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Autore: Sophie Isabella Nikolaevna    14/03/2013    0 recensioni
L'impressione sofferta di un pittore, le pennellate che aggrediscono la tela, imprimendovi le parole di Eugenio Montale.
Ti riconosco, sai, mia cara amica. Sei tornata. Ti ricordi di me? Non credo. Tu non ricordi, eppure io ho conosciuto i tuoi pensieri, e tu hai conosciuto i miei. Sì: i tuoi pensieri erano come sciami d’api irrequiete, e tenerle chiuse nell’alveare era per me ogni giorno più difficile, più doloroso. Sapevo di non essere all’altezza del compito, e che un giorno le api sarebbero volate via.
E mi avrebbero punto, a migliaia.

Lo so, avevo già pubblicato una storia con questo titolo, ed era una sorta di bruttacopia (molto brutta) di questa... per fortuna l'ho cancellata :)
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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TU NON RICORDI LA CASA DEI DOGANIERI


“Tu non ricordi la casa dei doganieri / sul rialzo a strapiombo sulla scogliera”.

La luce artificiale del mio studio è innaturalmente verdognola, o forse è solo il cielo plumbeo fuori dalla finestra a farla apparire tale. La mia mano passa il pennello sulla tela in modo quasi inconscio, rievocando le parole di Montale. Blu, nero, bianco. La poesia risveglia il genio, il ricordo. Un’impressione.
Una vecchia casa desolata si delinea sulla tela, stagliandosi in controluce sulla scogliera della sera. Un tempo doveva aver dominato il mare, ora la brezza salmastra l’attraversa da parte a parte, soffiando attraverso le finestre senza imposte e partecipando alla sua solitudine. Esiste un colore per la solitudine?
“Desolata t’attende dalla sera / in cui v’entrò lo sciame dei tuoi pensieri / e vi sostò irrequieto”.
Dipingo una piccola figura umana davanti all’entrata abbandonata della casa. I capelli lunghi, sì. È lì, eppure i suoi pensieri sono da tutt’altra parte. Le guance colorite, una leggera pennellata bianca e arancione. I suoi occhi volgono altrove. Non vede la vecchia casa grigia. Non vede, non ricorda.
Ti riconosco, sai, mia cara amica. Sei tornata. Ti ricordi di me? Non credo. Tu non ricordi, eppure io ho conosciuto i tuoi pensieri, e tu hai conosciuto i miei. Sì: i tuoi pensieri erano come sciami d’api irrequiete, e tenerle chiuse nell’alveare era per me ogni giorno più difficile, più doloroso. Sapevo di non essere all’altezza del compito, e che un giorno le api sarebbero volate via.
E mi avrebbero punto, a migliaia.
“Libeccio sferza da anni le vecchie mura / e il suono del tuo riso non è più lieto: / la bussola va impazzita all’avventura / e il calcolo dei dadi più non torna”.
Il viso è dipinto con poche pennellate, poche ma sufficienti. Pennellate trasparenti per il vento, i capelli volano. Gli occhi luminosi – una piccola fiammella bianca al centro della pupilla – e una risata improvvisa a rischiarare quel viso già lucente.
Un viso che risplende, che non ha bisogno di artifici per brillare.
Ricordo quella primavera: ridevi come se nessuno avesse mai potuto privarti della tua felicità; come se il parere degli altri fosse stato di nessun conto. Loro storcevano il naso alla nostra vista – o forse solo alla mia? – ma tu passavi oltre, ridendo petali di mille fiori nuovi.
Le luce del mio studio diventa sempre più fredda, più ostile.
La risata, impressa per sempre sulla tela, non è rivolta a me, non più, e io non so più da che parte sia il nord. Tutti i miei calcoli sono sbagliati, ora che quei fiori non sbocciano più per me.
“Tu non ricordi; altro tempo frastorna / la tua memoria; un filo s’addipana. / Ne tengo ancora un capo; ma s’allontana / la casa e in cima al tetto la banderuola / affumicata gira senza pietà. / Ne tengo un capo; ma tu resti sola / né qui respiri nell’oscurità”.
C’è un’ombra nascosta in un angolo del quadro. Quasi non si vede, è grigia e si fonde con l’aspra scogliera e con i rigidi arbusti piegati dal vento. Una pennellata rossa e sofferta come un rivolo di sangue parte dall’ombra e tende alla figura luminosa e ridente. Un filo, una memoria, una richiesta d’aiuto. Ti prego, ricorda, ricorda. Afferra questo filo e ricorda. Sospiro e allontano la mano dalla tela prima si collegare l’ombra e la luce con quel sottile filo di gomitolo.
Solo io ricordo, mia dolce amata dai capelli neri. Tu ridi e osservi la tua nuova vita, concentrata nel tenere in vita la fiammella nei tuoi occhi, indifferente come la banderuola sull’alto della vecchia casa. Una minuscola pennellata nera.
“Oh l’orizzonte in fuga, dove s’accende / rara la luce della petroliera! / Il varco è qui? (Ripullula il frangente / ancora sulla balza che scoscende…)”.
Persino l’orizzonte mi sfugge. Le mie pennellate disperate cercando di trovare una linea, una certezza. Non c’è certezza.
Quante volte ho creduto di averti ritrovata, mia cara? Ti ho vista nel bel mezzo del fuoco più rosso, un fuoco che esisteva solo dentro di te, dentro di noi, amica mia. Amica, amata: scegli tu il nome che ritieni più appropriato.
Quante volte ho creduto di avere trovato la soluzione, ho creduto di poterti riportare alla memoria il passato, di farlo tornare presente. Di ritrovare, ancora una volta, in te la mia salvezza.
Fisso il quadro. Deve essere lì, all’orizzonte, deve esserci. La soluzione, il varco, l’anello che non tiene, come dice Montale. La porta rotonda per la salvezza. La mia mano va svelta al pennello e improvvisamente le onde si infrangono violentemente sulla scogliera. Stringo gli occhi. Il varco non si apre, i marosi spezzano le pietre. Tu ridi, luminosa nel tuo nuovo fuoco – pennellate rosse, smarrimento – e non ricordi la casa dei doganieri, la nostra vecchia casa dei doganieri.
“Tu non ricordi la casa di questa / mia sera. Ed io non so più chi va e chi resta”.
   
 
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