Silver
Gleam
Cronache di Morte
d’un Corpo Celeste
Ridere e fluttuare nel cielo.
Le uniche due cose che Fauve amava
veramente.
Amava
anche sognare.
Sognava
dell’incorporea parete dell’Universo, perennemente
blu, come i suoi occhi.
Lassù non avevano specchi, ma le sue adorate sorelle
là accanto le fornivano
spesso informazioni sul suo aspetto.
Océane
la esaltava parlando delle sue ciocche fiammanti. Ebe era una vita che
le
faceva notare che anche le sue lentiggini color nocciola brillavano di
luce
propria. Lilac diceva di avere il suo stesso naso
all’insù.
I
complimenti le scaldavano il cuore, e, a sua volta, i complimenti che
rivolgeva
alle sorelle erano finalizzati a scaldare loro il cuore e risplendere e
brillare come diamanti.
Non
per illuminare ogni cosa gli si parasse davanti o anche anni luce di
distanza, come
si era messo in testa quell’esibizionista di Sole, che
essendo un noto
scansafatiche, lasciava sempre le cose a metà,
cosicché Luna, che anche gli
Asteroidi predicavano come una pettegola decisa a prendere parte a
tutti gli
eventi più importanti della Storia, doveva illuminare il
Pianeta cui faceva da
satellite per le dodici ore in cui Sole si dedicava ad altri ammassi
gassosi,
se voleva persistere nel ficcanasare sui fatti Terrestri.
Figlie
della stessa curiosità di Luna, tutte le Stelle, dalle
neonate alle eterne
giovinette di mezzo millennio, ogni sera della loro vita si
affacciavano sopra
le curve della madre per sbirciare le lingue di terra che galleggiavano
costantemente su quell’acqua che, si diceva, era parecchio
salata.
Una
stella era la più curiosa di tutte, e Lilac con Ebe ed
Océane glielo avevano
insegnato quando era solo una mocciosetta dal liscio caschetto color
tramonto.
Le
sue tre sorelle più vicine le avevano detto che la
chiamavano in tanti modi.
Per alcuni era
Le
raccontarono che un dì al crepuscolo, quando lei non era che
una reazione
chimica alle loro spalle, Verena, una stella dai riccioli di cromo,
decise di
lanciarsi anni luce più avanti e, passando, voleva domandare
il nome a quella
sorella che si era stanziata laggiù, vicino alla Madre.
Ogni
settantasei anni Verena ripartiva per il suo breve viaggio, lasciando
una scia
così luminosa che gli abitanti della Terra la scoprirono, e
un signore si ostinò
a chiamarla come la sua cometa,
cosa
che l’aveva irritata non poco. E a quanto pare
quell’uomo lo lasciò detto anche
ai posteri, poiché oggigiorno alle sorelle lontane, Verena
è conosciuta anche
come la cometa di Halley.
In
questi millenni che Verena ha sempre ripetuto il suo viaggio
innumerevoli
volte, non risolse mai il suo dubbio, perché quella stella
che milita laggiù al
fianco destro della madre è ancora un incognita per tutte le
altre.
Una
sera era la trentamiliardi e millequattroncentocinquantaseiesima volta
che
Verena partiva alla volta della vera identità di Vespro.
Ebe, Lilac ed Océane
svegliarono la loro sorellina più giovane non appena il Sole
diede le spalle
all’Inghilterra.
«Fauve,»
le dissero «guarda come Verena si rimbocca le maniche della
veste! Guarda come
si tira all’indietro i riccioli grigi!»
Fauve
aveva allora aperto gli occhi con aria ancora sognante. Aveva schiuso
la bocca
impastata in uno sbadiglio rumoroso e poi sentì in vento
cosmico sferzargli le
orecchie.
Non
era più al suo posto. Océane non era
più alla sua destra, e non c’era nessuna
Lilac alla sua sinistra. Ebe non era più alle sue spalle per
proteggerla. I
loro bagliori e i loro complimenti non c’erano
più: niente le poteva scaldare
più il cuore. Le loro urla la raggiungevano indistinte.
Verena
l’aveva urtata mentre sfrecciava a grande velocità
facendola scivolare via
dalla sua postazione. Precipitava nel vuoto, nel nero più
nero. Centinaia,
milioni, miliardi di sorelle appese in alto le scivolavano accanto con
i loro
bagliori. Aveva appena il tempo di scorgere le loro espressioni turbate
e le
loro luci argentee, rosse, blu e d’oro colato. Non troppo
lontana, Verena
lasciava la sua scia alla destra di Luna. E si teneva una mano sulle
labbra
perlacee, cercando di trattenere le lacrime.
E
Fauve gridava e precipitava. Il terrore l’aveva assalita: si
sarebbe schiantata
sulla Terra e sarebbe diventata niente poco di meno che semplice,
banale,
fredda pietra. Attraversare gli strati dell’atmosfera
terrestre non era una
sensazione piacevole: c’era troppo caldo, troppa luce e
l’aria era rarefatta.
Vorticava
ad una velocità incalcolabile nel cielo limpido e senza
nuvole che si
rifletteva sull’acqua sottostante. Non appena avesse toccato
l’acqua sarebbe
annegata e avrebbe scatenato un maremoto. E continuò ad
urlare con tutto il
fiato che aveva in gola mentre i capelli le frustavano il viso e gli
occhi
lacrimavano.
A
fatica si schermò la faccia con le mani e aprì
gli occhi il tanto che le era
consentito. Chiazze color seppia, chiazze di verde, chiazze color
carbone. Non
c’era più il mare sotto di lei.
Esplose
urtando la dura terra, un centimetro della sua pelle candida
bastò a scavare un
cratere dal diametro di un chilometro e altrettanto profondo.
Prima
di svenire, l’unica cosa di cui si rese conto fu di avere
ancora la sua forma
originaria e di non assomigliare affatto ad un freddo sasso. Non si
spiegò, e
né volle sapere come ciò era possibile.
Calò le palpebre livide sui begli occhi
color zaffiro e si addormentò brillando di
felicità per la sua vita non ancora
estinta, ascoltando il battito del suo cuore.
Una
strana musica soffiava in sottofondo, trasportata dal vento.
«Dove?
Dove l’hai trovata Sorella mia?» disse una voce.
«A
ovest, come avevano predetto le tue viscere di lupo, mia adorata
Sorella.»
rispose una seconda voce.
«Sorelle,
guardatela! Brilla ancora! È magnifica!», si
aggiunse una terza.
Fauve
non aprì gli occhi. Immaginava di essere fra le sue sorelle.
Quelle tre voci
erano così realistiche! Forse Océane e le altre
erano tornate a prenderla.
Forse Luna aveva buttato giù Verena e l’aveva
castigata per la sua sbadataggine,
e poi aveva mandato le sue sorelle per salvarla.
«Si,
mie due amate: risplende ancora del suo etereo bagliore. Eppure la
trovo così
piccola.»
«Effettivamente
è parecchio gracilina. Le sue ossa sembrano buche come
quelle degli uccelli.»
«Care,
probabilmente non avrà più di mezzo
secolo…»
«Secondo
me ha un lustro!»
«La
sua età non conta. Ce la faremo bastare, madame
mie.»
«Ma
per essere al meglio, Sorella, deve brillare come non mai!
Dev’essere fresca
come un pesce appena tirato su dall’amo!»
Le
cispe agli angoli degli occhi le graffiavano la pelle, e Fauve tenne
gli occhi
socchiusi, schiuse le labbra e balbettò «S-sorelle
mie…»
Sentì
mani ruvide carezzargli l’ovale del volto e scendere sul
collo. Le mani erano
due, quattro, sei. E tutte si fermarono sui suoi seni acerbi.
«Tenetela
ferma. Devo essere precisa nell’incisione.»
«Svelta,
continuerà a brillare al ricordo delle sue sorelle, non alla
vista di tre facce
fameliche.»
La
strega più vecchia e logora levò
l’anziano braccio nell’aria e fece sibilare la
lama d’ambrosia.
«So–
»
Un
liquido argenteo schizzò sulle sue logore guance.
Una
mano alzò una morbida pietra grigia che splendeva e pulsava
alla fioca luce
della stanza. Un’altra mano reggeva una lama ambrata sporca
di uno strano olio
scuro e appiccicoso color dell’argento colato.
Tre
streghe si leccarono le dita unte di quell’effluvio ferreo e
bisbigliarono in
coro:
«All’eterna gioventù.»
A mio padre, anche se non so se gli darò mai il permesso di leggere ciò che ho scritto.
A mio nonno, perchè mi piace pensare che avrebbe apprezzato la mia dedizione per qualcosa che amo.
A mio cugino, perchè ha dimostrato a tutti che se lo si vuole veramente, non è difficile uscire da un buco nero.
A lui, la mia stella,
perchè anche se non lo vedo non vuol dire che non esista o
che non stia brillando. Lui c'è e ci sarà sempre.