Anime & Manga > Capitan Harlock
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Autore: Nausicaa Di Stelle    09/10/2007    9 recensioni
In un mondo sospeso tra sogno e realtà Harlock combatte con le sole armi della parola per Colei che ha amato in un tempo lontano.
Genere: Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Harlock
Note: Alternate Universe (AU) | Avvertimenti: nessuno
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L'amore che fu mio

“Nel fosco sentiero d’un sogno
andai a trovare l’amore che fu mio
in una vita precedente” (Tagore)



Nel limpido chiarore del cielo si stagliavano solo poche nubi, calde e leggere, mentre un dolce vento d'estate le sospingeva lontano, verso orizzonti d’opale e fuoco.
Un rigoglioso mare d'erba, costellato di narcisi selvatici, si agitava sinuoso alla brezza che piegava i flessuosi cespi della lavanda e faceva tremare le foglie dell'edera, avvinghiata ai muri di un vecchio fienile sferzato dal sole.
Fra le ombrose fronde di una possente quercia filtravano sottili lance di sole, che puntellavano il terreno sottostante d'iridescenti giochi di luce.
Harlock era disteso in quell'ombra fresca e tranquilla, un braccio dietro la testa e gli occhi chiusi. Pareva dormire. Ma il fruscio insistente e ritmico delle lucide foglie scure aveva catturato la sua attenzione: era un suono dolce simile al rumore lontano del mare.
Tra i rami più alti dell’albero, il fresco canto di un merlo si elevava al cielo.
Harlock non pensava a nulla: era come se quel mattino di luce fosse entrato in lui, pienamente, e riempisse la sua anima fin nei recessi più occulti. Un chiaro oceano d’oblio lo trasportava lontano, dentro di sé, nel più immenso silenzio.
D’improvviso, un’ombra lunga e leggera si distese sul suo corpo, oscurando il sole. Harlock riaprì gli occhi, richiamato con violenza alla superficie della coscienza: una giovane donna era in piedi davanti a lui, silenziosa, bella. Un puro fiume d’oro le scorreva tra i lunghi capelli mossi dal vento, e la pelle era luminosa, come pervasa da un sole interiore.
Il giovane non disse nulla: con il busto appena eretto, un braccio poggiato sull’erba per sostenersi, fissava gli occhi di quell’apparizione: possedevano lo stesso azzurro infinito di quel cielo d’estate.
E lei pareva disposta a restare lì, immobile, per tutto il tempo in cui lui avesse desiderato guardarla, indagandone il viso e il corpo.
- Chi sei? – le domandò d’un tratto, riemergendo da un sogno antico. Ma non ci fu risposta. Lo fissò soltanto, dolcemente interrogativa: “Non mi riconosci più?”, pareva chiedergli.
Harlock rimase turbato da quello sguardo: per un istante, gli sembrò che una lunga vita polverosa si dispiegasse davanti ai suoi occhi, fulminea. Una vita lontana e cara in cui l’aveva conosciuta. Ma non riusciva a ricordare il suo nome.
Rimase di nuovo in silenzio, per brevi istanti che passarono lenti: pareva che l’eternità si fosse distesa fra loro.
- Chi sei!? – ripeté, imperioso; ma un soffio d’accoramento gli tremava nella voce.
Lei lo guardò senza replicare e si voltò, scendendo lungo il ripido pendio erboso. Harlock se ne rese conto solo quando si era ormai allontanata e il suo vestito leggero si confondeva fra i tarassachi in fiore della campagna.
- Aspetta… - gridò, balzando in piedi e correndo verso di lei, mentre il vento era diventato fresco e gli sferzava il volto e il petto semiscoperto.
Per quanto Harlock si sforzasse di raggiungerla, la giovane era sempre lontana, come se una distanza più forte di quella fisica li separasse.
Attraversarono a perdifiato i prati luminosi. Nei campi lì accanto cresceva il grano in grosse spighe, mentre lo scuro profilo dei fossi, verdeggianti d’erba nuova, divideva il terreno in appezzamenti di varie dimensioni. Tutto era immobile sotto il sole, permeato di muta attesa.
Soltanto quando l’aveva ormai perduta di vista il giovane si fermò, ansimante. Si piegò, appoggiando le mani sulle ginocchia e respirò profondamente per alcuni secondi. Accarezzate dal vento, alcune pianticelle d’iperico si strofinavano contro le sue gambe.
- Dove… dove sei andata… - mormorò, senza rialzare il volto.
Sentiva che doveva trovarla: a qualunque costo avrebbe dovuto raggiungerla, rivederla; specchiarsi nei suoi occhi per ritrovare una parte di se stesso. Era in lei che una vita lontana scorreva, come un lento fiume: una vita che gli apparteneva!
Quando alzò il viso, un paesaggio che non aveva notato stava davanti a lui, in tutta la sua evidenza: una bianca strada serpeggiante, sassosa, si snodava fra l’erba e conduceva ad un piccolo borgo di case, circondate d’orti rigogliosi. Laggiù, tutto era immerso nel caldo silenzio del primo pomeriggio. Quell’atmosfera sospesa aveva in sé un fascino magico e seducente, quasi che il tempo avesse smesso di scorrere fra le vie del paese.
Harlock ne fu attratto irresistibilmente e si mosse: attraversò il prato obliquamente, fin dove l’erba raggiungeva i margini della strada, proseguendo poi verso quel gruppo di case addormentate sotto il sole.
- Probabilmente – diceva tra sé – quella giovane sarà qui, in una di queste abitazioni.
Si fermò solamente quando giunse nell’ampia piazza circolare, al cui centro una fontana di pietra gettava freschi spruzzi verso il cielo. Tutto era silenzio; solo, di tanto in tanto, si levava il lontano frinire di una cicala solitaria.
Si guardò attorno, socchiudendo gli occhi per la troppa luce: non c’era nessuno. Eppure sentiva che dietro le mura di quelle case c’era vita, una vita assonnata che si concedeva il giusto riposo.
D’improvviso, provò il peso di tutto quel sole e di quel calore e si sedette lungo i bordi della fontana, ombreggiati dall’acqua che scaturiva a fiotti. Si allungò verso uno di quei getti e raccolse nelle mani un po’ d’acqua, portandola alle labbra. La gustò lentamente: gli pareva che avesse un sapore nuovo, sconosciuto e la sua pura freschezza placò presto la sete.
Ma quando stava bevendo l’ultimo sorso, nella poca acqua rimasta nel cavo della mano, vide riflettersi il viso di quella donna dai lunghi capelli di sole. Harlock trasalì e rialzò la testa: era lì, di fronte a lui, e lo fissava come se aspettasse qualcosa.
Questa volta, il giovane reagì d’istinto: s’alzò di scatto e le strinse le braccia con le mani, fredde e bagnate, cercando invano nella sua mente le parole che tanto aveva desiderato dirle. Pareva che il cuore gli scoppiasse nel petto, per il dolore che all’improvviso lo aveva assalito: quelle parole che gli si agitavano nel cuore avevano più importanza della sua stessa vita. Le era andate cercando attraverso il tempo e il fango delle vite passate non avevano potuto cancellarle; ma troppo profondamente stavano sepolte, erano troppo lontane!
Harlock ansimava piano, le labbra vicine a quelle di lei, i loro respiri confusi in un unico soffio. La giovane aspettava ancora, muta, come se solo lui potesse ridarle la voce. Quella voce che doveva essergli tanto cara.
Quanto tempo trascorsero in quell’abbraccio, Harlock non seppe mai dirlo: un minuto un giorno o una vita intera. Ma quando lasciò scivolare le mani lungo le braccia di lei, nulla era cambiato attorno a loro.
In tutta quella luce radiosa, egli si sentiva prigioniero del buio più sordo e desolato.
Teneva la testa china e si fissava le mani senza attenzione alcuna, cercando dentro di sé una soluzione, una spiegazione per tutto questo. Ma all’improvviso, notò che il corpo di lei stava sbiadendo: le braccia leggermente abbronzate perdevano di vigore, il vestito arancio sfumava sempre più i suoi toni, le lunghe gambe sinuose si scoloravano, divenendo quasi trasparenti. Rialzò la testa di scatto, fissandola in viso: un pallore cinereo lo ricopriva mentre attraverso di lei si distinguevano con nitidezza le scure sagome degli edifici.
- No! – gridò Harlock, allungando le braccia per afferrarla. Ma le mani strinsero il vuoto.
- Che succede? Che cos’hai? – la giovane non rispose. Lo guardò con occhi colmi di dolore, stendendo a sua volta le braccia verso di lui: la distanza che li separava era diventata disperatamente profonda.
- Aspetta… non voglio lasciarti andare così! Aspetta!
Sotto il sole divenuto accecante, il corpo di lei si dissolse completamente, come un improvviso riflesso scompare dall’acqua.
- No… Io so il tuo nome! Aspetta. Aspetta! – le sue grida sgomente riecheggiarono in lontananza, contro la facciata liscia della chiesa sulla collina. Ma nel piccolo borgo assonnato nessuno aveva udito: nessuno s’affacciò, nessuno uscì.
Harlock rimase solo nella piazza. La fontana gorgogliava fresca, gettando in alto le sue liquide braccia. Le imposte di una locanda cigolavano debolmente, spinte da un sottile alito di vento. La cicala lontana taceva, trattenendo il respiro e i gigli della campagna scuotevano i loro petali, piegandosi flessuosi verso terra.
- Ah… - Harlock si guardò attorno, girando lo sguardo su tutta la piazza – Dove sei andata… Dove?
Attese, ascoltando il vento frusciare alto sopra gli alberi. Era un vento caldo di scirocco e portava nascosto tra le sue pieghe ariose l’odore salmastro del mare. Levò in alto gli occhi, verso il cielo, sempre limpido e azzurro, senza nubi.
Mentre stava così, un’ombra simile ad ossidiana si distese sul lastricato della piazza, alle sue spalle, lambendogli con l’estremità superiore i piedi e le gambe. Improvvisamente, il giovane percepì quella presenza e si voltò: non c’era nessuno. Solo quella lunga ombra sottile che usciva sinistra da un vicolo buio e si distendeva su metà del piazzale. Era l’ombra di un uomo.
- Chi sei? – lo interrogò subito Harlock, imperiosamente.
Ma non venne risposta.
Intanto, nell’opaco silenzio che aleggiava tra loro, piccole voci si alzarono vibrando, come le corde di pallide arpe perdute.
Inizialmente Harlock non percepì nulla, ma dopo alcuni istanti quel suono inusuale giunse alle sue orecchie. Allora si pose in ascolto e udì distintamente:
“Lei ha perduto la sua voce d’oceano…”
“La sua voce d’abissi di stelle…”
“Troppa terra è passata sul suo corpo.”
“Troppa terra è scesa in quel petto…”
- Ah… che significa? – mormorò Harlock, con gli occhi rivolti agli alberi di robinia, che spandevano rotondi profumi nell’aria. - Parlano di lei… ma da dove giungono e chi sono?
“Lui non riconosce quel volto…”
“Lui non ricorda quel nome.”
Ripresero cantilenanti le voci segrete.
“Eppur è sceso con lei tra l’erba…”
“Eppur si è disteso con lei sotto i fiori…”
“Lui non ricorda quel nome… quel nome lui non ricorda …”
Le voci, fattesi acute e veementi, presero a ripetere con forza quell’unica frase. In alto, sopra gli alberi e le case, tutto sembrava divenuto un girotondo vertiginoso di parole nettamente scandite.
Sempre muta, l’ombra distesa sulle pallide pietre staccò un braccio dal suolo, alzandolo alto, alto, verso il cielo.
Stordito e confuso da tutti quei segni, Harlock si portò le mani sulle orecchie, chinando la testa. Ma ogni parola raggiungeva ugualmente i suoi sensi.
“Lui non ricorda quel nome… lui non ricorda quel nome… Era il nome di Lei, e lo ha scordato… Non ricorda quel nome!”
- Non è vero! – gridò Harlock d’un tratto, rialzando la testa – So come si chiama!
- Dimmi il suo nome! – ordinò l’Ombra.
“Menti ora, mentivi un tempo: tu non sai, non sai, non sai…” Ripresero le voci con insistenza.
- No! Io conosco il suo nome, l’ho sempre saputo! Il suo nome è Amata! – il grido di Harlock arrivò in alto, oltre gli alberi, il cielo e le voci. Vibrante e chiaro, attraversò il cosmo.
In quell’istante cessarono tutte le parole, la lunga ombra buia scomparve, dissolvendosi in polvere che il vento disperse, le rondini volarono per il cielo, sfiorando i tetti delle case e lontano, chissà dove, un merlo prese a cantare una serena melodia.
In quella calma ritrovata, Harlock prese la parola con forza e disse:
- Ah, città fantasma di silenzio e nulla, rendimela! Rendimi il profondo sole dei suoi capelli, le sue labbra di frumento che per secoli hanno dato vita alla terra, le stelle fredde dei suoi occhi che ho attraversato nella notte, le braccia d’aria e di burrasca, i gigli della sua veste sottile, l’anima chiara della mia anima. Restituiscila! L’Amore ha ricordato il suo nome, lei non è più una fra le altre: ha un’eco chiara nella voce e le sue pupille brillano come due pietre d’opale nella notte. Riconosco la musica dei suoi passi. Ogni fiore sbocciava per lei nell’aurora e l’erba era verde e fresca sui prati come il nostro amore…
Tutt’intorno ad Harlock la città prese a girare vorticosamente, come in una giostra fantastica, e le case, le vie, gli alberi e i vigneti scivolarono e si confusero gli uni negli altri, allo stesso modo in cui la spuma del mare è inghiottita nuovamente dall’onda. Intanto la luce del sole era sempre più abbagliante e dissolveva le forme e i contorni di tutte le cose, come se un primigenio caos prendesse nuovamente il sopravvento sul mondo e le sue sostanze.
Tutto si sottometteva all’uomo che combatteva disarmato, impugnando solo la potenza della parola.
- Rendimi la mia Donna! Città d’ombra e di vuoto, apri le tue fauci di belva insaziata. Restituiscimi colei che dava luce al mondo: luce della luce, spiaggia delle stelle, nave trasparente attraverso i sentieri del crepuscolo, vento d’estate, l’Eletta. Attraverso il tempo e la buia terra il suo corpo è sopravvissuto: la Morte che è scesa in lei non l’ha vinta, non ha deturpato il suo cuore d’uva selvatica. Rendimi la Donna che con il suo Spirito ha dato vita all’universo: nelle sue braccia stanno la sera e il mattino, tra i suoi seni di rose trovano senso lo scorrere impietoso dei giorni e ogni fiore che muore senz’essere sbocciato! Ridammela! O il mio corpo distenderà qui lunghe radici di pietra e, finché non rivedrà il suo volto, scorrerà sotterraneo sotto le tue fondamenta fradice e divellerà questa città e i fantasmi timorosi che la popolano!
D’improvviso, l’acqua della fontana scaturì con forza, levandosi in enormi getti verso il cielo, mentre la fontana stessa si sgretolava, divenuta d’un tratto vecchia pietra corrosa dal tempo. Come da un enorme geyser, l’acqua sgorgava, ma fresca, limpida e pura. E in mezzo a quell’acqua, lentamente, si delineava sempre più il luminoso corpo di Lei. Ogni parte della sua persona, che il tempo e la dimenticanza avevano cancellato, veniva ora restituita da quella liquida freschezza. Il giovane contemplava quella rinascita in silenzio, con negli occhi una profonda luce di gioia. Pian piano, le membra di Lei ripresero sostanza, furono vive, radiose, come Harlock le ricordava. E quando ogni cosa fu compiuta, la Donna aprì i suoi occhi di sole e li posò su colui che amava. Non parlò, ma egli udì ugualmente la sua voce:
- Come stai, amico mio? – gli chiese.
Ah, era la stessa di sempre: voce di vento, di ruscello e cascata, voce traboccante di luce, vestita dall’aurora, profumata come il mare e i bianchi gigli della terra.
- Bentornata… - rispose Harlock, tendendole la mano.
Ma Lei non si mosse. Allungò le braccia verso di lui e gli sorrise. Harlock comprese: abbassò la mano e, rispondendo a quel sorriso, si mosse verso il getto d’acqua che la custodiva. Vi entrò. Un immenso, puro fiume lo attraversò completamente, penetrando nel più profondo del suo essere.
- Bentornato… - gli disse lei a sua volta, andandogli incontro.
Harlock l’abbracciò: da quanto tempo le mancava la sua pelle! Com’era possibile che le fosse sopravvissuto, attraverso i secoli? Come aveva potuto non accorgersi che mancava la Vita alla sua vita?
Nell’acqua, nella luce, i loro corpi si fusero in un luminoso abbraccio colmo d’estasi e d’abbandono. Le lunghe dita di Lei stringevano quelle di Harlock, le loro labbra si cercavano per parlarsi sempre più intimamente, ed ogni oggetto o indumento che ricopriva i loro corpi si dissolse in vapori vaghi e iridescenti. Rimasero solo i loro corpi, nudi e splendenti, così profondamente confusi che non esistevano più due esseri, ma un’unica entità non più divisibile, due anime unite per sempre.
Intanto la dimensione del getto d’acqua cresceva sempre più in ampiezza e nascondeva i due amanti da ogni sguardo, sottraendoli a tutto ciò che era terreno e mortale. Finché d’un tratto, gettando verso i più alti strati del firmamento un enorme flutto trasparente, anche il geyser s’acquietò del tutto, rimanendo soltanto una larga bocca di terra, immobile tra l’erba e il grano dei campi.
Non c’era più nessuno. Il vento s’alzò, caldo e lento, soffiando sui narcisi e sui papaveri sonnolenti. Lontano, le cicale frinivano numerose, senza posa e tra i rami del noce nero l’allodola cantò, vibrando la sua musica con malinconica dolcezza.
   
 
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