1.
Poté seguire le operazioni di attracco sul pannello davanti a sé: come unica passeggera le era
stato possibile scegliere uno qualsiasi dei sei posti a disposizione e aveva passato il lungo viaggio
girandoli tutti. Per l'attracco si era allacciata le cinture di uno dei sedili della prima fila in modo
da poter vedere bene lo schermo informativo. Il comandante era stato così gentile da passarle alcuni dei
dati della telemetria relativi all'approccio e i flussi di un paio di telecamere esterne.
Nonostante fosse molto ben preparata a quello che avrebbe visto, si stupì ugualmente. Ares Labor 1
stava lì, davanti agli occhi elettronici dell'astronave e rotolava pacifico su se stesso nel rosso abbraccio
di Marte, quarantadue chilometri più in là. Un laboratorio orbitante come non se ne facevano più, letteralmente.
L'inizio della fase costruttiva delle colonie orbitanti intorno alla Terra aveva assorbito tutte le energie
del programma spaziale planetario e non c'era rimasto nulla per nient'altro. Se gli occupanti di Ares Labor
1 ricevevano quel volo di rifornimento era soltanto perché riportarli a casa tutti sarebbe stato ancora
più costoso.
La telemetria segnalò un cambio di direzione: il comandante stava mirando all'asse di rotazione della
stazione, un insieme di moduli a gravità zero a cui era stato attaccato un grosso toroide, all'interno del
quale la rotazione generava otto decimi di gravità. Solo due dei quattro bracci che univano il toroide al
resto del laboratorio erano completi: la costruzione degli altri due era stata abbandonata subito dopo il
completamento del traliccio portante, indispensabile. Sapeva che tutti o quasi tutti i moduli erano
abitabili, ma la comodità della falsa gravità all'interno del toroide era impagabile. Attraccando all'asse
di rotazione la manovra sarebbe stata molto più breve: il comandante non le aveva nascosto di avere una
certa fretta di scaricare tutto e ripartire. Non sapeva quanto lei ci avrebbe messo a trovare il problema
del sistema di guida del laboratorio orbitante che aveva smesso di funzionare correttamente una settimana
prima; per lui non aveva senso attendere indefinitamente. Al pensiero controllò la telemetria che il
comandante le passava ma i dati non erano sufficienti a stabilire la velocità di decadimento dell'orbita.
Dai calcoli fatti a terra prima di partire, basati su dati vecchi di un anno, la stazione sarebbe entrata
in un'orbita irrecuperabile dopo ventisette giorni circa dal completo cessato funzionamento del sistema
di guida.
Seguì con attenzione la manovra di attracco fino all'ultimo, fin quando un sordo tonfo metallico confermò che
le flange di accoppiamento dell'astronave e della stazione erano venute a contatto. La poltrona ondeggiò lievemente
sotto di lei ma sapeva per esperienza che si era trattato di un attracco tra i più dolci. Lo schermo davanti a lei
si svuotò e comparve il logo dell'astronave: un falco stilizzato che reggeva saette tra gli artigli. Sganciò le
cinture e cominciò a fluttuare in assenza di peso nella piccola cabina.
- Si prepari a trasbordare. - fu il laconico avvertimento che le giunse dal comandante attraverso
l'impianto di comunicazione.
Trovò il sergente maggiore che l'aveva imbarcata e che le aveva tenuto compagnia per qualche ora
durante il viaggio. Con suo grande dispiacere era fermo presso un portello ombelicale aperto dal quale
uscivano zaffate di aria gelida.
- Capolinea – disse quello indicando il portello.
- Avete già pressurizzato?
- Certo. Ero pronto ancora prima di attraccare. Tecnica di arrembaggio...
- Si gela lì dentro... - disse lei affacciata al portello. Come temeva, tra l'astronave e la stazione
era stato usato un odioso, angusto tubo flessibile a tenuta d'aria. Era già lucido di condensa ghiacciata
che vicino al portello ombelicale si squagliava lentamente. Alcune goccioline perfettamente sferiche
galleggiavano qua e là.
- Coraggio, sono meno di sessanta metri.
Guardò la divisa del sergente maggiore: una spessa tuta imbottita, di un colore grigio scurissimo,
i gradi verdi e la piccola targhetta col nome sul petto, scritto in bianco. Lei era coperta da semplici
abiti civili e nel tubo flessibile la temperatura era sotto lo zero.
- Buona permanenza! - la salutò il militare. Lei ringraziò ma pensando con rancore che in quel momento
i container con i rifornimenti se la passavano certamente meglio di lei.
Controllando la propria spinta iniziale usando mani e piedi contro la superficie gelida del tubo
flessibile giunse fino al portello della stazione. Piccolo, sporco di chissà cosa e ghiacciato tanto
che ebbe paura di toccare i comandi con le mani: non voleva lasciarci attaccata la pelle delle dita
né attendere che venissero riscaldati. Aveva la preoccupante sensazione che il dito del sergente maggiore
già indugiasse sui comandi che avrebbero sganciato il tubo flessibile dell'astronave dal portello
ombelicale della stazione. Con un improvviso rumore che la fece sobbalzare qualcosa si mosse dentro
il portello e un soffio di aria calda e sporca la investì con un beve sibilo, sparandole granelli
di polvere negli occhi. Il portello era stato azionato dall'interno. Lo osservò sprofondare per un
palmo e poi farsi da parte ruotando, scomparendo a lato.
- Che freddo! Venga, presto!
L'uomo indossava unicamente maglietta e pantaloncini corti. Lei non se lo fece dire due volte e si
diede una spinta con le mani per entrare nella camera di equilibrio. Appena fu dentro il portello rotolò
al suo posto con un suono raschiante e si chiuse con un tonfo. La temperatura ambiente cominciò a
salire.
- Brr! - l'uomo teneva le braccia strettamente incrociate sul petto e le ginocchia unite in
cerca di calore – Benvenuta a bordo, dottoressa!
- Ah, mi chiami pure Lisa – rispose lei stringendo la mano che le veniva tesa. Nel frattempo la
lieve differenza di pressione era stata colmata e l'uomo aprì rapidamente la piccola camera d'equilibrio.
Il portello rotondo si avvicinò e poi rotolò di fianco con un fastidioso rumore stridente.
- Io sono Grigor Bena, piacere di incontrarla. Prego, prima lei.
Grigor Bena, specializzato in geologia marziana e con l'hobby della terraformazione, pensò lei mentre
attraversava il portello aperto. Aveva fatto il diavolo a quattro finché non lo avevano spedito su Ares Labor
1 a lavorare. Aveva letto di sfuggita i curricola di molti occupanti della stazione ma ne ricordava ben pochi.
Bena lo ricordava bene perché era l'unico volontario a bordo del laboratorio orbitante. Davanti a lei altre
persone, attaccate alle superfici del modulo come mosche. Finalmente le sue scarpette con la suola di velcro,
comprate per l'occasione, poterono aderire a qualcosa. Le strisce di velcro però erano così consumate che le
suole delle scarpe minacciavano di staccarsi al primo starnuto.
Un uomo anziano, dai capelli radi e completamente bianchi, le tese la mano. Lo riconobbe, nonostante avesse
la barba non rasata da qualche giorno e indossasse una modesta e consumata tuta ginnica color cenere anziché
l'elegante abito scuro che aveva nella foto del curriculum. Era Padouri Poledouris, il responsabile della
stazione, a bordo dal giorno in cui i primi due moduli abitabili erano stati agganciati a quelli scientifici.
La prolungata permanenza in condizioni di bassa gravità gli aveva gonfiato mani e piedi; anche il viso e il
collo ne avevano risentito, facendolo sembrare ancora più imponente di quello che era. Le diede il benvenuto
con voce profonda e sguardo liquido, assente. Scambiò poi i convenevoli anche con gli altri membri
dell'improvvisato comitato di benvenuto: Takagi Matsumita, capo tecnico di bordo, Lin Mei, esperta cartografa
e suo marito Mike Ling, responsabile delle telesonde, dei robot radioguidati e dell'esplorazione della
superficie in generale.
- Conoscerà il resto dell'equipaggio durante lo svolgimento delle normali attività. Da questa
parte, prego.
Poledouris le indicò un portello, già aperto. Mentre lo attraversava, Bena bussò sul metallo: una vecchia
usanza ereditata dalle prime stazioni orbitanti intorno alla Terra. Piccole, scomode, senza intimità per chi
vi alloggiava. Ares Labor 1 invece era un più moderno insieme di moduli tutti più o meno tubolari agganciati
tra di loro. Per ottimizzare lo spazio, scarso soprattutto nei moduli più vecchi, era stata mantenuta la forma
tubolare anche per gli interni, arredamenti compresi. Tutto era stato fatto e costruito in modo da stare dentro
un tubo sprecando meno spazio possibile. Se aveva visto bene dove l'astronave aveva attraccato, quello doveva
essere il modulo VTV-5: era uno degli ultimi inviati prima della costruzione del toroide, circa quindici anni
prima. Era abbastanza spazioso e le parve piuttosto evidente che le funzioni per cui quel modulo era stato
costruito, l'osservazione diretta della superficie di Marte, erano state trasferite altrove: il modulo era
lungo una ventina di metri circa e non c'erano altre persone a bordo oltre quelle che vedeva.
- Credo che voglia dare subito uno sguardo al nostro piccolo problema – disse Poledouris alle sue
spalle mentre lei galleggiava diretta verso il modulo adiacente – Le ho fatto preparare un rapporto dai
nostri tecnici, il signor Matsumita e la signora Weissenberger.
In realtà lei pensava unicamente a darsi una rinfrescata: diciotto ore di viaggio a bordo di un cargo
militare dotato unicamente di poltroncine non erano state certo ore rilassanti. Ciononostante si disse d'accordo:
il tono con cui Poledouris si era espresso non prevedeva una risposta di alcun genere.
Eva Weissemberger era ancora una bella donna oltre che un valido tecnico. La incontrò nel modulo VTV-2,
interamente attrezzato con i comandi dei motori della stazione. Lì c'erano i componenti principali del sistema
di guida.
- Benvenuta a bordo, dottoressa – disse accogliendola con un sorriso. La stretta di mano fu forte e
decisa: notò che la Weissenberger indossava una cuffia in testa poiché aveva i capelli lunghi: una lunga
ciocca bionda era sfuggita e faceva capolino da dietro un orecchio.
- Piacere – rispose lei.
- Visto che sto stringendo la mano della figlia del progettista di tutta questa stazione,
direi che il piacere è mio.
- Beh, non proprio tutta – mentì lei. Suo padre aveva progettato il sistema di guida, i sistemi
di stabilizzazione, parte dei sistemi di supporto vitale; aveva supervisionato la maggioranza delle
modifiche e prima di morire aveva contribuito alla progettazione della prima parte del toroide. In
effetti la stazione era quasi tutta opera del padre. Lei lo sapeva bene e conosceva Ares Labor 1 poiché
aveva aiutato il padre col toroide e ne aveva completato la progettazione dopo la sua morte.
- Vuole davvero cominciare subito?
Si voltò: era la voce di Matsumita. Gli altri, compreso Poledouris, se n'erano andati via senza una
parola.
- Il vecchio ha dimenticato le buone maniere - aggiunse Eva sottovoce.
- Ssst! - la rimproverò Matsumita, rosso in viso, portandosi un dito davanti alla bocca.
- Se vuole bere qualcosa, dottoressa...
- Chiamatemi pure Lisa.
La accompagnarono a un dispensatore di bibite; estrassero una cannuccia sterile da una busta sigillata e
caricarono un'ampolla di un liquido arancione. Inserita la cannuccia nell'ampolla, fatta apposta per bere in
assenza di gravità, Lisa poté degustare una sorta di aranciata.
- Il tè alla menta è l'unica cosa che si riesce a bere da questa dannata macchina ed è il primo a finire.
Speriamo nei rifornimenti che sono giunti con lei.
La sua espressione dopo aver assaggiato la bibita doveva aver parlato per lei: l'aranciata era davvero
preoccupante. Eva caricò la propria ampolla con altrettanta aranciata e con un piccolo sforzo ne inghiottì
un sorso. Matsumita si astenne dal consumare.
Chiacchierarono del più e del meno per un po' prima di affrontare il motivo del suo intervento.
Prima di partire le avevano detto che la stazione aveva dei problemi col sistema di guida e controllo
della propulsione e che aveva iniziato una lenta caduta verso il sottostante Marte. Il problema lì si
presentava più complesso di quello che sembrava dai simulatori sulla Terra. La Weissenberger le mostrò i
rapporti del computer di controllo e Matsumita le parlò per oltre un'ora delle modifiche apportate, anche
le più insignificanti. Per farla breve pareva che il cervello del sistema di guida avesse deciso di scollegarsi
dal resto della stazione e di fare solo quello che gli saltava in mente. Incomprensibilmente eseguiva solo alcuni
dei comandi impartiti e mai gli stessi. Le CPU erano state sostituite, il software ricaricato, i parametri azzerati
e reimpostati. Niente da fare: uno dei tre motori principali rimaneva morto e gli altri due erano pressoché
incontrollabili. Occasionalmente la stazione accendeva i razzi di manovra e frenava debolmente la caduta ma
l'accensione, non effettuata con accuratezza, stava mettendo la stazione in un'orbita eccessivamente ellittica.
Se non si fosse intervenuti, la stazione sarebbe caduta su Marte o, più difficilmente, sarebbe uscita dalla
sua orbita.