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Autore: The queen of darkness    29/03/2013    2 recensioni
Ok, lo so che non dovrei con altre storie in corso, ma non ho proprio resistito. Naturalmente non ho nessun diritto di manipolare le vite di questi stupendi musicisti e so che sarà uno strazio, quindi ci tengo a sottolineare che tali eventi non sono mai accaduti sul serio, ma sono solo frutto della mia mente perversa e malata. Detto questo, spero vi divertiate
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il salotto del piccolo appartamento, anche se abitato da solo tre figure, non era mai stato tanto affolato: sul divano bi-posto, Bridget teneva le gambe accavallate e l’aria guardinga, dopo aver abbandonato il libro che stava leggendo. Vicino a lei, la nuova arrivata se ne stava composta nel suo angolo, reggendo soddisfatta la tazza di thé che il cantante le aveva offerto.
Lui se ne stava in disparte, sulla sedia che aveva trascinato dalla cucina, incastrato in un posticino minuscolo fra un tavolino basso e la TV. Non poteva muovere le braccia per paura di spaccare qualcosa, anche se sapeva che non sarebbe stato necessario; se aveva abbandonato il suo posto sul suo divano, non era tanto per galanteria d’altri tempi, bensì per la ripugnanza che provava verso l’insegnante lì seduta.
Nel frattempo, Eliza sorseggiò la bevanda calda, e per un attimo il suo viso venne avvolto da una nuvola di vapore.
Brian non riusciva a capire chi fosse, o dove l’avesse già vista. Le guance morbide non gli erano familiari, ma nel complesso quel viso gli rievocava ricordi confusi. Aveva abbandonato l’idea che provenisse dal suo passato, poiché in tal caso non sarebbe stato tanto felice di vederlo. Le ventenni carine che avevano avuto a che fare con Marilyn Manson raramente gli andavano a fare un’altra visita di cortesia.
Tuttavia gli era parso sgarbato mandarla via, e gli offriva anche una scusa per non attuare il folle piano di Bridget.  Lo stava guardando con odio crescente, ma per lo meno non poteva fare nulla di equivoco o dannoso, e per un istante l’uomo sperò che la ragazza si trattenesse per un bel po’.
-È davvero molto buono – gli disse, esibendo un paio di innocenti fossette. Sollevò leggermente la tazza verso di lui, come se fosse un brindisi, e accettò il sorriso nervoso che ricevette come risposta.
Se Brian non faceva domande su di lei, era solo perché la confusione che aveva in testa non gli permetteva di formulare nessun pensiero di senso compiuto. Gli pareva così assurda quella situazione che non aveva parole per sfogare la sua frustrazione, tanto che l’unica a sentirsi a proprio agio era solo Eliza.
Bridget lo guardò ancora, ma questa volta non riuscì a fare finta di nulla. Lo fulminò con iridi furenti, e le labbra si tirarono quasi a scoprire i denti in un ringhio; sembrava urlare “mandala subito fuori di qui”, o comunque qualcosa di simile.
Lui, naturalmente, non ne aveva affatto intenzione, anzi. L’avrebbe trattenuta egli stesso, tanto gli pareva che l’ospite fosse ben contenta di trattenersi ancora un po’ da lui, disponibile a una qualche chiacchierata.
Come al solito, fu la giovane a prendere l’iniziativa per una conversazione, ricevendo l’attenzione di tutti i presenti grazie ad una risatina. –Sono assolutamente sicura che non hai la minima idea di chi sono, non è così? – disse, divertita, scoccando a Brian un’occhiata indulgente.
Lui si grattò imbarazzato la nuca, non sapendo bene come rispondere e stando attendo a non rompere nulla. Gli occhi dell’altra donna saettavano impazziti dall’uno all’altra, cercando di capire quali fossero le origini del collegamento che li univa e quanto superficiale fosse la loro conoscenza.
Era fondamentale, evidentemente, carpire certi dettagli; forse c’entrava con l’attuazione del suo perverso piano, chi poteva sapere cosa si affaccendava sotto la sua chioma bionda?
La ragazza prese un altro sorso, prima di osservarlo con occhi scintillanti. Tutto quanto, in lei, parlava di riconoscenza: come lo guardava, come l’aveva abbracciato, il tono cinguettante con cui gli si rivolgeva…ogni singolo dettaglio urlava a gran voce quanto gli fosse grata per aver fatto qualcosa di cui lui non aveva assolutamente memoria.
Lanciandogli occhiatine di sottecchi, si rivolse direttamente a Bridget, ignorando la sua espressione infastidita: -Vede, signorina, quest’uomo qui presente mi ha salvato la vita.
A quest’affermazione lui drizzò le orecchie, facendola sospirare con teatralità.
-Accidenti, manco da solo tre settimane e già vengo dimenticata – fece un sorriso sghembo. –E dire che abito ad un solo pianerottolo di distanza!
Ad un tratto, tutti i collegamenti cerebrali dell’uomo di attivarono, in colpo solo. Si drizzò a sedere sullo schienale, restando dritto come un fuso, dall’espressione a dir poco sconvolta.
Un solo pianerottolo di distanza. Preso com’era dagli ultimi eventi, non si era nemmeno accorto che le tendine nell’appartamento di fronte non si erano mai scostate, e che la luce era sempre rimasta spenta. Non si era reso conto dell’accumulo della posta nella cassetta delle lettere al piano inferiore, né della vecchietta che di tanto in tanto entrava da quella porta con croccantini e annaffiatoio.
Gli eventi della sua vita l’avevano sconvolto a tal punto da dimenticarsi dello zucchero dato a quella creatura senza speranze, in un gesto compassionevole. Ricordava bene la durezza dei tendini della sua mano ossuta, la pelle grigiastra, i capelli fragili e sottili, la peluria che ne ricopriva il dorso, le gengive scure e tirate, i denti che sembravano cadere, il corpo impossibile da guardare senza un brivido.
Della persona che si era presentata in accappatoio a casa sua, per chiedere dello zucchero, si era completamente scordato.
La ragazza anoressica era Eliza. Possibile…?
La signorina di fronte a lui sorrise di nuovo davanti al suo sconcerto. Aveva i denti bianchi e le labbra carnose, con due adorabili fossette simili ad innocenti parentesi su un sorriso luminoso. I capelli erano tagliati in un caschetto alla moda, corto, composto da folti e robusti capelli biondo scuro, quasi castani. La pelle liscia splendeva, chiara ma anche giovane, nel pieno delle proprie forze, mentre il fisico magro ma la tempo stesso anche pieno e morbido stava appoggiato al suo divano come un miraggio.
-Sei proprio…? – balbettò. L’associazione fra le due stonava completamente, eppure dovette ammettere che c’era una minima somiglianza.
Lei rise di gusto, prima di guardarlo dritto negli occhi e affermare, decisa: -Sì.
Lui si dimenticò completamente di Bridget, alzandosi dalla sedia e andando ad abbracciarla. La strinse forte, gioendo della carne che ricopriva le ossa, dei muscoli rigenerati, di qualche chilo in più che le rendeva i fianchi materni.
Era davvero lui il responsabile di tale meraviglia? Davvero era riuscito a fare del bene, salvare una vita? Era bastata una confezione di zucchero, e aveva cambiato l’esistenza di una persona; mai avrebbe pensato che sarebbe sopravvissuta a quella malattia logorante, pensando piuttosto che stesse vivendo gli ultimi mesi della sua vita.
Non si era preoccupato della sua scomparsa perché, in cuor suo, l’aveva già accettata. Aveva continuato la sua carriera obliandola dai suoi pensieri, quando nel frattempo lei aveva combattuto le sue paure ed era tornata a casa.
L’insegnate accanto lui si era scostata, e ora si schiarì la voce, ma a lui non interessava. Sentiva le sue braccia sottili cingergli la schiena e si sentì felice, realizzato.
L’istinto paterno che aveva provato nei suoi confronti si riaccese, divampò come una fiamma, costringendolo a staccarsi per paura di romperla, spezzarla a metà. Guardando il suo sorriso, però, si rese conto che era ormai impossibile.
Si rimise seduto, quando l’attimo dello stupore si attenuò. –Santo cielo, è…un miracolo.
Non trovava termine più adatto di quello.
La ragazza annuì. Finì il suo thé, poi posò la tazza vuota sul tavolino lì affianco. Con una certa commozione nella voce cominciò a raccontare ad entrambi, interessati per motivi diversi, cosa l’avesse portata ad essere quello che era.
-Quando mi trasferii qui ero già ammalata – spiegò, - non mangiavo praticamente più. Vivevo di insalata e calavo quasi un chilo al giorno. Quando Brian venne ad abitare vicino a me avevo appena raggiunto i 29 chili, e mi pareva di svenire ogni volta che mi alzavo in piedi.
Fece una pausa, poi riprese: -All’iniziò mi incuriosì perché mi ricordò mio padre. Poi ho saputo che insegnava arte all’università, ed era la materia che ho sempre amato sopra ogni cosa al mondo; quando il peso si era messo in mezzo avevo deciso di rinunciarvi, perché semplicemente non riuscivo a reggere – la videro sorridere tristemente. Abbassò un attimo lo sguardo, ma il racconto non si interruppe.
Si rivolse direttamente a Bridget, allora, per spiegarle cos’era successo. –Un giorno andai da lui con una scusa, per chiedergli se organizzava corsi in privato, ma mi mancò il coraggio, così gli domandai dello zucchero. Lui me lo diede, ma a condizione che facessi una torta – ridacchiò, - e io la feci. Ne mangiai una fettina, piccolissima, ma era pur sempre un progresso rispetto alla saliva che ingoiavo di solito.
-Poi cos’è succcesso? – chiese lui, serio.
Eliza si adombrò: -Volevo portartene un po’, ma scesi drasticamente a 23 chili. Ebbi una crisi e decisi di farmi ricoverare. Accadde il giorno dopo; da allora sono in cura, ma visto i progressi mi hanno rimandato a casa per seguire autonomamente la terapia.
A sorpresa, la donna le posò una mano sull’avambraccio, sorridendo. Sembrava davvero sincera mentre la guardava, come se partecipasse veramente ai suoi successi. –Sono davvero felice per te, cara – le disse, in tono mesto.
Eliza, ignara di tutto, la ringraziò sentitamente. Era una ragazza dolce, piena di vita, non avrebbe mai sospettato vicino a quale mostro si trovasse in realtà.
Il suo sguardo vispo scivolò sull’orologio da parete, allarmandosi: -Credo che per me sia arrivata l’ora di andare – disse, in tono di scuse. –La psicologa arriva per vedere come mi sto ambientando, non posso mancare all’appuntamento, mi dispiace.
Brian si alzò per primo, posandole una mano sulla schiena. –La salute prima di tutto -, sentenziò sorridendo, poi incenerì con lo sguardo Bridget ed accompagnò la ragazza alla porta.
Lei si profuse in ringraziamenti riguardo sia al thé che all’ospitalità, per poi promettere di portargli lo zucchero che avanzava come segno del suo ritorno. Questo lo fece sorridere per un momento, ma la tensione al pensiero di rimanere solo con quella strega prese subito a tormentarlo.
La vide caricarsi il borsone in spalla e sparire oltre il corridoio. Aspettò qualche attimo prima di chiudere la porta, ma non fece in tempo: senza che se ne fosse accorto, Bridget era dietro di lui.
Aveva il cappotto ben allacciato addosso e la borsa sottobraccio, pronta ad andarsene. Sorridendo melliflua gli posò una mano sulla giacca, prima di dargli sbrigativamente un bacio sulla guancia.
-Devo andare – disse soltanto, poi si insinuò in un lampo nell’uscio semiaperto e lui, rimasto in piedi e troppo sorpreso per muoversi, sentì il ticchettio delle sue scarpe firmate farsi sempre più ovattato mentre scendeva di fretta le scale.
La porta al primo piano si aprì e si richiuse.
Poco dopo, anche Brian chiuse l’apertura, serrando la chiave a doppia mandata, senza capirci più nulla. 
  
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