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Autore: Luna95    18/03/2013    5 recensioni
One-Shot introspettiva sugli Originari [Kol-centric] [spoiler!quarta stagione]
Kol adora il rosso: una volta si è innamorato di una ragazza che sapeva portarlo come una seconda pelle.
L’ha uccisa solo per vedere il cremisi del sangue ricoprirla del tutto - ma per farsi perdonare le ha poi baciato gli zigomi freddi e la punta delle dita violacee.

[...]
Klaus pone solennemente un cappello a decorare il pupazzo di neve che lui e Bekah hanno costruito insieme, e nel suo sorriso traspare un’ingenuità che ricorda ad Elijah i loro anni di vita umana, la loro infanzia.
Scatta distrattamente una foto.
È così che vuole ricordare i suoi fratelli: circondati da angeli di neve, con foglie e ramoscelli nei capelli, straiati sul terreno gelido, esausti per il troppo ridere.

[...]
Klaus è straziato dal fuoco, impresso per l’eternità nelle sue retine, e dalle urla orribili del fratello; si rende conto che non sono né le urla né il fuoco a creare quella sensazione terrificante - quella di morire dentro.
È quel maledetto frastuono -
il suono del silenzio.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Klaus, Kol, Mikaelson
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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«Sai Bekah, non credevo ci fosse qualcosa d’interessante nell’America»
Il piede di Rebekah dondola piano, la scarpetta graziosamente infiocchettata cade con un sordo tock sul pavimento.
«Ma i grattacieli... di notte si possono toccare le stelle»
Un sorriso sornione gli colora la bocca. Ride.
«Dovremmo tornare a New Orleans, un giorno o l’altro. Ne conservo un bel ricordo».
Kol raccoglie la scarpa della sorella e la soppesa per qualche secondo tra le mani, poi gliela porge quasi con gentilezza.
Rebekah la prende anche se non le importa: quelle scarpe non le piacciono più, ne comprerà presto di nuove.
D’altronde le avrebbe tolte comunque entrambe per uscire da quel locale; i tacchi sono piuttosto rumorosi e scomodi, soprattutto quando s’intende camminare in punta di piedi.
S’infila di nuovo le scarpe con indifferenza, sistema meglio la stola sulle spalle e scavalca il barista riverso sul pavimento.
Il rumore dei tacchi sul pavimento di legno non avrebbe certo svegliato i morti.
 
**
 
Respira con la pancia, lentamente, come un bambino addormentato.
Sente le carezze di sua madre sui capelli e sulla fronte, tocchi leggeri come fantasmi, ricorda senza imprecisioni la ninnananna che era solita intonare quando uno di loro aveva la febbre o semplicemente non riusciva a dormire.
A volte Kol la ripete sottovoce, vergognosamente, come si confessa un peccato.
Ha mille anni e a volte non riesce a dormire, ma da tempo non c’è più nessuno che canta per lui.
 
**
 
Nella sua casa a Denver, Kol tiene appeso in salotto il quadro che Klaus ha dipinto per lui.
Non lo ammetterebbe mai, ma ne è particolarmente orgoglioso.
Il rosso trionfa, sembra traspirare dalla tela e quasi colare sulla cornice: si chiede spesso se sia sangue o soltanto una distrazione dal bianco della tela - la sua solitudine.
Suo fratello non gliel’ha mai detto e Kol non gliel’ha mai chiesto.
Forse gli piace perché il rosso di quel quadro e il fuoco acceso nel caminetto lo fanno semplicemente sentire meno solo.
 
 
**
 
Era un’ansia che non aveva mai pensato di provare: un terrore dilaniante, la sensazione di avere il cuore che batte furiosamente in gola, una paura meravigliosa.
«Kol! Kol! Vieni a vedere, è nata!» la voce di sua sorella Rebekah lo distolse dai suoi sentimenti - così umani, sì, ma stavolta lo pensava senza alcun disprezzo - e lo accompagnò fino alla stanza in fondo al corridoio; Kol pensò distrattamente che le sue ginocchia avrebbero ceduto per l’emozione, se non fosse stato per gli incoraggiamenti di Rebekah.
 
Arrivò nella piccola stanza quasi galleggiando, senza rendersi davvero conto di aver camminato fin laggiù.
Una donna riposava sul letto, stanchissima ma felice, tuttavia Kol la ignorò; in qualche modo sapeva che era importante, ma si sentiva attirato dal fagottino tra le braccia della sorella come da una calamita.
Sua figlia era appena venuta al mondo e già possedeva una gravità tutta sua.
 
La prese in braccio con delicatezza, sfiorandole la fronte con le dita e le labbra.
«Ciao, tesoro»
Il nome della bambina – che nonostante tutto sarebbe stato Esther, in qualche modo lo sapeva - rimase come sospeso, a metà tra il sonno e la veglia.
 
Il pugnale intarsiato ha lasciato il suo cuore da qualche minuto: sente il petto a poco a poco più leggero, ma sulle sue spalle crolla improvvisamente tutto il peso del mondo.
Elijah sta di fronte a lui, Kol realizza d’essere straiato nella sua bara.
 
Ha ancora i suoi vent’anni cristallizzati in un millennio intero, e non percepisce più nello sterno il pompare regolare di un cuore vivo.
In qualche modo questa consapevolezza lo ferisce.
Trattiene le lacrime, scacciando con enorme sforzo la delusione e lo smarrimento, e riacquista un sorriso vendicativo, crudele.
 
Era solo un sogno.
 
**
 
Kol accoglie l’oscurità della notte come una vecchia amica, si nasconde nel suo abbraccio confortante e pensa a come portare avanti un nuovo gioco - qualcosa di divertente, che non lo annoi troppo in fretta, qualcosa di rumoroso.
Odia il silenzio che cresce nel suo cuore come un cancro.
 
Sdraiato su un prato poco lontano da casa, guarda il cielo pensando con meraviglia e timida riverenza che le stelle non sono poi cambiate così tanto in mille anni; sono le stesse che contava attentamente quando aveva ancora sei anni, la testa sulle ginocchia delle madre e nessuna uccisione sulla coscienza.
Da secoli cerca di farsi accettare dai suoi fratelli, ma si sente così escluso, così fuori posto.
Non prova più dolore… non quando il sangue di qualche malcapitato gorgoglia nel suo stomaco, almeno. Uccidere è uno svago necessario.
 
Ma ancora una volta Elijah ha tolto il pugnale dal suo petto e Kol è stato tagliato fuori inconsapevolmente dai due fratelli maggiori e da Rebekah - che, pur apprezzando di tanto in tanto la sua compagnia, sembrava legata indissolubilmente a Niklaus ed Elijah in un modo che, forse, lui non avrebbe mai potuto capire.
 
È solo un’altra volta, si sente ancora troppo piccolo per poter a scappare da questa solitudine, e non gli resta che cantare: canta sempre quando si sente solo, triste o indesiderato.
Canta sottovoce per dimenticare d’aver soggiogato la maggior parte dei suoi amici e aver ucciso i rimanenti, canta per non pensare che, alla fine, non ha mai avuto davvero degli amici.
 
La musica lo accompagna sempre e lui la adora come si ama un’amante: non ha bisogno d’altro.
 
**
 
Il culto di Silas è pericoloso, in certi sensi una droga, tuttavia Kol è millenario ed indistruttibile: non teme i suoi ciechi seguaci.
Ma teme l’inferno in Terra, Dio solo sa quanto lo tema, e questa paura lo consuma, lo corrompe - è spaventato al punto di minacciare la sua stessa sorella di una morte orribile e definitiva.
 
Nel panico, non prova esitazione né rimorso nell’infilzare quello sciocco, sconsiderato e ingenuo omiciattolo. Quei folli dei suoi fratelli forse non capiranno mai che lo sta facendo per proteggere anche loro.
 
**
 
Non è certo la prima volta che vedono la neve, ma i fratelli si sono riuniti dopo secoli e secoli e non possono fare a meno di festeggiare quel momento magico con una giocosa battaglia: nonostante l’alleanza Niklaus e Rebekah raddoppi la loro potenza, Kol se la sta cavando piuttosto bene, Elijah deve ammetterlo.
 
I fratelli minori l’hanno trascinato in quella pazzia notevolmente infantile e il suo libro è rimasto aperto sul tavolo della cucina, la lettura bloccata tra una riga e l’altra, in attesa che ritorni il sole.
 
Inzuppati dalla testa ai piedi, Kol e Rebekah ridono insieme e si prendono in giro a vicenda per le guance arrossate e i capelli scombinati; a dispetto del millennio di vita che grava sulle loro spalle e delle atrocità commesse, nella loro mente è rimasta parte dell’innocenza dei bambini.
 
Klaus pone solennemente un cappello a decorare il pupazzo di neve che lui e Bekah hanno costruito insieme, e nel suo sorriso traspare un’ingenuità che ricorda ad Elijah i loro anni di vita umana, la loro infanzia.
 
Scatta distrattamente una foto.
È così che vuole ricordare i suoi fratelli: circondati da angeli di neve, con foglie e ramoscelli nei capelli, straiati sul terreno gelido, esausti per il troppo ridere.
 
**
 
Kol adora il rosso: una volta si è innamorato di una ragazza che sapeva portarlo come una seconda pelle.
L’ha uccisa solo per vedere il cremisi del sangue ricoprirla del tutto - ma per farsi perdonare le ha poi baciato gli zigomi freddi e la punta delle dita violacee.
 
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Per Klaus l’avere Kol in casa era principalmente motivo di divertimento ed esasperazione in ugual misura, ma soprattutto di rumore.
Il fratello minore apparentemente non riusciva a star zitto un secondo e anche quando - incredibilmente - si tratteneva dal dire qualche sciocchezza sfrontata, la sua sola presenza pareva fonte di un allegro chiasso, un caos brioso che riempiva la stanza e le giornate di Klaus.
 
Ora Kol è morto, Klaus è straziato dal fuoco, impresso per l’eternità nelle sue retine, e dalle urla orribili del fratello; si rende conto che non sono né le urla né il fuoco a creare quella sensazione terrificante - quella di morire dentro.
 
È quel maledetto frastuono - il suono del silenzio.
 
Intrappolato a così pochi metri dai resti di suo fratello, lascia che le lacrime scavino a fondo nella sua rabbia, nella sua paura, nell’impotenza, nella vendetta.
È una cacofonia di emozioni che per un momento lo stordisce e lo riempie di orrore.
 
Tutto il rumore che Kol riusciva in qualche modo a infondere in Klaus - quell’impercettibile vibrazione brulicante di vita e imprevedibilità, l’idea di movimento di una pennellata imprecisa sulla tela - all’improvviso svanisce.
Il tempo si ferma, viene risucchiato dall’atrocità quel momento; l’odore di carne bruciata, la morte di un fratello.
 
E Klaus grida, cerca di coprire di rabbia quello spaventoso silenzio, ma sa che nulla - neanche la vendetta, neanche tutto il frastuono del mondo - colmerà mai il vuoto che sente nel petto.
   
 
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