1.
Profumo di fiori, profumo di buono. Profumo di fiori, profumo di buono. Profumo di fio...
Furono
questi odori a destare la piccola Dinah. Si mosse
appena, strisciando sul lurido pavimento della sua cella. Una piccola cella,
senza finestre, senza letto, senza servizi igienici. Ma abbondantemente fornita
di ragni e di topi... più qualche altra bestiaccia proveniente da chissà quale
pianeta.
A nove
anni, era già reclusa come il peggiore degli assassini. Solo che lei non era
un’assassina. Era una gawl, una folle. Nata
marcia, senza qualche rotella; impossibile presentarla in società. Impossibile
tenerla chiusa in casa. Impossibile guardare quei suoi occhi vuoti senza
provare un moto di (repulsione?) dolore.
Meno
male che, anche in quell’epoca malata, i manicomi
esistevano ancora. Si trovavano sui peggiori pianeti, quelli che sembravano
ammassi di fango e sterco, ma volete che un gawl
badi a queste cose? No di certo, no di sicuro! Portateli tutti qua, quelli che
vi nascono spostati! Non vedete che bei residence abbiamo preparato per loro?
“Questo
posto fa schifo” disse la voce femminile.
“E’ il
luogo più anonimo che abbia trovato. Chi la verrà mai a cercare qui?” rispose una voce maschile.
Dinah si sollevò a fatica. Rimase diffidente a guardare la
coppia ferma all’ingresso.
“Ciao, Dinah. Come stai?” domandò la donna, con gentilezza. Era
una creatura piuttosto bizzarra, con lunghe ed esili gambe equine, un torace ed
una testa umana, dalla quale spuntava una testata di capelli simili a tentacoli
che le arrivavano sino ai piedi. Anzi, erano proprio tentacoli, dotati di una
vita propria. Sia quelli che i suoi occhi erano
gialli.
Che era
una persona importante si capiva dal lussuoso abito (ora tutto sporco del
letame di questa prigione! Oh, quale sacrilegio!) che le incorniciava alla
perfezione ogni curva.
Dinah non provava alcun timore per quella creatura. La
conosceva fin troppo bene.
“Ciao,
mamma. Ciao, papà”, li salutò con voce flebile. Mosse piano la piccola manina,
sporca come tutto il resto.
Suo
padre si scompose appena. Lui era un essere umano normale. Antipatico, ma
normale. E non apprezzò quell’appellativo rivolto
alla propria persona.
“Sa
parlare?” domandò, rivolto alla consorte.
“Certo”
lei la guardò con un’enorme pena. “Sa fare cose che non puoi nemmeno
immaginare”. Guardò il marito, i grandi occhi gialli carichi di un sentimento
che la piccola Dinah non seppe definire con esattezza.
“Se non ti spiace, vorrei restare cinque jakos sola con lei.”
“Come
vuoi” a Dianh parve che il padre non vedesse l’ora di
togliere il disturbo. Difatti, il genitore trotterellò via più in fretta che
poté.
“Dinah” sua madre si era accucciata accanto a lei. “Mi
dispiace, mi dispiace davvero. Ma non posso dirgli la verità. Oh, scusami!” la
prese, e la strinse forte a sé. Dinah non si ribellò.
Per lei andava tutto bene, finché non c’era diretto contatto fisico, pelle a
pelle. Se gli abiti impedivano ai loro corpi di toccarsi, allora l’abbraccio
era accettabile In caso contrario, sarebbero rincominciati gli incubi. E lei
non li sopportava più, gli incubi.
“Giuro
che un giorno capirai, te lo giuro!” sua madre non piangeva. Lei non era un umana. Solo gli umani, tra tutte le razze, avevano
sviluppato la capacità di piangere. “Ci sono cose molto grosse che bollono in
pentola, e noi due non siamo che pedine di una grande partita! Dobbiamo fare la
nostra parte. Anche se è straziante”.
Dinah non capiva niente, ma cosa le importava? Era già da
un po’ di tempo che l’avevano rinchiusa in quel posto orribile; tutto ciò che
contava era che ora la mamma la coccolava di nuovo. E senza diretto contatto
fisico. Tutta qui, la felicità era tutta qui.
Sua
madre la allontanò, e se la rimirò ancora. Quegli aguzzini dei suoi carcerieri
le avevano tagliato la lunga chioma castana fino a ridurla ad un caschetto asimmetrico; gli occhi erano sempre dello stesso
color nocciola, ma ora parevano privati di una qualsiasi voglia di vivere. E il
corpo dava già segni di una grave denutrizione.
“Un
giorno capirai” ripeté la madre, caparbia, quasi volesse
convincere sé stessa. “Il giorno in cui ti ricorderai questo”.
Con una
mossa fulminea (la sua è la razza più veloce dell’universo, e ce ne accorgiamo!)
le aveva spostato una manica, stringendole forte la pelle del polso. Come ogni
volta che le capitava la disgrazia di sfiorare qualcuno, la mente di Dinah fu investita di emozioni, immagini.
Aprì una
bocca per urlare, ma l’altra mano di sua madre era già scattata per
tappargliela.
Fissò i
suoi occhi gialli in quelli della figlia, ammaliandola, incatenandola con quel
suo sguardo dalle proprietà sovrannaturali. “Ora dimenticherai tutto questo, Dinah, mi hai capita? Dimenticherai il mio nome ed il mio
aspetto. Dimenticherai dove sei nata. E dimenticherai tutte i
pensieri che stai leggendo nella mia mente.” parlava
con voce calda e molto rilassante. Il respiro della bambina si fece sempre meno
affannato, fino a tornare normale. Gli occhi erano spenti. La sua mente non era
lì. La sua mente era fusa con quella della madre. Tutto a causa di quel
maledetto contatto fisico.
“Un
giorno, questi ricordi ti torneranno utili. E allora potrei risvegliarli” Dinah ondeggiava leggermente, vittima dell’ipnosi.
“Adesso
dormi, piccola mia”.
Si
sdraiò su di un fianco, sola sul quel freddo, sporco pavimento. Chiuse
placidamente gli occhi, sprofondando in un sonno profondo.
Quella
fu letteralmente l’ultima volta che Dinah vide sua
madre. Anche perché, quando si svegliò, non ricordò nemmeno di averne una.
2.
Otto anni più tardi.
3.
La grande nave spaziale sfrecciava tra le stelle,
nell’iperspazio.
Il
comandante Jans-Do Nigel
osservò soddisfatto la strana scacchiera di fronte a sé. Ogni casella era di un
colore diverso, e lui ed il suo anziano avversario muovevano pedine dall’aria
non troppo rassicurante.
“Dubito
che riuscirai a parare questa mossa, Gabel” disse,
nel suo perfetto accento.
“Dice
così, il signore, ma si sbaglia” il vecchio aveva un accento più provinciale,
ma lo compensava con un cervello piuttosto fino. Prese quella che sembrava
un’arpia con quattro braccia, e la spostò al posto di un grande toro. “Ho
vinto, comandante. Per la... mmh, quante sono...? Oh, sì: questa è la settecentoventiquattresima
volta!”
“Sarai
vecchio, ma i conti li tieni ancora bene!” Nigel
sorrise, si alzò e si stirò i muscoli, soddisfatto.
Ventuno
anni e già comandante. Una media niente male. Se poi consideriamo la missione
che gli era stata affidata... beh, i suoi genitori non avrebbero potuto fare a
meno di essere orgogliosi di lui.
“Comandante”, lo chiamò la Signorina Quitty,
osservando lo schermo della sua postazione. “Siamo quasi arrivati”.
Nigel andò vero la sua postazione. Era alto, con due grandi
spalle e capelli biondi. Muscoloso e dagli occhioni
blu. Che altro avrebbe potuto prendere una ragazza?
L’aveva
fatto più volte notare alla giovane e graziosa signorina Quitty.
Ma ogni volta lei gli aveva fatto notare di essere seriamente fidanzata con un
bestione di Alpha Bsx23, nella galassia Fgr4. Una
bella sfortuna.
Nigel si chinò per osservare lo schermo. “Perfetto. Date
l’ordine di atterrare!”
Leena Quitty osservò il pianeta
davanti a loro. Sembrava una palla di fango e sterco.”Oggi ci trattiamo bene,
comandante” , disse, storcendo il naso. “Sembra un
posticino per ricconi”.
“Non ti
preoccupare” la rassicurò lui. “Da vicino farà ancora più schifo”.
Leena sorrise, quindi indossò il suo auricolare da
Navigatore di Bordo: “Qui è la Nave Governativa 123 bis. Chiediamo permesso di
atterrare sul vostro pianeta.”
Vi fu un
attimo di pausa, poi una vocina affannata rispose: “Nave Governativa? Qui tutto
a posto, tutto in regola! Voi non deve preoccupare, se noi ha dei problemi,
chiama immediatamente voi!”
Nigel rimase un attimo interdetto. Ma solo un attimo. “Dica
a quel cretino che se non ci fa atterrare subito, ordinerò un’attenta analisi
fiscale dei loro registri”.
Doveva
essere una minaccia piuttosto convincente, perché cinque minuti dopo
comunicarono a Leena che il ponte 15 era libero e che
sarebbero stati accolti con grande piacere.
3.
“Avete
visto? Non mangia!” una risata fredda e malvagia.
“Meglio,
ti dico. Meglio! Ne rimane più per noi!”
“Quella
tra poco crepa, oh, poco ma sicuro!” una mano s’insinuò tra le sbarre che
delimitavano il confine tra le due celle, e afferrò il vassoio.
“E se crepa,
noi a quale cretino rubiamo la cena?”
“Siamo
in un ricovero per gawl, Dank.
Qua è pieno di cretini” la voce ci aveva un po’ pensato su. “Te compreso!”
aveva urlato poi, abbandonandosi a un eccesso di risa.
La mano
aveva iniziato a tirare il vassoio. E allora lei era scattata.
Veloce
come il lampo. In fondo, era la figlia di una delle creature più veloci
dell’universo.
Afferrò
la mano del ladro, stringendola più forte che poteva. E soffrendo.
Paura morte, omicidio, paura, dolore, dolore, dolore e
solitudine, dolore, omicidio, e morte, paura...
Le
visioni che si accavallarono nella sua mente erano peggiori di un incubo. Lame
infilzate della sua anima.
E
provenivano tutte dalla sporca e malata mente di quel malvagio ladro di vassoi.
Dinah spalancò la bocca in un urlo agghiacciante. Doveva
mollare quella mano! Doveva! Ma che fine avrebbe fatto la sua cena? Rubata da
quegli idioti della gabbia accanto...
No.
Questa volta no. Questa volta non lo avrebbe
permesso.
Morte paura
SOLITUDINE! E morte, morte dolore, omicidio, dolore,
paura...
Dinah non la smetteva di urlare. Attirò l’attenzione dell’intera
prigione, strillando come una condannata a morte; chiuse gli occhi, strinse i
denti, e pianse per quella tortura.
“Dank, molla quel vassoio! Non vedi che questa è più gawl di te e me messi assieme?” il complice di Dank aveva ragione. Oh, sì. Lei era molto più malata di tutti pazzoidi del pianeta! Di tutti i pazzoidi dell’universo!
Dank mollò il vassoio. Lei mollò la mano di Dank. E la calma tornò a regnare nel pianeta-manicomio.
Lacrime
rigarono le guance di Dinah. Sola, infreddolita e sporca. Ma aveva la sua cena.
Avrebbe dovuto rallegrarsi, ma perché sorridere di fronde ad una sbobba sana
quanto una zuppa di ratto?
A meno
che non fosse proprio zuppa di ratto.
Le
spalle di Dinah tremavano, scosse da singhiozzi a
stento trattenuti. Perché piangere, poi? A chi sarebbe interessato?
Per un
attimo, un terribile attimo, avvertì l’impulso di gettare via il pasto, di
chiudersi in un angolo sino a che la morte non l’avrebbe
portata via. Eppure non poteva. Qualcosa
dentro di lei le imponeva di continuare a vivere.
Ma prima
o poi sarebbe riuscita a dominare questo impulso. Ed allora sarebbe riuscita a
morire.