya,
però. Vedremo. Non sono morta, ragazzuoli, suvvia!
Vi ringrazio tremendamente per il supporto che mi date. Ogni
commento mi commuovo ç_ç Mi dan la forza di pensare che forse riuscirò davvero
a scriverle tutte e 52. Quindi, ancora una volta, grazie mille.