6.
Era stanca. Aveva passato il resto della giornata esaminando ogni circuito del controller principale dei motori.
Ai dati dei test diagnostici aveva dedicato tutta la serata. Aveva tra le mani uno dei pezzi più critici di tutta la
stazione: nel controller dei motori, un parallelepipedo fitto di componenti, schede e microchip pesante oltre un
chilogrammo standard, c'erano il cuore e l'anima del modulo RM-2. C'erano in totale tre moduli RM installati sulla
stazione, tre motori abbastanza potenti da far schizzare la stazione fuori dalla sua orbita se si fosse reso necessario
farlo. Bisognava usare molta cautela usando quei motori poiché essendo anche vettoriali, un errore nell'angolazione
poteva avere conseguenze disastrose. Comprendeva l'equipaggio che, di fronte ai primi malfunzionamenti, aveva preferito
disattivare i motori e sostenere l'orbita solo con i razzi di manovra. Col risultato però che la stazione stava
lentamente cadendo su Marte.
Ancorò saldamente il controller al banco di lavoro usando grosse strisce di velcro molto tenace. Il banco di test
dei componenti di elettronica e microelettronica era stato allestito nel modulo VTV-1, così per recarsi alla sua cuccetta
doveva semplicemente passare al modulo adiacente. Secondo l'ora della stazione erano le ventitré e quarantanove e già
non si sentiva più anima viva. Non aveva mai visto un attaccamento così rigido al ritmo giorno-notte a bordo di una
stazione spaziale. In assenza di punti di riferimento come il Sole o l'illuminazione centralizzata, era facile che
ciascuno seguisse ritmi diversi. Trovava giusto però che fosse stato imposto un limite, che ci fosse una cadenza da
rispettare. In fin dei conti molti lavori non potevano essere svolti se non in gruppo, quindi bisognava essere tutti
svegli contemporaneamente.
Caduto il silenzio tra gli uomini, la stazione si destò e intonò il suo lamento. Lisa, chiusa e imbragata nella
sua cuccetta per dormire in assenza di peso, si sforzò di non ascoltarla. Ormai quel lamento era diventato un lugubre
preludio. Si concentrò sulla sua stanchezza, cercò di abbandonarsi al sonno ma il ricordo di ciò che era avvenuto
recentemente tutte le volte che si era messa a dormire non le consentì un riposo sereno.
Si svegliò per ben tre volte nel cuore della notte: aveva dormito un sonno leggero e tormentato e tutte e tre
le volte, mentendo a se stessa, era uscita dalla cuccetta per andare a ricaricare la sua ampolla e spruzzarsi qualcosa
da bere in bocca. Non aveva sete, ma come se il contatto con quel piccolo oggetto di plastica la potesse confortare,
portò con sé l'ampolla carica al massimo di quella terribile aranciata che sembrava non finire mai e si richiuse nella
cuccetta, stringendo strettamente le cinghie sul suo corpo e chiudendo la cerniera lampo della cuccetta fino in fondo.
Trasformata in una sorta di mummia senza le bende chiusa in un sarcofago di tessuto artificiale blu, Lisa cercò
nuovamente il conforto del sonno.
Poco dopo essersi addormentata il suo sonno scivolò in una lenta spirale di incubi, dapprima appena percepiti,
poi vividi quasi come la realtà. In quelle che le parvero ore di sonno rivisse tutte le sue paure, da quelle infantili
a quelle adolescenziali a quelle irrazionali dell'età adulta. Però nulla la spaventò come la voce. Una voce acuta, a
volte flebile, a volte vicinissima dietro le sue spalle. Così intensa, carica di emozione, ma così incomprensibile che
Lisa si trovò a svegliarsi per interrompere l'angoscia che le provocava.
Il modulo LM-2 era buio e vuoto. La luce che proveniente dal nucleo del toroide attraverso il portello sempre
aperto ritagliava chiazze di luce brevi e strette come schegge e produceva lunghe ombre impenetrabili. Era ancora
intontita dal sonno e cercò di riprendere a dormire sperando di non ricadere negli incubi che aveva appena interrotto.
Trascorse un lasso di tempo indefinito durante il quale si rese conto di non riuscire a superare la barriera del
dormiveglia. Dormire in assenza di gravità era piuttosto scomodo in questi casi poiché era impossibile cambiare posizione.
In caso di difficoltà nel prendere sonno una cuccetta con le cinghie che obbligavano il corpo a una sola posizione
equivaleva a uno strumento di tortura.
La voce la strappò dai suoi pensieri.
La udì vicinissima, alla sua destra. Ebbe un sussulto, il cuore le si tuffò nel petto e aprì di scatto
gli occhi. Nessuno.
Di nuovo il sussurro. Ora proveniva da dietro il serbatoio dell'acqua che le nascondeva alla vista
il portello del modulo VTV-1. La pelle del viso, di braccia e gambe, nonostante queste ultime fossero al
riparo dentro la cuccetta, le comunicarono un freddo improvviso, innaturale. Come se qualcuno le avesse
puntato contro il getto d'aria del condizionatore al massimo. Era un lamento, un piagnucolio. Lisa tremava
e non solo per il freddo. Scoprì di non riuscire a tenere tra le dita il cursore della cerniera della
cuccetta. Aprì la bocca per parlare senza sapere cosa dire, ma la gola era paralizzata e non emise altro
che un gemito strozzato. Alzò gli occhi.
Era lì davanti a lei. La bambinetta galleggiava davanti a lei e la guardava con i suoi occhi scuri.
Lisa cadde vittima di quegli occhi così scuri, profondi. Li fissò per interminabili istanti e si rese conto
con crescente orrore che erano due ferite: sotto le palpebre i bulbi oculari erano esplosi, mostravano
l'interno cupo e buio, il bianco slabbrato ai margini.
Qualcosa si frappose finalmente fra quell'orrenda visione e Lisa. Il controller che aveva lasciato
fissato saldamente nel modulo a fianco. La bambinetta lo teneva tra le braccia come fosse un orsacchiotto
di pezza. Un grido innaturale le lacerò i timpani, una improvvisa esplosione di violenza e terrore.
L'ultima cosa che Lisa fece in tempo a fare fu inclinare la testa il più possibile, a costo di rompersi
il collo, per evitare i milletrecentoventidue grammi del controller che veniva scagliato contro il
suo viso.
Fu il dolore alla testa a svegliarla. Aveva dormito? Aveva sognato? Non le sembrava possibile né
l'una né l'altra cosa. Si sentiva uno straccio, le dolevano i muscoli in tutto il corpo. Lo stomaco le
sembrava fatto di piombo, era nauseata e aveva delle acute fitte in tutto il ventre. Provò ad aprire
gli occhi ma tutto cominciò a girare furiosamente. Li richiuse subito, ma le vertigini continuarono.
Mosse la lingua nella bocca e incontrò il palato asciutto e le labbra secche, riarse. Stette così un
tempo indeterminato, non quantificabile. Poi una parola affiorò tra i suoi pensieri turbolenti: febbre.
Doveva avere un febbrone terribile, faticava anche a pensare. Si sentiva un calore liquido nelle membra
che non riusciva a giustificare in nessun altro modo. Come avesse potuto ammalarsi in un ambiente presunto
asettico era una cosa che non riusciva a spiegarsi. Si sforzò di tenere gli occhi aperti.
Era buio, ma una cosa le parve chiara fin da subito. Non si trovava nella sua branda. Si accorse che
c'era la gravità. Era nel toroide, legata al letto in una stanza che non aveva mai visto prima.
Quanto tempo era passato? Aveva dormito? Aveva perso i sensi? Era ancora buio e la testa le girava
vorticosamente. Ebbe la sensazione che ci fosse qualcuno vicino a lei. Aprì gli occhi e dopo un po' riconobbe
una sagoma nel buio. Forse la sagoma si mosse, forse era solo la testa che le girava. Si sforzò di tenere
gli occhi aperti e tentò di muoversi, ma era legata al letto. Le venne un conato di vomito e non riuscì a
trattenerlo.
Quei suoni... tentò di aprire gli occhi ma si accorse d'essere bendata. Filtrava della luce da qualche
parte e sentiva dei suoni. Sembravano voci, un coro sommesso, mormorii sincronizzati. Talvolta sembravano
interrompersi e si sentiva una sola voce, maschile, incomprensibile. Non aveva più vertigini, stava meglio.
Mosse la testa e sentì la benda scivolare. Era una pezza bagnata appoggiata sul suo viso. Scosse la testa e
quella le cadde sul collo. Doveva trovarsi in un alloggio del toroide: era spoglio, c'era solo l'arredamento
di base. Era ancora legata al letto, immobilizzata. Le strisce di velcro che la ancoravano al letto non le
sembrarono più un ostacolo insormontabile. Non erano strette, non le bloccavano i polsi. La testa le faceva
male, si sentiva come se si fosse ubriacata e aveva una gran sete. Fece forza contro le cinghie e quelle
resistettero. Cercò di sfilare il braccio destro e finalmente, dopo quelle che le parvero ore di tentativi,
riuscì a liberarlo. Dopo poco tutte le cinghie erano state aperte col caratteristico rumore da strappo del
velcro.
Si mise a sedere e automaticamente cercò le scarpe. Non le trovò, così come non trovò nulla per vestirsi: indossava
solo le sue mutande. Non sapeva cosa fosse peggio: lasciarsi torturare dalla sete e dal dolore alla testa o andarsene
in giro nuda a chiedere aiuto. Ma aiuto da chi? Era stata legata al letto nonostante ci fosse la gravità artificiale,
lasciata sola nonostante fosse evidente che aveva bisogno di aiuto. Si portò le mani alla testa e una fitta di dolore
la trafisse partendo dal lato sinistro della faccia fino al centro della schiena. Non poté fare a meno di esclamare.
Sentì con le dita un cerotto chirurgico applicato sopra una ferita gonfia e dolorante. Aveva una ferita che andava dallo
zigomo sinistro fino all'orecchio. Con sgomento esplorò con i polpastrelli tremanti il suo viso e scoprì ben presto un
cerotto dermico sul collo, subito sotto l'orecchio sinistro. Lo staccò e scoprì che si trattava di un potente analgesico:
le impediva di sentire troppo dolore. Era probabilmente grazie a quel derma che aveva potuto dormire. Già, dormire: per
quanto tempo aveva dormito? Cosa era accaduto?
Si rimise il cerotto analgesico e cercò qualcosa per coprirsi. La stanza era estremamente spoglia e in tutti gli
scomparti che esplorò non trovò nulla, nessun abito, nulla. Nemmeno un fazzoletto di cellulosa. Si rimise a letto: stava
meglio ma non così tanto da poter stare in piedi troppo a lungo. Temeva che la testa la potesse tradire da un momento
all'altro, temeva di perdere l'equilibrio e cadere.
Si lasciò andare ai suoi disordinati pensieri: pensò che aveva subito un trauma di qualche genere, ma non
riusciva a ricordare nulla. Un incidente? Cosa stava succedendo? Non le sembrava di stare nell'infermeria di bordo.
Chiuse gli occhi, non sapendo se dovesse cercare di stare sveglia combattendo il farmaco del cerotto dermico oppure
no. Temeva il dolore, ma voleva sapere. Cosa stava succedendo? Non rusciva a mantenere a fuoco il suo pensiero.
Chiuse gli occhi e vide la bambina. Ricordò d'averla vista prima. Pallidissima, vestita con... non riusciva a capire
come fosse vestita. Vedeva chiaramente solo il viso, gli occhi a mandorla scurissimi, due piccoli fori nel viso paffuto
e pallido. Le si avvicinò in silenzio, inespressiva. Ricordò gli occhi e la paura la invase. Cercò di non guardarla,
cercò di scappare ma le cinghie la trattennero nella branda. Il sangue le rombava nella testa portando con sé ondate
di torpore chimico. La bimba era abbastanza vicina ora da non poter ignorare i bulbi oculari esplosi. Le parve che un
ghigno le si disegnasse sul visino, un'espressione di cattiveria impossibile per una bambina così piccola. Un rumore
improvviso la fece sobbalzare: la struttura metallica di Ares Labor 1 stava lamentandosi, lo scafo esterno era sottoposto
a qualche stress che lo faceva cigolare. Dilatazione termica, forse. La bimba dai tratti asiatici era così vicina da
poterla toccare. Lisa sentiva che sarebbe morta di paura.
Sul punto di abbandonarsi al farmaco qualcuno entrò nella stanza e strappò il velo di torpore che le
era calato sugli occhi.
- Va meglio, vedo – era la voce della Weissenberger.
Aprì gli occhi e nella penombra riconobbe il viso sormontato dalla cuffia per i capelli e un ipospray. Una sensazione
di freddo alla base del collo la colse subito: non fece in tempo a reagire, a dire nulla. Tentò di aprire la bocca per parlare,
ma non sentì alcun suono uscirle dalla gola. La stazione orbitante faceva sentire il suo canto metallico, gemendo rumorosamente.
Sopraffatta dal farmaco, perse i sensi.