Quando
volano i bicchieri
“Guarda papà, lo so
che sei deluso e stupito, però io ho vent’anni e anche se so di aver sbagliato
so anche che capirai se ti dirò che questa è una cosa naturale e che insomma…
siamo stati bravi, io non sono un’irresponsabile e poi lui mi piace tanto”
Questo
avrebbe dovuto dire Rea a Jason per scusarsi. Invece sbuffò e incrociò le
braccia.
“No, non ho niente da dichiarare, mi spiace” gli
rispose in malo modo. Si voltò andando in cucina, infuriata quasi quanto lui.
Non aveva un
senso il fatto che fosse arrabbiata, però lo era e basta.
“Niente da dichiarare? Ragazzina, fermati un po’!”
la richiamò l’uomo, andandole dietro.
“Papà, non farne una tragedia!”
“Ma Rea, ti sei completamente bevuta il cervello?”
le domandò sorpreso.
“No, sono obiettiva. Tu non hai mai fatto l’amore con la
mamma? Io sono nata sotto un cavolo, mi ha portata la cicogna o i fiorellini
hanno sparso il polline?!”
“Non ti devi permettere di rivolgerti a me in questo modo,
hai capito?”
Rea prese un
bicchiere per versarsi da bere e notò che le mani le tremavano.
“Senti, non ho programmato la cosa, ok? Ho invitato Fabio
per farmi compagnia: tu eri fuori e io ero sola, cos’avrei dovuto fare?”
“Non eravamo rimasti d’accordo che saresti stata lontana
da quel ragazzo? la sua vita è in pericolo fin quando sei sotto copertura, e lo
sai benissimo!”
Lei sbatté
il bicchiere sul tavolo e lo guardò.
“Non ti rendi conto di niente, tu! Sono settimane che esco
con Fabio, ormai e tu eri così occupato a fare… cosa? Cosa facevi? Stavi sdraiato
sul letto a fissare il soffitto senza fare nulla. Ho indagato, sono uscita di
casa decine di volte, ho trovato degli indizi, lui mi ha baciata e tu non te ne
sei reso conto. La mia felicità non è stata notata, IO non sono stata notata!”
gli gridò contro.
Jason fu
colpito come da uno schiaffo e si ritirò per colpa della forza di quelle
parole, ma non distolse lo sguardo.
“Io ho i miei problemi, tu i tuoi, ma se facciamo un patto
è un patto! Tu me l’avevi promesso, cavolo!”
“E tu mi avevi promesso anni fa che non mi avresti mai
nascosto niente, invece sei in condizioni a dir poco pietose da settimane!”
lo accusò.
L’uomo si
passò una mano sul viso, disperato.
“Torniamo al problema principale? Tu hai fatto sesso sul
mio divano!”
“Io ho fatto l’amore sul tuo divano, non sesso. Punto
primo. Punto secondo questa è anche casa mia e visto che tu mi ci hai
trascinata ora prenditi le tue responsabilità!”
“Cosa ho fatto io?”
“Tu sei voluto venire qui, non io. Tu e il tuo lavoro ci
hanno portati qui. Io sono parte di questa casa e ci faccio cosa voglio,
capito? Se volessi girare nuda o volessi demolire il salotto per ricostruirlo
potrei benissimo farlo!” esclamò.
“Sei ancora una bambina! Non puoi fare sesso col primo che
capita!”
“Ho vent’anni, non due, e lui non è il primo che capita!”
“Senti, la questione si chiude qui, per quanto mi
riguarda. Non ho voglia di sentire le tue scuse” disse Jason.
“Come sempre, vero papà?” gli chiese Rea. Lui la
guardò.
“Cosa stai dicendo?”
“Tu non mi ascolti mai, sei troppo occupato con non si sa
bene cosa per renderti conto di quanto io possa stare male. Negli ultimi tempi
non sei più Jason Simon, sei solo un ricordo lontano di te” lo accusò.
L’uomo si
avvicinò a lei e le dette uno schiaffo in pieno viso, facendola barcollare
all’indietro.
“Se ti azzardi a rivolgermi un’altra parola con questo
tono da arrogante e presuntuosa signorinella so-tutto-io giuro che… che…”
“Cosa, papà? Mi butti fuori? Se ti fa felice, accomodati
pure, io con te non voglio più viverci” commentò.
“Rea, smettila, non sei tu che parli, è solo la tua
rabbia. Ora vai in camera ne riparleremo poi” gli disse lui.
Rea si mise
a piangere e si toccò la guancia.
“Dopo… sempre dopo. Non affrontiamo mai la questione,
vero?” gli chiese.
“Noi ormai siamo abituati a far finta di niente, ad
accettare le cose stando zitti. Io questa cosa non la sopporto proprio”
Guardò il
bicchiere che c’era sul tavolo e fu assalita dalla furia, dall’odio, dalla
disperazione.
“NON LO SOPPORTO!” gridò. Prese il bicchiere e lo
lanciò contro la parete, spaventando il padre che si allontanò.
“Ma che stai facendo?” le domandò.
Rea aveva il
viso bagnato di lacrime e tremava.
“Io ho continuato ad indagare, sai? Ho continuato a
cercare indizi, a fare in modo di proseguire col caso, di trovare una risposta.
E forse ce l’ho anche fatta, forse ho la soluzione a portata di mano, ma tu… tu
non mi aiuti. Non esisto più per te” sussurrò.
“Per fare in modo che tu mi riparlassi ho dovuto fare…
sesso… con Fabio e farmi scoprire, altrimenti tutto questo non sarebbe venuto
fuori”
Jason si
rese conto che sua figlia stava davvero lanciando un grido d’aiuto, ma non
riuscì a muoversi di lì, ad abbracciarla per confortarla. La guardò e basta.
“Non ha importanza cosa faccia e quanto mi impegni, dopo
che abbiamo litigato in centrale tu non mi hai più quasi parlato” disse.
Strinse i
pugni e abbassò la testa, poi guardò i cocci del bicchiere.
“Mi dispiace, adesso pulisco tutto” decise,
avvicinandosi e inginocchiandosi a terra.
Si sentiva
stupida, aveva detto cose che non avrebbe dovuto con un tono poco appropriato,
ma erano cose che purtroppo pensava. Tutte, dall’inizio alla fine.
Suo padre la
guardò mentre si abbassava e recuperava i vetri con le dita tremanti,
impotente.
“Rea, se sei così triste voglio aiutarti, voglio.. voglio
prendermi le mie responsabilità se è colpa mia” le disse. La ragazza
sorrise amaramente e scosse la testa.
“Ci ho provato, papà. Ho provato a dirtelo mille volte di
risolvere, a chiederti di chiarire, ma tu te lo ricordi cosa mi hai risposto
tutte le volte?” gli chiese. Lui rimase zitto.
“Mi hai detto adesso
no, sono stanco; non posso, scusami; preferirei riparlarne più avanti, vado in
palestra ad allenarmi” gli ricordò.
“Tesoro, io non… non me ne ricordo, assolutamente”
ammise.
“Me l’immaginavo, purtroppo. Sei in stato catatonico da
quel pomeriggio in cui mi hai detto che… che non sono costante, che anche
l’idea di diventare poliziotto svanirà e che non mi aiuterai. Più che provare a
sforzarmi di venirti incontro non ho saputo cosa fare” ammise. Non aveva
smesso nemmeno per un attimo di piangere ma la sua voce era ferma e decisa.
“Butto questi vetri e poi vado su a farmi una doccia, ne
ho un certo bisogno” lo avvertì.
Si alzò e
andò al cestino, gettando dolcemente i cocci nel sacco.
Guardò Jason
un’ultima volta, poi se ne andò dalla stanza senza dire niente.
Stesa sul
letto con indosso solo l’accappatoio, Rea si sentiva distrutta. Non era
sicuramente stato il discorso che aveva pensato di fare a suo padre, questo era
certo.
Avrebbe
voluto che risolvessero la situazione in modo pacifico, come avevano sempre
fatto in tutti quegli anni: qualcosa non andava? Ne parlavano tranquillamente,
senza urlare.
Ma da quando
erano finiti lì tutto era cambiato, loro erano cambiati e non riuscivano più a
stare insieme senza litigare.
Prese il
cellulare, indecisa se chiamare o no Fabio. Forse a quell’ora lo avrebbe
disturbato.
Prima che
potesse scrivere anche solo una lettera per mandargli un messaggio, il telefono
squillò.
“Pronto?”
“Rea? Sono Bearne”
“Ciao capo, che succede?”
“Niente di importante, in realtà. È da un po’ che
non vieni in ufficio e mi chiedevo come procedesse l’indagine”
“Ho raccolto molti indizi, sono quasi arrivata alla cima
della piramide”
“Bene, sono fiero di ciò che mi dici. Senti, tuo
padre ultimamente non mi sembra molto concentrato, è successo qualcosa in casa?
Quando ieri è andato via dalla centrale era completamente sconnesso. Non è che
tu ci hai parlato stasera?”
La ragazza
rimase un attimo in silenzio, cercando di capire come mai quelle parole non le
tornavano. Poi scosse la testa.
“Capo, papà stasera non era con te?” gli chiese.
“Con me? A meno che mia moglie non si sia
miracolosamente trasformata in Jason, e questa è un’ipotesi che mi fa
sinceramente rabbrividire, direi di no. Perché?”
“N-no, lui ha… non importa, lascia perdere. Comunque ti
manderò un rapporto dettagliato in settimana, tranquillo” rispose.
“Va bene, aspetto con ansia tue notizie allora.
Buonanotte”
la salutò.
Rea chiuse
la comunicazione e sospirò, sentendosi terribilmente male. Aveva un peso sul
petto che non la lasciava quasi respirare.
Prese le
pillole che aveva in borsa e ne ingoiò due, cercando di calmarsi.
Suo padre le
aveva mentito. Era uscito con una scusa e le aveva detto una bugia bella e
buona. Perché? Che motivo c’era di nasconderle qualcosa?
Le lacrime
scesero di nuovo dai suoi occhi, ormai abituati a piangere per colpa sua. Non
ce la faceva più così, era stanca e distrutta e voleva solo tornare a dicembre
e rifiutare quel compito invece di accettare l’infiltrazione nell’istituto.