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Autore: Cornfield    17/04/2013    2 recensioni
(Dall'ottavo capitolo):
Non riuscivo a crederci. Non riuscivo a guardarla in faccia, non meritavo di guardarla in faccia, non sapevo suonare, non sapevo allacciarmi le scarpe, sapevo solo di non sapere. Ero un completo disastro.
E mia madre aveva ragione.
Scesi di corsa dalle scale e uscii da casa, mentre mia madre piangeva lacrime amare, mentre il cielo piangeva e la mia faccia era completamente bagnata.
Dal sudore, dalla pioggia e da altrettante lacrime.
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Un po' tutti
Note: Raccolta | Avvertimenti: Incompiuta
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Da qualche parte nel mondo, 1995.
Incasinato.
Perso dentro me stesso.
Il mio peggior nemico.
Il mio più intimo nemico.
Nessuna cura.
Autoripugnante, drogato e introverso.
Coglione deviante.
La droga mi si era appiccicata addosso. Ne percepivo l’odore della morte e dell’autolesionismo.
Mi aveva buttato giù e non riuscivo a rialzarmi, mi bloccava in una morsa di ferro. Mi aveva letteralmente distrutto e io stavo rinunciando a lottare. Non sapevo lottare. Non ho mai saputo lottare.
Sapevo che mi stavo autodistruggendo.
Ignoravo le conseguenze.
Ogni giorno sentivo notizie dei miei amici morti per overdose. “Poverini..” mormoravo, mentre mi infilavo un ago nelle vene.
Avevo trovato la felicità in una bianca e sottile striscia. Non in un abbraccio o in un bacio.
In un certo senso il bacio si. Il bacio di quel piacere malato, il bacio maledetto.
Intanto i miei denti marcivano, il mio battito accelerava,il sangue si faceva rancido e attraversavo una meta che mi avrebbe condotto alla morte.
Ero solo un fottuto cane bastardo, non avevo orgoglio, la droga me l’aveva lacerata.
Nessuno aveva bisogno dell’orgoglio. E’ meglio che qualcuno ingoi il suo orgoglio prima che lo soffochi.
Mi sembrava di avere sempre spettri affianco a me, che non vedevano l’ora di trascinarmi all’interno. La miccia è corta.
Panico.
Attacchi di panico.
Ansia.
Respiro affannoso.

Avevo ucciso io stesso la mia tranquillità che non sarebbe mai più tornata.
Presunzione sulle spalle e una sanguisuga sulla schiena.
Vetri rotti nella mia testa.
Confusione.
Angoscia.
Il successo. Che cazzo era il successo? Il successo mi opprimeva. La casa discografica voleva un cd pronto tra qualche mese, per cavalcare ancora quello di Dookie. Ogni giorno ci spostavamo per fare un altro fottutissimo tour. Io non capivo niente. Suonavo, cantavo, dicevo le mie quattro cazzate e vomitavo nel cesso fino all’alba. E poi tutto ricominciava, in una routine che mi soffocava. Nessuna pausa. Perché avevo firmato quel contratto?
Il mio posto non era li.
Il mio posto era Christie Road, era il Gilman Street.
Ma non c’è ritorno dall’eliminazione.
Tutti mi avevano rifiutato, io rifiutavo me stesso.
Il mondo è una macchina malata che produce una massa di merda.
E io ne facevo parte.
 
Tornai in hotel  stanco morto, dopo un ennesima esibizione.
Adrienne dormiva. Aveva detto che mi avrebbe seguito in questo estenuante tour,che riusciva a reggere i continui spostamenti, ma mentiva spudoratamente. Non faceva mai in tempo ad assistere ai miei concerti, sprofondando nel sonno poco dopo le dieci.( Ormai se ne era fatta l’abitudine dei pianti notturni di Joseph).
La mattina era stanca ma comunque si sforzava di prepararmi la colazione e di sembrare il più dolce possibile.  Spesso però non la facevamo insieme. Io ero a provar con la band o a fare interviste, lei badava al nostro nuovo figlio. E mi sentivo completamente inutile.
Non riuscivo mai ad assaporare la sua pelle, ad accarezzarle il ventre.
Idiota.
Mi ero ripromesso di accontentarla, perché lei era mia moglie, la mia anima ma non ci riuscivo. Non riuscivo mai a fare niente. Riuscivo solo a drogarmi.
Nelle rare volte in cui riuscivamo a parlare, mi guardava quasi con furia, per dirmi con lo sguardo: “Perché mi fai questo Billie Joe?” Ma poi si addolciva, non era capace di essere arrabbiata con me, perché mi amava.
La domanda me la porgevo anche io stesso: “Perché ti fai questo Billie Joe?”. Non lo so.
Mi infilai sotto le coperte ma fin da quel istante sapevo che non sarei riuscito a dormire.
Joseph, che fino in quel momento era stato cullato dal sonno infantile si svegliò improvvisamente e pianse in modo frenetico.
Adrienne dormiva in un sonno profondo che la proteggeva dagli schiamazzi, io come ogni notte invece, non riuscivo mai a riposarmi.
Mi rigirai nel letto. Il tempo non passava mai, l’orologio mi rideva in faccia. Ed era tutto cosi fottutamente snervante. Volevo dargli un calcio, un calcio profondo che gli avrebbe lacerato le corde vocali.
Certe volte pensavo perché non avevo messo il preservativo, o quelle cose cosi. Ora un preservativo doveva finire in quella gola che non la smetteva di tremare.
Gli occhi mi stavano per sanguinare, la mia bocca era secca, la mia faccia inebetita e piena di croste.
Insomnia?
Nervoso?
Rabbia?
Disperazione?

Quattro parole che mi descrivevano profondamente.
Cercai di tappare le orecchie con il cuscino nella speranza di sentire di meno gli schiamazzi.
Niente.
Come ogni fottutissima notte, Joseph piangeva.
Costantemente.
Sempre.
Ogni ora.
Ogni minuto.
Ogni secondo.
Ogni volta che contavo una pecora.
Lo presi tra le braccia e lo cullai, ma lui non demordeva. Lo fissai negli occhi, ma non mi riconoscevo, non lo sentivo mio. Era soltanto un bambolotto per me che mi procurava tanto fastidio, non era mio figlio. Era mio figlio? NO, non era mio figlio.
Un rompicoglioni.
Ecco che cos’era. Forse avevamo solo quello in comune: entrambi rompicoglioni.
TIC.
TAC.

L’orologio sembrava non muoversi mai, apposta. Godeva a farmi impazzire.
I sonniferi erano finiti.
Io ero finito e fra poco lo sarebbe stato anche Joseph se non la smetteva.
NIENTE.
Non la finiva. No, non la finiva per niente cazzo, NON LA FINIVA PER NIENTE.
“Stai zitto figlio di puttana, stai zitto!”Gli gridai contro.
Ma lui continuava a piangere.
“STAI ZITTO CAZZO!”
Imperterrito.
La mia pazienza non ha mai avuto un limite.
Stavo per buttarlo dalla finestra.
“Ascolta, ora ti do il ciuccio…”
Ancora niente.
Forse avrei dovuto controllare meglio i miei nervi.
Lo sbattei sulla sua culla quasi violentemente e ciò non fece che accrescere i suoi isterici pianti che rimbombavano nelle mie mente e si amplificavano ancora di più.
Diventai paonazzo dalla rabbia.
Ero sull’orlo della disperazione. Buttai a terra le pile di carte sulla scrivania. Le raccolsi, li strappai a morsi e li lanciai nuovamente mentre l’eco sordo delle grida del bambino erano alzati di volume.
Gridai.
Sfinito.
Non c’è progresso.
Non c’è sviluppo.
EVVIVA! Moriremo tutti! Benedetti ed estinti, nati e uccisi dagli ipocriti.

Anche Joseph morirà, morirà mentre piangerà ancora di più e suo padre gli avrà strappato il cuore dal petto.
Mi sedetti sul divano e respirai a fondo. Dovevo smetterla, perché progettavo di far morire mio figlio, se lo era? Stavo progettando l’autodistruzione questo si, ma non lui, che non aveva fatto niente di male, era solo un bambino. Anche io ero stato un bambino e lo sono tuttora. E’ tutto ok Billie. Mi calmai e chiusi gli occhi. Anche Joseph si calmò. Passarono dieci minuti buoni e per la prima volta dopo tante settimane, stavo per prendere sonno.
Un altro schiamazzo.
Altri pianti e altrettante imprecazioni.
Certe persone vivevano per i loro figli o per le loro mogli. Io non vivevo per niente, e vivere quando non si ha uno scopo preciso.. non ha senso. Non ha davvero senso.
La vita?
Io vivo la mia vita? La sto vivendo?
Forse la mia vita è la droga.
E allora benvenuta droga, sei la mia nuova ombra, l’unica cosa che continuerà a seguirmi per il resto della mia penosa vita.
  
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