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Autore: Cornfield    20/03/2013    2 recensioni
(Dall'ottavo capitolo):
Non riuscivo a crederci. Non riuscivo a guardarla in faccia, non meritavo di guardarla in faccia, non sapevo suonare, non sapevo allacciarmi le scarpe, sapevo solo di non sapere. Ero un completo disastro.
E mia madre aveva ragione.
Scesi di corsa dalle scale e uscii da casa, mentre mia madre piangeva lacrime amare, mentre il cielo piangeva e la mia faccia era completamente bagnata.
Dal sudore, dalla pioggia e da altrettante lacrime.
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Un po' tutti
Note: Raccolta | Avvertimenti: Incompiuta
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Guardai l’orologio per la cinquantesima volta. Le lancette ticchettavano ossessivamente e il loro rumore rimbombava nella mia testa. Il tempo trascorreva lentamente, quasi come se lo facesse apposta.
Saranno state sette ore che eravamo in viaggio e non avevo ancora visto nessun cartello che segnalava la fine della California e l’inizio di un altro fottutissimo Stato. Cominciavo a credere che Duncan si fosse perso in quelle strade non asfaltate e lerce.
Mi alzai a fatica,tutto intorpidito, ormai avevo preso la forma del sedile stesso a furia di stare seduto e il culo era tutto appiccicoso. Ero riuscito a barattare con Tré il posto in cambio di due cioccolatini e 5 dollari, ma me li sarei ripresi appena sarebbe caduto tra le braccia del sonno. Ora giocava con un game boy, sconfiggendo i ragni al plasma con i laser e il materiale radioattivo. Io ho sempre odiato la tecnologia se non la televisione, eppure perfino quella scatoletta in quel momento mi sembrava divertente. Tutto pur di sconfiggere la noia che mi stava assalendo e mi aveva stretto in una morsa. Mike suonava il basso distrattamente, componendo linee senza senso. 
Girai in tondo tre/quattro volte per sgranchire il corpo o le idee e mi avvicinai a Duncan. Sembrava tranquillissimo, ma non lo era affatto.
“Duncan, abbiamo almeno oltrepassato la California?”
Non rispose, continuando a fissare la strada imperterrito.
Finalmente si girò verso di me con noncuranza.
“Non saprei”. Fece in tono freddo che non lasciava trasparire nessuna espressione.
“Attento cazzo svolta a destra!”
Si girò appena in tempo per sterzare con una manovra assai pericolosa.
Mi sorrise.
“E tu che non ti fidavi di me!”
“Io non mi fido ancora.”
“Chi è che ora ti ha salvato il culo?”
“Io me lo sono salvato, dicendoti di fare attenzione.”
“Si ma io sto guidando!” Disse molto infastidito.
Feci un lungo sospiro, era come parlare ad un bambino.
Accessi la radio, nella speranza di placare la noia.
Dopo tanta ricerca finalmente si riuscii a sentire la voce di un giornalista.
“Il presidente Clinton afferma di avere la situazione sotto controllo, il suo partito democratico non si scioglierà. Tuttavia, molti sostengono sia..”
La spensi improvvisamente.
Un improvvisa apatia stava piovendo su di me.
Gente che dichiarava un futuro migliore per l’America, gente che dichiarava cose e non le metteva in atto. Eravamo pupazzi nelle loro mani.
Io dichiaravo che non me ne fregava assolutamente niente.
Perché tanto saremmo andati in rovina.
Perché tanto la vita è un illusione.
Ora mi sentivo come un sogno fradicio, pronto ad annegare.
Decisi di fumarmi una canna, inondandomi di quel fumo inebriante e non pensare più a niente. Non stavo crescendo, stavo bruciando.
Gli occhi cominciarono a diventarmi rossi, le labbra secche e la vista mi si annebbiò.
Mi ero messo in fila per camminare con i morti. Forse tutti erano morti, forse stavo solo sognando.
Non capivo più niente e per un attimo sentii un vuoto dentro di me. Un piacere.
 
Quando finii la canna e cominciai a ricontrollare tutti e cinque i sensi e ritornai all’autobus di sempre.
Guardai fuori dal finestrino mentre sempre di più ci allontanavamo da Berkeley ( o almeno speravo, non sapevo dove Duncan fosse diretto veramente). Era come se stessimo scappando dai ricordi, da Christie Road, dai nostri amici, da tutto ciò che avevamo fatto e incontrato. Era una strana sensazione lasciare la propria città.
Fissai quel paesaggio sfuggente quasi in trans che scappava subito dai miei occhi, ancora un po’ rossi.  E mi chiesi se Adrienne stesse pensando a me, o magari se ne era già scordata. Forse in questo momento era davanti al caminetto, con una tazza di cioccolata calda. Mentre io ero in un autobus da nove ore che puzzava, insieme ad un idiota con una patente disegnata da suo cugino di 10 anni, un altro idiota salvatore dell’umanità attraverso i laser che lanciava, un altro idiota che scriveva linee senza senso e ancora un altro idiota, che poi ero io.
Forse stavo sprecando il mio tempo e io odiavo sprecare l’illusione, chiamata erroneamente vita.
O forse ero soltanto innamorato.
 
Passammo tre, forse quattro giorni rinchiusi in quella gabbia. Ormai avevo perso la concezione del tempo. Ci fermavamo solo per mangiare e cagare. La sera Duncan diceva di non avere sonno e che noi avremmo fatto sogni tranquilli mentre lui continuava a guidare. Ma ogni volta le palpebre cominciavano a diventare di piombo e cosi dopo venti minuti si fermava appena poteva e ronfava sul sedile. La mattina seguente si vantava di avere fatto tanta strada. Noi non lo abbiamo mai creduto, ma lo abbiamo sempre lasciato nella sua soddisfazione, se era quello che voleva.
 
Più chilometri facevamo, più avevo l’impressione di sentirla vicino a me ma la mia ansia accresceva. 
Le mie speranze cominciavano a spezzarsi uno ad uno. Un mattone cadeva ogni volta che procedevamo verso Minneapolis.
Era impossibile che dopo quasi otto mesi lei si ricordava ancora di me.
Ma le persone che ami non si dimenticano.
Forse lei non si è mai innamorata di me.
Non dovevo pensare, pensavo troppo, pensare fa male. Mi convinsi che Adrienne mi avrebbe accolto a braccia aperte, quello sarebbe stato il momento migliore per dichiararmi.
Un rumore brusco mi risvegliò dalla trans. “Cosa succede?” Feci ancora trasognato.
Duncan aveva fermato volutamente l’autobus. 
“Perché cazzo lo hai fermato porca puttana!”
“Siamo arrivati, coglione.”
“Ah.”
Eravamo arrivati. Eravamo arrivati a Minneapolis. Ero arrivato da lei.
Scesi dall’autobus senza preavviso e corsi finché potei. Corsi, corsi tantissimo finché il fiato non si fece pesante. Stavo arrivando. Finalmente dopo otto mesi l’avrei rivista. Mi fermai un secondo e ricominciai a correre verso il suo appartamento. Le mie notti insonne sarebbero finite. Mi accasciai su una panchina stanco morto, ma mi rialzai subito, non potevo più aspettare.
Qual’era esattamente il numero della sua stanza? 26 o 29? Ma cosa importava?
L’ascensore era occupato, cosi presi le scale.
Saltai tre, forse quattro gradini, caddi improvvisamente sbucciandomi il ginocchio e mi rialzai subito ancora dolorante. Una vecchietta dalla sua porta mi scrutava con fastidio. Ma in quel momento non sentivo i suoi occhi puntati sul di me o il sangue al ginocchio. Sentivo solo i battiti del mio cuore che rimbombavano nella mia mente.
Camera 26, terzo piano. Bussai con veemenza. Era arrivato il momento. Per cosa esattamente? Per tutto. Per dirle che la amo, per dirle che doveva tornare in California con me, per dirle ciò che non avevo mai detto a nessuno. 
Sentii un cigolio. La porta si aprii.
Il fumo di sigaretta mi investi. Quando cominciò a diradarsi scorsi una figura. 
Era robusta, alta e tutt’altro che gentile. Mi fissava in fare minaccioso. Portò la sigaretta sulle sue labbra. Non  erano labbra soffici e rossastre, ma ruvide e fredde. Quella figura davanti a me era un uomo.
“Chi cazzo sei?” Mugugnò acidamente.
Io ero rimasto pietrificato. Ora, solo ora non sapevo cosa pensare.
Volevo letteralmente scappare, ancora più veloce di quando avevo salito le scale. 
Il tipo muscoloso, non ottenendo risposta fece una smorfia di disgusto e sbuffò.
“Adrienne, qui c’è uno che ha perso la lingua, è un tuo amico?”
Sentii dei passi. Un viso tondo sbucò dalla porta. Adrienne.
Mi guardò sorpresa. Solo la tv di sottofondo rompeva il silenzio. Cominciammo a fissarci tutti e tre. La situazione ero imbarazzante. Sentivo che avevo fatto qualcosa di sbagliato.
“Sei.. Billie?”
Deglutii. Mi aspettavo che quel punto di domanda si trasformasse in un’affermazione (“Si sei proprio tu! O mio Dio mi sei mancato da pazzi!”) e invece no. Annuii quasi controvoglia. Ma Adrienne era ancora confusa.
“Berkeley, Green Day…”
“Ah si, ora mi ricordo!” 
Calò di nuovo il silenzio. 
“Cosa ci fai qui?” Mi parve di avere una fitta al cuore.
“Non ci vediamo da un sacco di tempo e cosi, visto che io e i ragazzi dobbiamo fare un concerto qui, nei dintorni, ho deciso di venire a trovarti.” Lo dissi nel tono più freddo e distaccato possibile, trattenendo le lacrime. Si ricordava a malapena di me.
“Wow siete famosi anche in Minnesota!” Fece Adrienne, ma senza eccitazione. Dall’ultima volta che la avevo vista sprigionava molta, molta più allegria. Ma ora sembrava stanca e pallida, consumata da non so cosa.
“Chi  è lui?” Feci, riferendomi al tetro individuo.
“Oh ehm..” Balbettò Adrienne. “E’ solo un mio amic..”
“Sono il suo fidanzato.” Annunciò solennemente lui. 
Adrienne sospirò. 
Qualcosa dentro di me stava morendo lentamente. La candela della speranza, si stava spegnendo mentre la sua cera si diradava nelle mie ossa. La cera, ovvero la delusione. Sentii un vuoto. Non era un sogno. Era la vita. Era l’illusione.
“Billie …”
“Adrienne vai a fanculo.”
"Cazzo lo sapevo che sei coglione!”
“Io? Io sono coglione? Non tu che mi hai illuso per tutto questo tempo?”
“Illuso di cosa?”
“Sai benissimo che io sono innamorato di te, fin dal momento in cui ti ho visto!”
“No, non ho mai saputo niente di tutto ciò, non mi hai mai detto niente!” La sua voce era rotta, cominciò a piangere.
“Non mentirmi Adrienne, LO HAI GIA’ FATTO ABBASTANZA!” Gridai in preda all’ira senza neanche sapere se ero io.
“Un ragazzo che non rileva i propri sentimenti è un emerito coglione!”
“Una ragazza che non si accorge di niente o fa finta di non accorgersene è una merda!”
“Fottuto stronzo vai a fumarti altre canne come fai di solito e vattene dalla mia vista!”
“Io sono arrivato fin qui dalla California e tu vuoi cacciarmi?”
“Lasciami in pace cazzo! Cosa speravi che ti avrei riabbracciato dopo circa dieci mesi che non ci vediamo?”
“Almeno riconoscermi!”
“Vai via!”
“Non posso!”
“Vai via ho detto! Ne ho abbastanza di tutto!” Mi chiuse la porta in faccia. Sentivo i suoi singhiozzi oltre il muro.
Scesi le scale lentamente.
Che cosa avevo appena fatto?
Uscii dal palazzo e mi inoltrai in quei vicoletti bui della città. In quel momento dovevo solo camminare. Ho scritto un sacco di canzoni camminando.
Avevo appena rotto un’amicizia che per me era qualcosa di più.
E me ne stavo vergognando.
Una volta lessi in un libro che le persone ricordano solo ciò che vogliono realmente ricordare. Io non volevo ricordare quella litigata, eppure era nella mia mente, ancora.
Ero un perdente.
Non avevo bisogno che qualcuno mi accusasse, perché lei aveva ragione.
Qualsiasi cosa stesse facendo in quel momento, doveva asciugare le sue lacrime.
E io dovevo asciugare le mie.
Era stato un fottuto sbaglio.
Non sapevo perché le avevo gridato contro.
Non sapevo chi ero io.
Ero stato io realmente a litigare? O la rabbia?
Dopo dieci mesi, sentendosi per telefono alcune notti e niente di più, era ovvio che era difficile ricordarmi.
Ed ero patetico.
Dovevo chiederle scusa. In quel momento.
Sentivo gli echi delle sue grida che stavano chiamando me.
Svoltai l’angolo e mi diressi verso il suo palazzo nuovamente. Che cosa le avrei detto?
Salii le scale. Che cosa avrei fatto?
Bussai la porta lentamente. Come avrebbe reagito?
Dopo un paio di minuti la porta si aprii e si richiuse subito appena Adrienne mi scorse.
“Adrienne, per favore apri.”
“Vai via!” La sua voce era ancora rotta.
“Ti prego.”
Passarono altri minuti. Finalmente riapri. Mi fissò con gli occhi pieni di lacrime.
“Posso entrare?”
Esitò, ma alla fine si scansò.
Era un appartamento buio, piccolo e c’era puzza di aria consumata. Solo un letto e qualche altre cianfrusaglia occupavano lo spazio.
“Che cosa vuoi?” Mormorò.
Mi resi conto che quel tipo di prima non c’era.
“Dov’è lui?”
“Sono affari miei.”
Gli lessi nello sguardo che c’era qualcosa che non andava.
“Adrienne, cosa succede?”
“Niente.” Rispose seccamente, sedendosi sul letto, proprio di fronte a me.
Sentii che qualcosa stava per scoppiare. Una rabbia silenziosa. Una sua rabbia silenziosa. Aspettai che rompesse il silenzio. Ma lei non cedeva. La fissai e lei abbassò gli occhi. 
“Tanto a te non importerebbe comunque niente.”
“A me importa invece.”
“No.”
“Invece si. Sfogati. Sfogati finché non mi sanguinano le orecchie. “
Lei... Lei stava urlando in silenzio.
“Sono qui per te.”
Ad un certo punto scoppiò in lacrime e con lei scoppiarono le parole che aveva mantenuto nascoste nella bocca.
“Odio la mia vita. Ross se ne andato chiamandomi puttana, solo perché ti avevo mantenuto nascosto. Vivo in questo buco completamente da sola, il mio lavoro mi permette di vivere qui e non di procurarmi cibo sano. La mia famiglia mi rinnega. Mia madre dice che non sono sua figlia perché a differenza di mia sorella non ho mai terminato l’università, sono la pecora nera. Mio padre è divorato dal cancro che lo ha perseguitato fin da piccolo, ma in questo periodo la situazione è più grave del solito. E poi ho litigato con te. Ho litigato con l’unica persona a cui ancora tenevo.” Parlò tutto d’un fiato tra qualche singhiozzò e mi abbraccio quasi senza accorgermene. Io la strinsi più forte che potevo, fino a sentire le sue lacrime che mi bagnavano i vestiti e l’anima.
Le presi la faccia e la avvicinai alla mia. E la baciai. Lei non si ritrasse.
La baciai come non avevo mai baciato nessuno.
Non riesco a spiegare le mie emozioni in quel momento: quando queste sono troppo forti, nessuna parola puo' descriverle.
  
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