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Autore: past_zonk    05/04/2013    0 recensioni
Le vicende pseudosentimentali di un gruppo d'amiche che stanno imparando a crescere, fra amori, musica e concerti. Fra sogni mai espressi che sembrano diventare realtà, fra i portici di una città e le paranoie di una schizoide protagonista. Tutto sembra banale, e forse lo è, ma è la nostra storia, la storia di chi vorrebbe allungare la mano e toccare la felicità.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Questo capitolo è per voi.
Che mi fate fremere. Piangere. Che mi fate spaventare.
Battere il cuore.
L’anima.
Tutta me stessa.
Vibro ancora di voi.
Nel profondo.
E so che è smielato, e patetico, e ridereste di me con quelle “o” aperte che amo, lo so, ma io sono vostra. Totalmente, incondizionatamente, sempiternamente legata a voi.
Vi amo.

 
 
 
Le lenzuola erano leggere e ci coprivano come se fossero una nostra seconda pelle. Setose, bianche, candide. Coprivano il suo sterno e le mie cosce, coprivano il mio seno e la cicatrice che sotto di esso non pulsava ormai da anni, se non nel ricordo dell’attimo in cui si formò.
Non sono una persona eccessivamente sentimentalista. Credo. Più che altro non voglio esserlo, mi sembrerebbe scontato, svendere a tutti i miei amori. Non parlo mai d’amore, di quello vero.
Non riuscirei ad esprimere a parole, per me, cos’è l’amore. Forse è per questo che non c’ho mai davvero provato, forse è per questo che io e Davide stiamo insieme in maniera così silenziosa.
Amore…amore per me è l’odore del caffè di prima mattina e il venticello che ti smuove i capelli. Amore è un eden perfetto. Amore è abbracciare un fratello. Amore è sentire la musica scorrere nel sangue. Amore è sentire stretto a sé lo sterno di un’altra persona, e non volerla lasciare andare mai, mai…mai.
Ci sono tanti tipi d’amore.
Se mi chiedeste qual è stata la storia d’amore più vera e duratura della mia vista vi risponderei: quella con la musica.
Davide ora intreccia le sue mani alle mie; nell’aria c’è un po’ di sconclusionatezza. Preme le sue labbra contro la mia tempia e mi chiede: “Ti andrebbe di raccontarmi?”
“Cosa?”
“Di te. Dei concerti. Di voi. Dell’amore della tua vita…” soffia lui alla mia tempia.
E sorrido, perché non avrei davvero nient’altro da raccontargli, nient’altro da dirgli di me, niente che esprimesse così bene la mia essenza, il mio amore per la vita – nonostante tutto – e la mia passione. Persino il mio amore per lui.
“…bene; sarà una lunga chiacchierata…” stringo ancora più forte la sua mano e chiudo gli occhi, pescando dalla memoria, uno ad uno, quei momenti che hanno reso, fino ad oggi, la mia vita incantevole.
 
 
Parte prima – di quella volta in cui ero piccola e lo stadio voleva mangiarmi.
 
È indubbiamente una sensazione strana e bislacca, quella che mi attanagliò lo stomaco vedendo nello stesso istante settantamila persone tutte nello stesso frangente. Avevo il fiatone, salire i tre piani di uno stadio quale il San Siro non era stato facile per il mio asmatico organismo. Aspettavo che mio fratello trangugiasse la birretta che aveva comprato; le mie spalle erano premute contro un muro dal colore del cemento, la mia mano era sul petto screziato da una cicatrice nervosa, il respiro cercava di calmarsi. Sapevo che non era stata solo la salita ad aver accelerato il mio cuore, inutile mentire. Poi, tutt’a un tratto fu l’istinto ad agire: i miei fianchi si mossero inconsultamente e camminai fino agli spalti.
E poi.
Oh, signori, signori miei! Poi istantanea la sensazione di essermi persa. Totalmente persa fra una folla incalcolabile. Persa in un sogno dal quale, sapevo, non sarei più uscita. Assurdamente spaventata, tremante, la testa ruotava vorticosamente. Appoggiai ancora le spalle ad un muro che era lì a sorreggermi. Respirai profondamente.
Chiusi gli occhi e focalizzai la mia mente sui mille bisbigli e discorsi che sentivo intrecciarsi nell’aere attorno a me.
Chissà cosa indosserà.
Ma la faranno Citizen Erased?
Dobbiamo cantare tutti insieme.
E sorrisi, sorrisi dall’antro più profondo del mio cuore, e seppi d’improvviso dove sarebbe andata la mia vita.
Seppi che non mi sarei arresa, che avrei trovato la mia strada, persino tra settantamila persone, non sarei fuggita, avrei combattuto.
Concerto è un verbo latino, vuol dire combattere, struggersi, correre. Non vuol dire sempre vincere, ma questo è altro…
 
 
 
Parte seconda – del ritrovamento di valide compagne di battaglia.
 
Il primo giorno di liceo non avrei mai immaginato che quelle estranee che mi si stanziavano davanti sarebbero state amiche legate alla mia persona in maniera così sanguigna. Certo, immaginavo cinque anni di amicizia, ma…non così. Non sapevo neanche esistesse un’amicizia così totalizzante.
Sono sentimentalista. Ho paura di ritrovarmi fra vent’anni a leggere queste parole e a prendermi in giro. Ma non conta, sono umana, ed ho paura di tutto.
All’inizio del liceo avevo paura; tutte loro sembravano conoscersi così bene, Eden non era con me, e mi sentivo persa. Le guardavo e mi sentivo un mondo a parte.
E invece. Invece il mio destino era molto meno buio di quanto immaginassi. E iniziai a credere alle parole di quella canzone che Samu cantava, almeno per stanotte non c’è nessun dolore…
 
Parte terza – dei primi veri lividi e dei leoni di granito.
 
Non so se sia a causa dell’inesperienza o dell’iperbole che nella mia mente si ricrea ogni volta che ci penso, ma il mio primo concerto dal parterre è stato alquanto traumatico.
Piazza del Plebiscito. Sole alto nel cielo ed una carrellata di artisti dei quali m’importava poco e niente – o quasi; ma eravamo tutte lì, a guardare Adam Levine cantare per le prove, e mandarci bacetti che nel tempo avremmo sempre ricordato con malizia. E c’era un bel sole a scaldarci, gli occhiali da sole di Lex, i miei capelli rosso fuoco, Yra che soccombeva ai calci di una piccola assatanata e i cori osceni di Fluo; Eden e suo padre che, al ritorno, ci nutriva con la salsiccia e i peperoni nel panino (!), abitudine che devo dire ebbe alla fine di quasi ogni concerto, nei primi anni, quando ci veniva a recuperare fuori lo stadio. That’s silly.
Durante quel concerto vagai come uno spirito irrequieto. Ebbi la transenna al lato destro del palco, poi mi sentii svenire e scappai sotto un leone di granito, mangiando un panino indurito dalla lunga serata. Il telefono senza uno spicciolo e le mie amiche perse nella crudele crowd, per dirla all’inglese.
Un trauma, Davi!
 
 
 
Parte quarta – del primo amore.
Eravamo in macchina e ricordo che partì su Virgin Radio, improvvisamente, Living on a prayer dei Bon Jovi.
Non credo dimenticherò mai quel momento.
Ero giovane, inesperta e un po’ triste, a tratti. Eden era sul sedile posteriore, io davanti; era stata un’improvvisata.
Arrivammo fuori il palazzetto con calma, prendemmo delle birre, mangiammo, osservammo la strana gente che sostava lì quasi fossero dei passanti.
Aspettando, parlammo, non mi sarei mai sognata la transenna. Non avrei mai sognato di innamorarmi perdutamente.
Ed eccomi lì, sterno schiacciato contro quella barriera crudele che ci divideva da loro, il cantante pelato che schiocca le labbra e ci manda un bacetto, gente che mi fuma tra i capelli, lo odiavo al tempo, e il cuore a mille. La voglia di saltare e non pensarci troppo su.
Il loro concerto fu come un palliativo; il loro primo concerto, per me, fu come fare sesso occasionale, senza conoscere chi ti sta davanti, senza pensare minimamente ad un futuro, senza immaginare di innamorarsi.
E invece.
Invece poi mi sono innamorata, dopo il sesso. Dopo aver consumato le ossa contro la loro musica ruvida e cattiva, ma a tratti viscida e dolce. Mi sono innamorata disperatamente, perdutamente, in un vortice che non m’abbandonerà più.
Certe altre volte penso che dopotutto ho detto tante volte per sempre, e mai per sempre è stato. È una cosa triste su cui rimuginare, ma mi piace pensare che con loro e la loro musica sarà davvero per sempre. Per sempre per sempre per sempre, innamorata come la prima volta, con la musica nel cuore e quelle ultime note di Nicotina Groove che mi addentano il cuore violentemente.
Piango.
 
 
Parte quinta –di Marte.
 
Imprese titaniche che si potrebbero inserire nel guinness dei primati personale; quelle cose che racconti alle persone che ti vivono intorno e che, no, non possono capire, loro, immersi nella loro stagnante quotidianità; non possono capire le ore sotto il sole cocente, la protezione trenta prestatati da una sconosciuta romana, le bustine di zucchero semi sciolte nella borsa, l’acqua che scarseggia, un coriandolo che ti si ferma a metà della gola sul ritornello dell’ultima canzone – che rischia di ucciderti.
Non possono proprio capire come ti sei sentita a perderti in quegli occhi blu, oppure il senso acuto d’ansia quando ti s’è bloccato un polmone per la troppo polvere – che poi, perché, per Dio, non asfaltare quel cavolo di Ippodromo con un po’ d’erba finta solo per l’occasione?
Raggiungere la transenna senza neanche sapere come, i braccialetti fosforescenti e lui che ti chiama sul palco ma non hai le forze per respirare, così lasci perdere, la bacchetta sudata che ti piomba in testa ma qualcuno che ci tiene più di te la prende, gli svenimenti. Quando tutto crolla e tu vorresti, davvero, seguirle fino alla fine dietro le quinte, però non lo fai, ed hai l’ansia, e piangi dall’ansia e il concerto non inizia e mandano Meds dei Placebo, ed è davvero un po’ una medicina. Morgue che prende la bottiglia del cantante e ci si fa il bagno – e ancora oggi che ridete a pensare al fatto che avesse la febbre, lui, che l’abbia mischiata, pensate ai germi sexy quanto lui – e incontrare per caso Synyster Gates nel backstage, in una porticina quasi alla Lewis Carrol, all’Alice, e salutarlo e avere l’ansia ed essere così stanca e lacrimante e con l’asma.
Dormire in casa di tua sorella, tutte ammucchiate lì, sudate e soddisfatte e starnutenti. I polpacci che vi fanno male mentre, alla fine di tutto, un po’ silenziose e malinconiche, spingete i trolley per la stazione Roma Termini e vi rimettete in quel treno, un po’ più mogie del primo viaggio, un po’ meno rumorose. E tu che scrivi. Fluo che dorme. Morgue che mostra il biglietto.
Tornare alla vita.
Con più forza. Con più ricordi. Con un legame che non vi distaccherà mai più.
 
Parte sesta – di quando un grazie sembrava troppo poco ed un ti amo troppo impronunciabile.
 
Le assi del palco del teatro non sembravano il suo habitat naturale. Sembrava strano vederlo camminare con tutta quella gentilezza, e cantare seduto su uno sgabello, con un bicchiere di vino rosso fra le mani e la voce calda e roca come se fossero le nove della mattina.
Poco prima i miei genitori m’avevano scoperto a fumare, tutta scazzata e ansiosa nel mio giardino, tutta fremente e stanca di aspettare e conciata. Con il mio cardigan leopardato, le gote rosse d’emozione e il testo di Angeles scritto su un foglio bianco col pennarello.
Fuori il teatro la gente è tutta lì a fumare, così sfilo due sigarette – una per me, ed una per Eden, inverosimilmente – e le fumiamo mentre cerchiamo di scacciare via un po’ di freddo e un po’ di ansia. È davvero meraviglioso essere ancora lì. Ancora una volta ad aspettare quelli che sono diventati gli artisti della mia vita.
Poi entriamo e prendiamo posto – siamo in seconda fila, il pianoforte del Boo è vicinissimo, anche troppo – e aspettiamo. Aspettiamo in silenzio finché le luci si dissipano ed una voce comincia a cantare.
È solo, Samu sul palco, e intona Dormi. Piango.
Ma c’è un altro motivo, vedi, se questo paragrafo della mia vita dice che un ti amo era troppo impronunciabile ed un grazie era troppo poco. In effetti tutto è cominciato da lì.
Da quando fui posseduta dalla forza che possiede tutte le groupies e che dà loro la forza d’agire. Non avevo mai pensato seriamente al concetto di dare forma alla propria vita, di prendere le redini e fare le proprie scelte, fino a quel momento. Quando una scossa adrenalinica pura mi scosse il corpo e mi fece decidere di attraversare quella porta, solo io ed Eden e il nostro sogno e il cuore a mille.
E così ci ritrovammo lì, arrossite e imbarazzate a pochi minuti dalla mezzanotte e dal compleanno di Eden.
Guardavo il loro mondo, quel camerino pieno di alcolici e maglie di ricambio e odori e pizze e vino e mi rendevo conto di quanta vita fosse impacchettata in quel posticino. Di quanto caldo sembrasse.
Specchiai i miei occhi nei suoi e gli dissi cose che tutt’oggi tengo per me; gli parlai dei miei sogni, del mio futuro, di me. Non parlo mai di me, per davvero. Lui ebbe un’esclusiva.
E poi m’abbracciò un po’ ed io uscii nel freddo napoletano. L’Augusteo era ancora zeppo di persone, gente che li aspettava, ed io mi sentii una valchiria, ad uscire da quella porticina ora chiusa a chiave, sorpassare il cordoncino rosso ed uscire in maniera totalmente trionfante dal loro mondo.
Mi sentii felice, come mai, entrando in macchina e percorrendo l’autostrada piena zeppa di nebbia – se l’erano portata con loro, ne son certa, da Torino – e raccontando tutto con la voce roca della notte a mio fratello, senza fiato e senza alcun freno.
E la mia collana, ancora fra le sue mani, ancora al suo collo, ancora sua.
E la poesia recitata nel silenzio dei fari alogeni della tangenziale, e.

Nebbie di qui
Ci avvolgono
Come titoli di coda su storie a lietofine
Vivere qui
Insieme a te
Nel freddo stringerti, negli anni stringerti.










 

###

 

Eden è partita. Sono le 15.16, ed ho paura. Paura d’essere sola .
Cammino sulle punte dei piedi fino alla sagoma dormiente di Davide. Lo osservo, mentre dorme a bocca aperta (ha il setto nasale leggermente deviato). Mi accuccio per terra accanto al suo volto. Star con lui non m’ha mai tolto la mia solitudine, penso. È più che altro una condivisione di solitudini, questa relazione, e non so se è davvero la scelta migliore.
Lo amo? Sì, lo amo da sempre, e certe volte penso cose del genere “è l’uomo della mia vita”, pensieri che chiunque mi conosca anche solo un po’ non mi attribuirebbe mai.
Adoro il silenzio che c’è tra noi, ma certe volte è come…come se appartenessimo a due mondi diversi, come se non potessi leggere niente dietro i suoi occhi scuri. Non riesco a leggere niente, ed ho così tanta paura.
Dopotutto com’è che ci siamo trovati insieme? È perché ci stavamo frequentando e poi…poi i miei son morti e lui m’è stato vicino? È perché ha provato pena nei confronti del mio dolore?
Sta con me per compassione? Perché l’abitudine di vedermi ad ogni concerto palpitare e salutarlo nel backstage era ormai accettabile?
Tutto è successo così in fretta e così fiabescamente che non ho avuto il tempo di rifletterci su.
Sono innamorata di lui oppure dell’idolo che sembrava scrivere di me nelle sue canzoni?
Del tastierista che suonava quelle melodie che mi facevano compagnia oppure dell’uomo che fa bruciare il caffè sui fornelli?
Da quando Eden è partita per Napoli col treno delle 11.25, non faccio che pormi quesiti su tutte quelle che erano le certezze della mia vita.
Certezze; io ed Eden affronteremo tutto insieme, il rapporto con mia madre s’aggiusterà, vivrò a Torino, studierò lettere e scriverò su qualche editoriale.
Dopotutto niente di questo s’è avverato, perché con Davide dovrebbe andare diversamente?
C’è qualcosa di sbagliato, in me, qualcosa che mi spinge a vivere la vita con superficialità. È come se non fossi cresciuta, come se fossi sempre quella dannata sedicenne alla quale bastava fremere sotto un palco.
Non so più niente.
Chi è quest’estraneo che dorme davanti al mio naso?
Chi è questa donna che sento piangere? Sono davvero io?
Così sconclusionata e ricca di niente.
Mi chiedo se sia l’unica a sentirsi così.
Accendo una sigaretta e piango le lacrime che fioriscono anche sotto forma di nausea nel mio stomaco. Mi sento una fiera di propositi andati a puttane. Mi sento come se non ci sia nessuno a giudicarmi per quello che faccio, ed è una brutta sensazione molto vicina alla solitudine.
Rivaluto mia madre. Anche se mi giudicava senza sosta in ogni momento della mia vita, almeno mi dimostrava che in qualche astruso modo le importava di me… Ora che invece sono sola con le mie scelte m’accorgo di quanto borderline in realtà io sia, di quanto poco sono guarita, di quanto sono una teenager che non crescerà mai, che s’affida alle sue piccole bugie per far del bene a se stessa.
Inalo il fumo che sale fino al volto di Davide, occhi aperti ad osservarmi.
Uno straniero con il quale faccio l’amore e parlo e al quale mostro le mie cicatrici.
Vorrei chiedergli di rispondermi sinceramente e dirmi se ha mai provato compassione per me, se è per quello che ha iniziato a trattarmi come fossi la sua donna, ma le parole non m’escono di bocca, non ne ho la forza. Ho paura della sua risposta.
Davide è davanti a me ed io sento nel cuore mille spine, perché è tornata ancora una volta quella sensazione di smarrimento e depressione che pensavo d’aver superato.
Non illudete una persona matta dicendole d’essere normale. Non regalatele stabilità. Non esiste stabilità in questo mondo, soprattutto per noi, queste categoria alla quale mi aggiungo senza pretese -  i pazzi, i soli, i depressi, gli indefiniti.
Una volta Davide mi disse che in certi concerti le frasi di ringraziamento – persino quelle che sembrano le più sentite – sono preparate. Ed io gli ho detto di saperlo, figurati se mi lascio abbindolare da un meccanismo dello spettacolo come un concerto.
Ma dentro ho sofferto come una bambina alla quale si dice che la Befana, la fatina dei Denti o Gesù Cristo non esiste.
Il mio mondo vero, i miei dolori veri, erano quelli di un mondo finto e laccato. Le mie lacrime erano quelle di un libro, di un film, di una disperazione che non mi toccava neanche.
Ma…se anche Dio non esistesse…cosa ne sarebbe di tutta questa fede? Lo stesso è per i concerti. Non conta se le emozioni che si respirano sono vere per chi suona; contano le mie urla, la gola che fa male, la sigaretta sul lento della mia vita – in totale solitudine con me stessa fra una folla di persone –, contano le mani e gli sguardi e la paura della fine.
Davide mi osserva in silenzio con sguardo freddo. Le mie sono occhiate d’odio.
Esci dalla mia vita, penso, lasciami sola. Sono sempre stata sola. Tu e il tuo mondo laccato. Gli artisti non si posseggono.
-Gli artisti non si posseggono- trovo il coraggio di dirgli.
-È per questo che mi sfuggi sempre- risponde Davide.
-Che paraculo-
-Eva, lo so. Lo so che è difficile-
-Non mi toccare!-
-Eden tornerà…vedrai…-
-Non ho bisogno della tua pietà!-
-Non ti sto offrendo la mia pietà, ma la mia presenza! Quella che hai sempre rifiutato nei tuoi momenti di solitudine!-
-Non è vero! Non è vero, taci! Sei tu che non ci sei mai stato!-
-Io c’ho provato, ad entrare nel tuo mondo, Eva. A salvarti! A farti sorridere! A portarti via da quella desolazione di cui non sai fare a meno!-
-Le persone come me non si possono salvare…- soffio.
-Non è vero…-
-Io e te siamo troppo lontani, Davide. E non perché sei sempre in viaggio-
-Possiamo provare ad avvicinarci…-
-No…-
-Eva…-
-Non mi toccare…-
Sono  accasciata sul pavimento con tutti i miei fallimenti, e le mie angosce senza senso. Mi sento così da sempre. Desolazione senza alcuna causa.
Sono buia e arida dentro.
-Non mi toccare…non mi toccare- ripeto come una nenia, come un mantra, a voce bassa, impercettibilmente.
E Davide mi stringe fra le sue braccia, ma non ho la forza di divincolarmi.
-Non mi toccare…-
Ed ho così paura.
Sono sola con le mie paure, incertezze. Senza un lavoro, senza un motivo.
Tremo.
-…non mi toccare…-
Davide mi placca sul pavimento freddo. Spegne sul tappeto la sigaretta che era tra le mie dita.
-Eva. Se vuoi che io me ne vada dalla tua vita, dillo-
Silenzio.
-Dillo- sussurra al mio orecchio.
Piango.
-Ma se lo dici, io sparirò, e non ci sarà nessuno a provarci, ogni volta, a salvarti. Perché anche se ora ti senti sola, io ti giuro che non lo sei. Ci sono io. C’è Torino. C’è Eden-
Faccio cenno di no con la testa.
Sono sola, lo sono sempre stata.
Davide mi bacia le labbra -…non sei sola…-
Una mia piccola lacrima gli inonda il labbro inferiore -…io…Eva, io ti curerò-
Lascio andare la mia testa sulla sua spalla.
-E non t’amo per pietà, ti amo perché sei dolce e simpatica e intelligente. E sei struggente, ed hai paura di vivere certe volte, proprio come me, e perché con te non c’è bisogno che io parli, mi conosci per davvero. Ti amo perché hai due occhi belli, grandi e lucidi. Ti amo perché sei bella, sei bella per me, che anche se non lo fossi per tutti t’amerei ugualmente. Ti amo per tutte le tue sconfitte, per il coraggio che hai nel parlarmene, ti amo perché m’hai mostrato i tuoi dolori, ma anche le tue gioie…e ti amo perché t’ho amata da subito, da quella notte, da quando eri sola e piangevi fuori lo stadio, ed io t’ho portato a bere una crema di caffè, ed eri vestita leggera anche se era Dicembre, e per qualche assurdo motivo che non ho mai capito hai fatto gli esami di stato mesi dopo gli altri. Ti amo per i tuoi bigliettini nonsense, per il caffè, per il tuo odore. Ti amo perché ti piace ballare, e andare in discoteca, e perché non m’hai mai chiesto dove andavo quando uscivo; ti amo perché ti fidi di me, perché hai accettato il buono e il male del mondo in cui lavoro e vivo, ti amo anche perché l’hai sempre osservato, il mio mondo, e forse l’hai compreso anche meglio di me. Ti amo perché ci sei sempre stata, dall’altra parte del palco, perfetta e graziosa e maestosa nei tuoi capelli scompigliati, aggrappata alla transenna come fosse l’ultima ancora di salvataggio nella tua esistenza, ad urlare ogni tuo dolore con sincerità sconvolgente, usando le parole che io ho scritto su quella musica…-
Nebbie di qui…
Rimasi tutta la notte, fra le sue braccia, a lasciarmi curare dolori inesistenti.
Ci avvolgono…
A piangere la mia anima dagli occhi…
Come titoli di coda…
A guardare la tv notturna con lui al mio fianco…
Su storie a lieto fine…
Davide, Torino, Eden, i miei genitori…li sentii accanto a me.
Vivere qui…
Il cielo che s’immola alla mia vista.
Insieme a te…
Davide che dice d’amarmi, che mi sostiene e che non mi lascia ricadere nel baratro della mia depressione…
Nel freddo stringerti…
E fare l’amore con rabbia e tormento, e sentire qualcosa aggiustarsi dentro la mia anima.
Negli anni stringerti…
Il fornello dove la macchinetta del caffè è avvitata e pronta a fischiare. Il pacchetto di sigarette sul tavolo bianco della cucina. La finestra che affaccia su via Leinì, che basta alzare di poco lo sguardo per intravedere la Mole. Lo stereo sempre acceso a farci compagnia. I calzini che Eden ha lasciato qui, e che spero un giorno tornerà a prendere, perché già mi manca. Le lenzuola bianche. I miei occhiali da sole sul comodino. Le pillole per il ferro basso. La marmellata di lamponi. La maionese scaduta nel frigo. Sulla bacheca dei post-it il numero del dentista, una mazzo di fiori all’ingresso, le tende aranciate, il telegiornale che straparla, le campane di una chiesetta nella traversa opposta, il balcone, la chitarra acustica sul letto, il deodorante maschile nel bagno, un ventilatore inutilizzato, un microfono sotto il letto, candeggina, odore di pioggia nei miei vestiti, odore di Torino, pioggerelle primaverili che battono contro la mia finestra.
Vivere con Davide, soli, nel mio primo appartamento, i primi tentativi di vivere autonoma, l’università, gli esami sul ‘300, sottolineare le principali, Benedetto Croce, leggere una poesia di Neruda, fare l’amore tre volte al giorno, perdermi guidando alla cieca e chiamarlo, fare la spesa e cercare di capire la sua grafia contorta che scrive “yogurt”, tornare da lui fradicia di pioggia, baciarlo, dormire mentre i titoli di coda di un film di Cassavetes passano sullo schermo,  svegliarsi fra le sue braccia, e sapere che – nonostante tutto – c’è, forse, probabilmente, un posto da chiamare casa…dove rifugiarsi con dolore.
La tristezza non è sparita, ma la solitudine sì, ed ora è come se questo fardello di malumore lo portassimo in due, e tutto fa meno male…e posso accettare di vivere, con lui. E vivo anche un po’.

 








(Tutto questo è incompleto, e non assestato, però amo voi e Cisti più del mio stesso cuore, quindi è bene che sia così: incompleto e non assestato, come noi. Vi voglio bene. Un giorno forse la continuerò, le vostre storie sono nella mia testa, e quasi non le scrivo per scaramanzia. Molte cose si sono già realizzate, molte mi hanno davvero spaventata, a dire il vero, per quanto fossero realistiche. Chiamiamola scaramanzia, chiamamolo non fare spoiler. Mi sto atteggiando, eh? Chissà.
Forse un giorno riprenderò  Cisti. Vi voglio bene. Sentite questa canzone e pensate a me, anche se magari starete rileggendo tutto questo nel 2023. Sul serio. Che dolore, sta vita).





 
   
 
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