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Autore: Jessica James    17/02/2013    4 recensioni
1944 - Auschwitz Birkenau.
"Io me ne andrò via da qui, Ana. Non lascerò a questi mostri la soddisfazione di uccidermi, farò qualsiasi cosa per andarmene viva da questo fottutissimo campo di concentramento. Voglio raccontare alla gente lì fuori quello che ci stanno facendo passare, non lascerò che dimentichino. Anche se questo vuol dire dar via questo corpo che non mi appartiene più. Guardami, questa non sono io. E' solo un ammasso di ossa, fame e disperazione. La vera me è rimasta in quel cinema, fra le braccia di quel ragazzo a cui non ho nessuna intenzione di dire addio. Quel ragazzo che mi ha dato la cosa più importante: l'amore. Ed è proprio l'amore che provo nei suoi confronti a darmi la forza di non mollare, di sopportare i pugni, il freddo, la fame, l'umiliazione; ma soprattutto mi da la forza di sopportare tutto lo schifo che mi invade quando quei mostri si muovono dentro di me. Faccio tutto per lui, perchè se c'è una cosa che i nazisti non possono togliermi è proprio questa: l'amore."
Genere: Drammatico, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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I won't give up on us,
even if the skies get rough.
I'm giving you all my love.




 

Era fine dicembre. Lo ricordo bene perchè pochi giorni prima avevo passato il Natale più dolce della mia vita. 
La città era completamnte coperta di neve e in quelle poche ore scordai persino che eravamo nel bel mezzo di una guerra mondiale. 
Decidemmo di chiuderci dentro casa, di dimenticare tutto il resto e di tornare alla normalità, almeno per una sera. 
Passammo una serata tranquilla, come non succedeva più da tanto tempo,  mentre Michael inventava sempre nuovi giochi per farci divertire.
A mezzanotte Greg mi fece una sorpresa, venendo sotto casa con una rosa. 
Facemmo una passeggiata e alla fine ci ritrovammo seduti sulla panchina del parco dietro casa, la nostra panchina.
"Sono così felice di vederti." sospirai, stringendogli la mano.
"Tutto bene?" mi chiese, guardandomi con la coda degli occhi.
"Ho paura, Greg."
"Di cosa?"
"Hanno iniziato i rastrellamenti."
"Ma tu non sei ebrea, perchè dovresti avere paura?"
"No, infatti, ma ci hanno chiuso in questo ghetto lo stesso. Mia nonna è ebrea. Stanno deportando chiunque ha origini, anche lontane, ebree. E anche un gran numero di polacchi innocenti."
Lo sentii irrigidirsi accanto a me.
"Non lo permetterò Layla. Non permetterò a nessuno di separarci."
Sentii un nodo stringermi la gola.
"Non potrai fermarli. Sembra che nessuno riesca a farlo." sussurrai, accarezzandogli la gamba.
"Vieni a vivere da me. Non ti troveranno."
"Non posso lasciare la mia famiglia e mettere in pericolo la tua."
Mi baciò all'improvviso, e quando gli accarezzai il viso sentii che aveva le guance umide di lacrime.
"Non posso immaginarmi senza te, Layla. Se dovessero portarti via, io.. io non ce la farei. Non lo so, impazzirei di dolore.."
"No Greg. Se dovessero portarmi via tu dovrai solo pensare ad essere felice. Ad avere un lavoro che ti piace, una moglie che ti ama e tanti bambini, come hai sempre voluto."
"Voglio che sia tu mia moglie. Solo tu. Non credo che riuscirò ad amare nessun'altra donna dopo di te."
"Dovrai, se io non ci sarò più.."
"Non lascerò che ti portino via. E se dovesse succedere ti cercherò, fino all'ultimo dei miei giorni. Non ti abbandonerò Layla, non rinuncerò a te. Non rinuncerò a noi, nemmeno se le cose dovessero mettersi male."

Dei colpi alla porta mi fecero sussultare, strappandomi a quei ricordi.
Mi guardai intorno, per un attimo disorientata.
Eravamo in cucina. Papà abbracciava mamma, e Michael teneva la mia mano.
"Aprite questa cazzo di porta o la sfondiamo, sporchi ebrei!" urlarono da fuori.
Mio padre strinse un'altra volta mia madre, poi andò ad aprire.
Michael mi guardò negli occhi, stringendomi le mani.
"Ricordi cosa mi hai promesso Layla?"
"Sì."
"Non dimenticarlo. Per nessuna ragione. Farò il possibile per rimanere vivo, perciò vedi di tornare anche tu. Voglio abbracciare di nuovo mia sorella, alla fine di questa fottutissima guerra."
Annuii. Una lacrima mi scivolò sulla guancia.
"No." me la asciugò velocemente, "No Layla. Mai più. Non davanti a loro."
Sentimmo i loro passi pesanti avvicinarsi sempre di più.
Annuii di nuovo e lui mi regalò uno dei suoi sorrisi più belli, che gli facevano spuntare delle piccole rughe vicino agli occhi, rendendolo ancora più adorabile.
Fu l'ultima volta che vidi mio fratello sorridere.
 
 
Ci buttarono fuori casa e ci costrinsero a camminare per ore.
Eravamo tantissimi. Famiglie intere che faticavano a far smettere di urlare i bambini.
C'erano centinaia di persone affacciate alle finestre, e molte altre agli angoli della strada. Ci guardavano con disprezzo, urlandoci dietro "Andate via, schifosi ebrei!"
In mezzo a quella calca di persone riconobbi una ragazza che un tempo veniva a scuola con me.
Incrocia il suo sguardo e lei, tenendo gli occhi fissi su di me, urlò "Ebrea!" con voce piena di odio.
Mi si gelò il sangue. Un tempo eravamo amiche, io e lei.
Avrei voluto rispondere che io non ero ebrea, che la mia famiglia non doveva trovarsi lì in mezzo.
Ma non sarebbe cambiato nulla.
Perchè in realtà nessuno doveva trovarsi lì in mezzo, nessuno doveva essere chiuso in un ghetto e strappato dalle persone che ama.
Perchè prima di essere ebrei, polacchi, tedeschi, bianchi o di colore, siamo persone.
E come tali ognuno di noi merita rispetto. 
 
 
Ci ammassarono in treni merci. Cento persone in ogni vagone, che in realtà ne poteva contenere massimo cinquanta.
Ci chiusero lì dentro per tre giorni. Senza cibo e acqua, al gelo, ingabbiati come bestie.
Tre giorni che sembravano non passare mai.
Non ci permettevano di scendere nemmeno per fare pipì, perciò dovevamo fare tutto in uno degli angoli del vagone. Davanti a gente che non conoscevamo, cercando di non vomitare per il fetore insopportabile.
Ricordo che c'era una donna incinta che partorì il secondo giorno, in quel vagone sporco e puzzolente.
Era sdraiata per terra e molte persone, tra cui mia madre, erano accucciate vicino a lei per assisterla.
La donna urlava e piangeva disperatamente.
Mi avvicinai a una delle 'finestrelle' del vagone e iniziai ad urlare, cercando di attirare l'attenzione di qualche SS.
"Una donna sta partorendo! Fatela uscire! Aiutatela! Morirà se non vi sbrigate! Per favore, aiutatela!"
Urlai ancora e ancora, ma nessuno si avvicinò.
Alla fine Michael mi posò una mano sulla spalla.
"Basta Layla, a loro non interessa. E' inutile. E' così che ci vogliono: disperati. E morti."
Due ore dopo tirarono fuori il bambino dal corpo della donna e lo sculacciarono per fargli aprire i polmoni.
Ma il bambino non emanò un fiato.
La donna era svenuta per il dolore, e poco dopo morì anche lei, dissanguata.
In effetti furono molti a morire durante il viaggio, e a volte penso che sia stato un bene per loro.
Perchè, almeno, quando sono morti avevano ancora la loro identità. 
Ed è stata loro risparmiata molta sofferenza.
 
 
Quando arrivammo ad Auschwitz ero sporca come non lo ero mai stata; la sete e la fame mi facevano girare la testa.
Scesi dal treno, aggrappandomi alla mano di Michael.
Mi strinse a sè mentre delle... erano persone?
Indossavano vestiti a righe, erano più sporchi di noi, ossuti e con lo sguardo vuoto.
Ci si avvicinavano senza dire una parola e ci toglievano i bagagli.
Le SS urlarono di separarci: le donne da una parte, gli uomini dall'altra.
"Qualsiasi cosa succeda sappi che ti voglio bene. Te ne vorrò sempre." mi sussurrò Michael , abbracciandomi forte.
"Anche io Micky, non dimenticarlo mai. Ci vediamo a casa, okay?"
"Sì, ci vediamo a casa. Prenditi cura della mamma."
"E tu di papà."
Si staccò da me per abbracciare mamma, mentre io stringevo mio padre.
"Sii forte Layla. Tu puoi farcela."
In quel momento una SS mi afferrò per il braccio e mi strattonò lontano da mio padre, il quale mi fece segno con il dito di non urlare, di stare buona.
Si guardò intorno e io feci lo stesso.
C'erano SS ovunque.
Strappavano i neonati dalle braccia delle madri, mentre i bambini piangevano e le donne urlavano.
C'era una bambina che avrà avuto più o meno cinque anni; si era aggrappata ai vestiti della madre e non voleva lasciarla.
Arrivò una SS e la prese per i capelli, la sollevò, facendola urlare, e la scagliò a terra con violenza.
Quando la bambina si alzò aveva il viso completamente insanguinato.
Poco dopo mi ritrovai  con una trentina di donne su un autocarro che partì nella notte a tutta velocità.
Il viaggio durò poco, circa venti minuti, e quando l'autocarro si fermò vedemmo una grande porta, e sopra una scritta vivamente illuminata:
ARBET MACHT FREI , il lavoro rende liberi.


mickyslaugh
  
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