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Autore: MrMurkrow    21/04/2013    3 recensioni
Alistair Vanko è un agente sotto copertura di Cerberus. Ora, dopo gli eventi accaduti su Haestrom, Vanko rivede le sue posizioni nei confronti dell'organizzazione a cui appartiene e dovrà in tal modo confrontarsi con le dure prove a cui le sue decisioni lo porteranno.
Spin-Off di Mass Effect Reborn
Genere: Avventura, Azione | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Jack Of Spades'
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Atomi sparsi di un mondo che non conosco. Il Fante è inutile. Per cortesia, mi passeresti la Torre?
 
 
 
Capitolo 3: Aiuto Dalle Ombre Del Passato
 
“Sottovaluta il tuo avversario e i Merli si ciberanno delle tue carni”
 
Tiberius Theme
 
La cerca quella candida mano, ma non la trova. Sapeva bene che non l’avrebbe trovata li, appoggiata delicatamente sul suo viso. Eppure aveva sperato, per un brevissimo istante, che lei fosse ancora accanto a lui. I suoi occhi trasfigurano in lampi di dolore a quella malvagia constatazione, geme qualcosa e cerca di distogliere l’attenzione dall’evidenza dei fatti. La luce continua ad infastidirlo, come a volergli ricordare che l’Universo continua a muoversi e come a spronarlo ad essere partecipe a quel moto senza fine. Stancamente, e con riluttanza,  decide di alzarsi dal letto. Si mette seduto sul compatto materasso e volge uno sguardo timoroso, con la coda dell’occhio, all’altro lato del letto. La rivede distesa che gli da le spalle, un allucinazione così reale da sembrare necessaria, così perfetta da risultare impossibile da eliminare dal quadro della sua vita. Eppure era solo nebbia sugli occhi vecchi e scavati di lui. Lo sa e tuttavia non la lascia andare, si sente solo e sperduto senza di lei, sente che potrebbe uccidersi senza di lei….ma è ormai così da più di dieci anni. Lei gli sussurra qualcosa prima di scomparire, parole vuote, parole che si perdono nella nebbia delle illusioni, parole che non arriveranno mai a destinazione prefissata. Sparisce lentamente in quel banco di fumo, si perde tra gli sbuffi e i fili setosi della realtà. Tutto quel che rimane è il suo bracciale posato sul suo comodino. E’ piccolo e impolverato, nessuno lo muove più dalla sua posizione da quelli che potrebbero essere secoli per un’anima in pena. Il nero e il bianco nel primo segmento si incontrano con il rosso del secondo frammento, un’ondata di dolore impietosa gli arriva dritta al cuore ed, ancora una volta, distoglie lo sguardo.
Prova a rialzarsi sulle sue gambe, ma una fitta alla schiena gli nega quella mossa ricordandogli la sua attuale situazione fisica. Ricade piano sul materasso, emette un sospiro seccato e volge la sua attenzione al suo mite e silente compagno che placidamente aspetta appoggiato al comodino a pochi centimetri dalla sua posizione. Era di forma classica: un fusto robusto in legno compatto e lavorato finemente con tonalità scure e decise di castano; il pomo ad uncino in metallo scintillante con forme rimandanti la severità e l’austerità tipica della sua vecchia vita; il puntale anch’esso in metallo per avere più presa a terra e per vanificare un possibile invecchiamento prematuro del attrezzo di sostegno; infine il piccolo collare, che fungeva da minuta diga tra il fusto e l’uncino, era in argento con intagliata l’immagine di un animale zannuto che si mordeva a coda in un circolo infinito. Quel pezzo di legno e ferraglia era il suo nuovo migliore amico da parecchio tempo ormai. Uno dei suoi muscoli si era atrofizzato in modo neuropatico a causa di una ferita subita in battaglia. I medici avevano tentato di recuperare la sua condizione fisica anche intervenendo chirurgicamente e con trapianti, ma il suo corpo non aveva reagito positivamente alle cure, rigettando addirittura gli elementi trapiantati, e così era stato costretto a prendere un bastone per aiutarsi nella vita di tutti i giorni. Era qualcosa di rarissimo, le statistiche dicevano uno su centocinquanta milioni di casi.
Allunga la mano per raccoglierlo e portarlo a se, ma la sua attenzione viene catturata dalla cornice contenente la fotografia di lui e lei insieme. Si riprometteva ogni giorno, sempre nello stesso identico momento, di spostare quella foto dove non potesse fargli del male, ma ogni volta fingeva di autoingannarsi con la scusa di esserselo dimenticato. La verità era che non ci riusciva e non voleva allontanarla, sarebbe stato come ripudiarla ed era l’ultima cosa che gli sarebbe mai passata per la testa di fare. Indugia sul suo viso e poi, mentre le emozioni vengono nuovamente soppresse, afferra il bastone e lo preme con forza sul pavimento per usarlo come leva per alzarsi.
Non senza sforzo, si ritrova finalmente in piedi. Si muove a passi lenti e calcolati, la schiena era comunque dritta, non si sarebbe mai lasciato piegare in un essere gobbuto dai sui problemi. Con un rapido gesto del factotum fa alzare le serrande dalla loro posizione, così la luce ebbe campo libero per divampare all’interno dell’abitazione. Per un breve istante la sua vista fu accecata, poi gli occhi di abituarono subito alla nuova fonte di illuminazione. La pupilla si restringe per miosi e la stanza appare tutta più chiara. Si guarda intorno spaesato, come se non riconoscesse casa sua. La polvere fluttua nell’aria descrivendo forme imprecisate, imprevedibili e sfuggevoli, si deposita infine su tutto ciò che per lui ha significato: i ricordi.
L’armatura risplende di una luce pallida, vecchia, ma orgogliosa. Erano presenti tutti i segni che caratterizzavano un’armatura che aveva compiuto il suo dovere: graffi, parti usurate, placche bruciacchiate, ammaccature, segni di riparazione e di sostituzione parti danneggiate. Si, dopo quasi trent’anni, la Titan Royale era ancora la miglior tenuta di combattimento che avesse mai indossato. La miglior via di mezzo tra le armature leggere Spectre e le armature medie Predator. Sottili placche di ceramica percorrevano tutti gli arti che potevano benissimo essere espanse in combattimento per aumentare notevolmente la resistenza, il circuito integrato nel collare garantiva poi un piccolo boost agli scudi cinetici, donando una piccola dose di energia extra da utilizzare per ridurre il tempo di ricarica degli scudi o per aumentarne il potere frenante. Il più grosso svantaggio era che l’espansione delle placche avrebbe imitato notevolmente il movimento, bloccando stringendo in una morsa poco piacevole le giunzioni muscolari di gambe e braccia al torace ed al bacino. Molto versatile quando si aveva a che fare con proiettili ad impatto diretto, la Titan Royale soffriva durante un possibile attacco corpo a corpo. I fianchi sotto le ascelle erano poco protetti e una lama ben affilata avrebbe potuto facilmente passarci attraverso e fare poltiglia di polmoni ed organi interni. I gradi erano ancora ben visibili sulla spalle, erano forse l’unica cosa che avrebbe dovuto essere rovinata ed invece erano lì, intatti, a ricordagli momenti bui della sua carriera.
Poggiò una mano sul casco, il quale vantava un lungo taglio superficiale sulla parte destra, e subito gli vennero in mente tutte le occasioni in cui quella silente amica gli aveva permesso di riportare a casa la sua pelle e quella dei suoi compagni. Compagni…..lascia cadere la mano sul fianco e, accompagnato dal leggero rumore del bastone, si accostò alla piccola cornice sulla quale indugiava spesso. Una trentina di Turian stavano in posizione per la foto ricordo del loro diploma alla Reale Accademia delle Forze Speciali D’Assalto nella città di Tyrant. In quel giorno era diventato un membro d’elite, un membro di una delle più prestigiose e famose unità dell’esercito della Gerarchia: la 126esima Fanteria Reale Tyrant. Un organo d’assalto e combattimento specializzato in operazioni speciali ad alto rischio, dall’assalto frontale alla testa dei reggimenti dell’esercito fino alle Black Operations. La 126esima era sempre stata un sinonimo di efficienza, disciplina, strategia e implacabilità. Il motto era semplice e chiaro: “Forza Insieme”. Erano tempi diversi, tempi in cui ancora si dava poca corda ad organismi militari ben più giovani come i BlackWatch, la Fanteria Reale Tyrant aveva una lunga e magnifica storia alle spalle e qualunque soldato ne avrebbe voluto entrare a far parte. Nella foto apparivano tutti rigidi ed ordinati nelle loro uniformi dipinte con i classici colori della Gerarchia, seri e fieri di aver raggiunto quel risultato. Preferiva di gran lunga l’immagine dell’altro riquadro, dove vi erano gli stessi Turian, ma stavolta abbracciati sostenendosi a vicenda, sporchi di terra, bagnati dalla pioggia e con facce stanche e sorridenti. Era la loro prima vittoria sul campo e nessuno ci aveva rimesso la pelle…avevano immortalato quel momento perché lo sentivano nel cuore. Era stata una battaglia da poco a confronto di quelle che seguirono, ma era la loro vittoria, era personale e meritava di essere ricordata. “Forza Insieme!” avevano urlato….un gran bel ricordo….che ora aveva un significato amaro di rimpianto e nostalgia.
Di li a pochi passi, appeso al muro per mezzo di supporti, c’era un altro suo vecchio compagno: l’M-94 Mercury. Predecessore del più evoluto e moderno Mattock, spara “alla vecchia maniera” ovvero con un dispositivo di raffreddamento incamerato nell’alloggiamento di espulsione dei proiettili, un’arma precisa, affidabile e con selettore multiplo di fuoco. Lo iniziò a fissare intensamente, mentre le tenebre si impossessavano dei suoi occhi.
 
 
-Dei civili correvano contro di me. Erano una mandria urlante che fuggiva dalla battaglia che era scoppiata in mezzo a loro. I miei compagni erano rimasti bloccati in un imboscata nel mercato centrale. Era una strage. Mentre tentavo di farmi largo in mezzo a quella massa di corpi un esplosione squarciò l’aria a pochi metri dalla mia posizione. Mi rialzai con una ferita alla testa e le orecchie che fischiavano. I cadaveri di almeno quaranta Turian stavano immobili sul piccolo ponte che permetteva di passare all’altro distretto. Alcuni si erano salvati, ma erano pochi e malconci. Li sentivo muoversi quei terroristi maledetti. Afferrai il mio fucile con tutte le mie forze e i miei muscoli liberarono la loro energia in uno scatto rabbioso per difendere la testa del ponte. Riuscii a fare solo pochi metri prima che la mia corse fosse fermata da una grossa figura, avvolta nella sua corazza blu notte, che piombò dall’alto sul malridotto terreno di scontro. Il tonfo del suo arrivo al suolo sollevò un grosso polverone e fece tremare le giunture ai capi della struttura, si voltò torvo verso di me, guardandomi attraverso il visore oscurante del suo casco. Una Fantasma, un dannato Fantasma della 26esima.
“Porti al sicuro i civili rimasti sergente”, mi disse rimettendosi in posizione eretta e mentre i suoi piccoli stabilizzatori si riposizionavano integrandosi con la corazza, “Mi occuperò io della testa di ponte”
Senza aggiungere altro estrasse il suo Phaeston e si lanciò con la sua armatura ipertecnologica contro il nemico che avanzava. Non lo potevo sopportare. Non potevo sopportare di essere lasciato indietro a fare da scorta a dei fottuti civili….Al tempo ero giovane, stupido, mi lasciavo trasportare troppo dalle mie emozioni e da cazzate come la rivalità creatasi tra la 126esima e la 26esima del quale non sapevo nemmeno precisamente i dettagli….forse era qualcosa riguardo alla catena di comando o stronzate del genere. Sta di fatto che questa rivalità veniva inculcata a forza nei membri di ciascuna delle due divisioni, era come parte dell’addestramento, i più giovani, come me, si lasciavano trasportare da scemenze simili fino a trasformare questa rivalità in odio, mentre i più anziani sapevano che certe cose erano da lasciar perdere soprattutto in un inferno come il campo di battaglia. Il Fantasma di quel giorno credo avesse almeno una dozzina di anni in più di me ed era sicuramente uno che aveva capito che quella rivalità era puramente un illusione in quei frangenti.
Rimasi li a riflettere un poco, i civili sopravvissuti scivolavano lentamente, reggendosi tra loro, oltre di me verso la coda del ponte. Avrei dovuto fare come mi era stato ordinato, dopotutto il Fantasma era un mio superiore: proteggere la ritirata dei civili….ma ero uno zoccolo duro e, maledicendo i gradi, raggiunsi il membro della 26esima.
“La 126° fanteria reale Tyrant non prende ordini dalla 26°!”, credo che urlai questo, più qualche imprecazione lungo la strada.
Quando arrivai sulla sua posizione capii il perché la 26° era così rinomata per le strategie d’assalto extrarapido, ma al tempo soffocai quella constatazione sotto l’orgoglio di appartenenza alla mia divisione e alla rabbia. Volava come una dannata mosca attraverso tutto lo spiazzo difronte al ponte, sparando con precisione letale ad ogni bersaglio. Mentre scendevo i piccoli scalini, per raggiungere un riparo offerto da un blocco appartenente al palazzo crollato in precedenza, il Fantasma si sollevò per aria percorrendo una traiettoria trasversale ascendente verso sinistra e sparando in mezzo al petto a quattro ribelli. Quelli caddero a terra, accasciandosi tra gli spasmi di dolore, mentre il Fantasma si posizionò sopra un piccolo balcone. Gli altri terroristi lo bersagliarono con i loro fucili, ma egli attivò il suo dispositivo di occultazione, così quelli non si accorsero che si sollevò in aria sopra di loro per poi ricadere pesantemente a terra liberando un onda cinetica gigantesca tramite i dispositivi potenziati della sua tuta. Furono tutti lanciati attraverso il campo di battaglia per diversi metri, finendo svenuti per un urto troppo violento o impalati tra delle lamiere di un edificio distrutto. Lo svantaggio di effettuare una mossa del genere era che per liberare tale energia, gli scudi e gran parte dei sistemi elettronici della corazza venivano spenti per poter ottenere più potenza possibile e per evitare anche che si danneggiassero nella propagazione dell’onda d’urto. Fu proprio in quel momento che altri sei terroristi sbucarono da un vialetto laterale e spararono al fantasma. Si procurò una ferita appena sotto il polmone destro, ove la sua corazza era più debole, e si accasciò a terra tenendosi una mano sula ferita per cercare di rallentare l’uscita del sangue. Uno di quegli uomini lo sollevò da terra e, con un colpo ben piazzato del calcio della sua arma al volto dell’avversario, spaccò la sua visiera oscurante e lo lasciò cadere con un pesante tonfo al suolo.
Non so perché lo fece, ma guardò dritto davanti a se, come se mi stesse cercando, come se sapesse da una vita che ero dietro quel blocco di roccia. In quel breve instante i nostri occhi si incrociarono e non vidi un nemico, che non avevo in realtà mai conosciuto, ma un mio fratello che chiedeva aiuto. Strinsi le dita della mano destra sul grilletto e quelle della mano sinistra sulla granata. Confesso di aver avuto paura in quel momento, paura di non farcela……è strano come la paura possa giungere nei momenti più inaspettati. La gente comune idealizza troppo i soldati, credono che tutti loro non possano conoscere la paura grazie al loro addestramento…Stronzate….un mucchio di gigantesche stronzate. Il soldato ha più paura dell’uomo medio e il generale ha più paura di tutti i suoi uomini, perché ognuno sa che deve fare bene il proprio lavoro se non vuole perdere i propri compagni o gli amici o i familiari….ma per compiere il proprio dovere è necessario sconfiggere la Paura, metterla da parte e far valere il coraggio o non si rimane chiusi in un circolo di vergogna e maledetto.
Così mi feci coraggio, diedi uno scatto alle mandibole e mi proiettai fuori dal riparo. La granata FB esplose in un lampo di luce che accecò gli sventurati lasciandoli vulnerabili al mio fuoco. Svuotai il caricatore su di loro, vidi i loro corpi assorbire i proiettili come spugne e rigettare fuori zampilli di sangue come se stessi dipingendo un quadro sui loro ventri. Tenevo ancora premuto il grilletto, mentre uno sbuffo di fumo dal sistema di raffreddamento, posto sul lato destro dell’arma, mi avvisò del surriscaldamento. Uscii dal riparo e aiutai il Fantasma della 26° a rialzarsi.
Sulla strada del ritorno mi disse stancamente: “Hai disobbedito agli ordini sergente….ci saranno delle ripercussioni per questo”
“Non mi dica che non è stato felice di vedermi Tenente? Sarebbe stato eliminato da quei bastardi senza il mio intervento!”, ero arrabbiato, volevo un po’ di riconoscenza per quello che avevo fatto, specie da parte di un ufficiale che apparteneva ad una divisione con la quale c’era una grande rivalità.
Lui rispose con cattiveria e amarezza, un tono di voce inasprito dal sapore ferroso del sangue, “Ciò non toglie che hai disobbedito all’ordine diretto di un tuo superiore e hai deliberatamente lasciato dei civili senza protezione…..e se ci può essere una scusante per la prima accusa, per la seconda non ve ne sono…Siamo soldati non per l’ebrezza della battaglia, non per accumula gradi e mostrine…ma per loro, per la nostra gente che ha bisogno di noi. Se non comprendi questo allora sarei sempre il peggiore tra soldati Merula”
Quel giorno quel Turian mi cambiò la vita e sembrava saperlo dallo sguardo che mi rifilò dopo che il Colonnello mi sbattè a pulire ogni fottuto mezzo corazzato della divisione…..E lo sapevo anche io.-
 
 
Riaprì gli occhi Tiberius Merula. Occhi stanchi, di un nero opaco, cercavano qualcosa a cui appigliarsi in quel muro dei ricordi. C’era la sua immagine riflessa sulla teca dove era custodito il coltello di famiglia, arma raffinata con una lama perfettamente modellata per lavorare a doppio taglio sulla carne e motivi tipici della cultura di Palaven, ma non si riconosceva in essa. C’era il volto di un Turian sconfitto dall’età, dal dolore, dai ricordi. La sua pelle, seppur composta di carbonio e torio, aveva perso lo smalto di un tempo, poteva quasi dire di essere diventato più pallido. Inoltre l’assenza della terminazione posteriore della mandibola destra, perduta in uno scontro corpo a corpo con un Krogan, e tutte le altre cicatrici, che pareva quasi rughe nell’equivalente Umano, non lasciavano difficile interpretazione al suo stato attuale. Tiberius Merula, ormai superati i 68 anni di età, si riteneva poco più che un soprammobile in quella casa e un impiccio per il mondo la fuori. I suoi marchi blu notte seguiti, nei bordi bassi, da sottili linee bianche, erano l’unica cosa che non pareva invecchiata all’apparenza. I tempi al servizio della Gerarchia era finiti, ma la vita non era stata clemente con lui per il “pensionamento”. Posò la mano sulla teca e poi, dopo essersi perso nuovamente per qualche minuto in un lontanissimo e buio ricordo, scivolò lentamente in cucina. Mangiò poco e poi prese il suo antidolorifico per quella vecchia ferita alla schiena che la mattina gli ricordava sempre quale era il suo posto nella Galassia ora.
Prima di uscire di casa si infilò sul braccio sinistro una piccola piastra protettiva, lo faceva per due motivi principali: il primo era essenzialmente abitudinario, la vita militare gli aveva lasciato l’insegnamento di avere sempre una piccola protezione per le emergenze; il secondo era che voleva mantenere un aspetto dignitoso ed autoritario, non voleva che gli altri lo considerassero come -un vecchio bavoso Turian mezzo paralizzato-, sapeva però fin troppo bene che lo consideravano in quel modo. L’ultimo raggio di luce, che entrò in casa prima che la porta si richiudesse alle sue spalle, illuminò una foto di un primo piano di una Turian. Sotto di essa era attaccata una targhetta commemorativa che recitava: “In memoria di Eris Tannis,  fiera, coraggiosa e fulminea”, più sotto era riportata una dedica con lettere molto più eleganti e intrise di palladio, “Tu sei stata la prima. Ora e per sempre: Intangibile ed Inarrestabile”. Quando uscì all’esterno dalla sua piccola dimora su Illium, che gli passò suo padre come da testamento, fu lieto di scorgere una bella giornata. Il piccolo spiazzo fuori dall’abitazione era grande e costellato di vasi con piante di ogni varietà e specie, un piccolo angolo di Paradiso in mezzo al malessere e ai disgustosi traffici illegali di Illium. Prese un lungo respiro e poi si incamminò verso destra, ma fu fermato dopo pochi metri da un anziana Umana dai capelli corti e bianchi.
“Oh, Tiberius! Buongiorno! Va a fare la sua solita passeggiata?”, chiese quella sfoderando un raggiante e affabile sorriso.
“Mia cara miss Pennyworth”, salutò il vecchio Turian con un mezzo inchino, “Lei mi conosce troppo bene….non sarà che sono io troppo prevedibile?”, rispose facendo scaturire da quelle parole tutta la felicità per quell’incontro.
“Forse un po’ amico mio”, fece lei ridacchiando un po’.
“Eeeeeh la vecchiaia miss! Tra poco dovrò segnarmi le cose sulle mani per non dimenticarle”, rise anch’egli.
“Suvvia Tiberius, non faccia lo sciocco! Lei ha una memoria di ferro.....Piuttosto, sono riuscita a farmi spedire quella marca di thè che mi aveva detto essergli piaciuta molto tempo fa”, affermò la Pennyworth facendo apparire un ologramma della summenzionata busta di thè.
“E’ proprio lei!”, affermò Merula indicando l’immagine digitale, “Lei mi vuole proprio viziare mia cara”
“Un modo come un altro per passare il tempo insieme a parlare dei vecchi tempi”, disse lei raggiante, “Allora stasera la aspetto verso le 21 e non faccia tardi come l’ultima volta!”
“Sarò puntualissimo miss Pennyworth, non ne dubiti” e fece un altro inchino accompagnandolo con la mano sinistra.
“Quante volte ti ho detto che puoi chiamarmi Ann, eh Tiberius?”, fece lei un poco rattristata.
“Credo dozzine di volte….e che il suo cognome esprime un certo nobile retaggio che mi piace sottolineare”, ammise il Turian sincero.
“Adulatore..”, lo schernì lei allontanandosi salutandolo con la mano.
Tiberius adorava quella donna, era la classica dottoressa da ospedale, premurosa, accondiscendente e gentile con tutti. Si conoscevano da molto tempo, più o meno da quando Eris era morta. Era facile diventare affabili con lei, aveva il gran dono di trasmettere tranquillità a chiunque le rivolgesse il saluto o scambiasse anche solo due parole con lei. Era anche l’unica compagnia vera e sincera su cui il Turian potesse contare, non era per mera cortesia che lei voleva parlare con lui, ma proprio perché entrambi godevano molto della compagnia reciproca. Passavano lunghe giornate a giocare a scacchi, chiacchierare dei ricordi e sorseggiare thè come nelle migliori famiglie inglesi. La vista che poi si godeva sul tramonto del sole di Illium dalla terrazza panoramica della Pennyworth era incantevole. Era come vedere l’orizzonte prendere fuoco ed essere investiti dall’ultima ondata di calore dell’Universo. I Turian erano abituati alle alte temperature, complice l’ambiente ostile di Palaven, ma Tiberius riusciva a percepire quel calore fino alle ossa, a volte ci scherzava pure sopra dando la colpa alla vecchiaia.
Riprese a camminare, spostando il peso sempre in modo che il bastone lo aiutasse a non sforzare la schiena, lungo le vie di Illium. C’era molta gente nelle strade, per lo più Asari e Volus che correvano dietro a potenziali clienti per i loro commerci e uomini d’affari che si muovevano attraverso i gate di collegamento dei quartieri alti.
La destinazione di Merula era poco più lontana dal mercato centrale, un  piccolo parco situato in una grande apertura circolare e agghindato da un paio di grattacieli di contorno. Un polmone verde frequentato solo da pochissimi, tutti avevano troppa fretta per sedersi un attimo a pensare o a godersi lo spettacolo offerto dalle varietà floreali del giardino. Sembrava così in contrasto con tutto il pianeta quel posto. Il posto preferito di Tiberius era una panchina che dava lo sguardo direttamente sullo strapiombo di strade, autovelivoli e palazzi del pianeta. C’era poi il fatto che quando ci si sedeva su un determinato posto per più di tre volte, diventava automaticamente di tua proprietà, così gli altri avventori del luogo lasciavano libera la panca per lui, consapevoli che sarebbe arrivato ad occuparla. Non aveva mai avuto l’occasione di fare grandi discorsi con loro, per lo più si salutavano e scambiavano cenni d’intesa e complicità. Era uno strano rapporto di fiducia e rispetto reciproco che Tiberius non aveva compreso fin da subito, ma ne aveva imparato a capire il significato accostandolo all’intesa che aveva con i suoi vecchi compagni di battaglia. Prese un ascensore che lo avrebbe portato al livello inferiore dove si trovava il suo piccolo momento felice. I ricordi fluivano come un torrente in quei momenti, ad Eris piaceva molto andare in quel parco e stare li a far nulla, semplicemente per contemplare i cielo e perdersi in discorsi sul vago e l’incerto. La porta dell’ascensore si aprì di scatto, riportandolo alla realtà solo dopo che una decina di persone dietro di lui lo avevano aggirato per proseguire di fuori, lanciandogli insulti vari e lamentele riguardo al bloccarsi davanti ad un’entrata. Se ne preoccupò ovviamente meno di zero e riprese a camminare verso il parco, che ora si stagliava a due isolati più a destra della sua posizione come una oasi nel mezzo del deserto. Era un posto tranquillo anche perché era leggermente defilato dalla zona percorsa normalmente dalla gente di affari e questo era un bene per la tranquillità del posto che sembrava vergine di visite di gente di quel tipo.
Lo videro arrivare da lontano alcuni Umani frequentatori del luogo. Lo salutarono e gli diedero il bentornato con un gran sorriso, cosa a cui Merula ricambiò con sincerità. Sorpassò una palma terrestre e un gran cespuglio di fiori azzurri Asari e prese posto alla panchina.
La calma del luogo, l’aria impregnata di ogni genere di odore prodotto da quelle varietà floreali e vegetali e la luce lo trasportarono ad uno dei suoi ricordi più belli.
 
 
-Polvere ferrosa si disperde nell’aria, la tempesta è vicina. Sento la lingua come riempirsi del dannato metallo, mentre scruto la piccola gola granitica che avremmo dovuto attraversare, ma stavolta non da protagonisti. Controllo il Mercury poggiando a terra il ginocchio, collimo la mira e innesto il sistema di raffreddamento….
“Merl! Allora che facciamo? Ci muoviamo?”
“Si Rax….Dammi solo un momento….Ah e ti converrebbe chiamarmi col mio titolo finchè abbiamo il colonnello in mezzo ai piedi, sai quanto ci tiene alla stronzata dei gradi”, lo rimproverai,
“D’accordo….Capitano…..Ma, dimmi, è vero che oggi faremo da spalla?”, mi chiese quasi spaventato,
“Non hai visto tutti quegli stronzi in corazza nera e casco oscurante? Ecco, dobbiamo scortarli al complesso e garantirgli copertura finchè sono dentro”, ammisi con riluttanza trascinandolo con me verso il resto del gruppo,
“Da quando la 126° fa da scorta??? Siamo noi l’elite no?”, esclamò lui gonfio d’ira e orgoglio, mentre allargava le braccia,
“Dannazione, non lo so Rax! I fottuti politici iniziano a credere che ci voglia un gruppo più ristretto di uomini, più anonimi, meglio addestrati e con abilità speciali. Il Generale Kantus mi ha confermato che la Gerarchia ha già avvallato una serie di progetti….forse questi uomini stanno venendo messi alla prova…”
“Che intendi con –abilità speciali-?”, domandò lui incuriosito da quella scelta di parole,
“Intendo dire biotici Rax, per quanto rari ne abbiamo anche noi credo….ma, che gli Spiriti mi fulminino, se abbiamo bisogno di dannati biotici nella nostra unità!”, sentenziai….giovane…..ingenuo….stupido,
Qualche minuto dopo il colonnello ci diede le informazioni necessarie per lo svolgimento della missione. Si trattava di muovere la 126° attraverso la stretta gola ed eliminare la resistenza esterna, offrendo contemporaneamente copertura all’unità speciale affidatagli dal Primarca. Loro si sarebbero occupati dell’interno dell’insediamento. Fatto ciò ce ne saremmo andati belli e tranquilli…..o quella era l’idea. Io sarei stato a capo della prima e della seconda squadra, ero fresco di promozione e quel balordo del colonnello non vedeva l’ora di farmi comprendere appieno le responsabilità del comando. Seguii la strategia classica d’assalto frontale: il piccolo stabile era protetto da due torri di osservazione e avevano anche un mezzo corazzato e degli altri veicoli terrestri. Ordinai alla seconda squadra di colpire da lontano, avevamo due cecchini e un mortaio, perché non utilizzarli?
La prima squadra mi seguì attraverso la gola, tenendo gli specialisti della Gerarchia all’interno di una disposizione a V rovesciata.
L’assalto fu tanto rapido quanto devastante. Il mortaio fece cadere una pioggia di fuoco sull’accampamento grazie ai missili Hellstorm che, una volta raggiunta la massima quota, si dividevano in ben dieci unità più piccole di esplosivo che facevano letteralmente terra bruciata attorno a loro. Sfruttando il panico i cecchini colsero alla sprovvista sentinelle e altri sprovveduti, lasciando a terra almeno una dozzina di ribelli. Avanzai con la prima squadra sfondando la prima linea di difesa nemica, eravamo dentro l’accampamento, ma avevo avuto la premura di lasciare dietro quei presunti Specialisti, dato che secondo le direttive del colonnello era nostro dovere tenerli fuori dagli scontri a fuoco.
Non incontrammo grande resistenza, eravamo più preparati, più coordinati e vantavamo dell’effetto sorpresa, non avevano scampo. Eliminammo qualcosa come una trentina di feccia ribelle e poi diedi il via libera ai protetti della Gerarchia di farsi avanti. Tra loro notai una figura più snella delle altre, mi passò anche per la testa che potesse essere una femmina, ma la parte maschilista del mio cervello ignorò prontamente quella chiamata, ai tempi credevo che le donne non dovessero immischiarsi in affari di guerra….quanto ero idiota. Come da richiesta, il bunker con tutte le informazioni preziose e i nemici al loro interno sarebbero stati un loro affare. Ci limitammo così a stazionare all’esterno, col dannato vento a oscurare la vista e le particelle di metallo trasportate dall’elemento naturale a rendere difficili le comunicazioni. Mi informai sulla visibilità che aveva la squadra due, a stento riuscii a comprendere che avrebbero avuto una visuale migliore attraverso una lastra di piombo. Optai per non far muovere la squadra due, sarebbe stato un azzardo niente male con quel tempo, se fossero stati attaccati in mezzo a quella tempesta di sabbia ferrosa non avremmo potuto fare niente per loro. Di contro persi la copertura offerta dal mortaio, cosa che poi si rivelò determinante.
Quegli Specialisti ci fecero attendere quasi un’ora, la tempesta si infittiva di minuto in minuto e io non avevo assolutamente intenzione di rischiare che un VTOL-F60 nemico stagliasse il cielo per farci secchi alla sprovvista. Stavo per entrare nel bunker quando un dannato Mako d’assalto sbucò fuori dal retro dell’accampamento. I maledetti strumenti non lo avevano rivelato e il vento rendeva impossibile vedere e sentire praticamente tutto quello che non fosse a tre passi da ognuno di noi. Stavolta erano loro ad essere in vantaggio. Un colpo di cannone bastò a farci disperdere per il campo di battaglia. Non potevo coordinare la mia squadra e l’unico che aveva un lanciamissili era Rax che non vedevo attorno a me. Sentivo sparare di qua e di là, ma sapevo che sarebbe servito a poco, la corazza del Mako era impossibile da penetrare per le nostre armi d’assalto. Un altro colpo di cannone, stavolta talmente vicino da farmi uscire di copertura e trovarmi faccia a faccia col muso schiacciato del mezzo corazzato che mi si dirigeva contro per speronarmi. Pensavo già di passare alla storia come Turian che ha fatto il salto più veloce dalla promozione di Capitano alla tomba, quando il mezzo si bloccò sul posto. Non lo notai subito, ma era attorniato da una specie di sfera azzurro-violacea sostenuta da due Specialisti della Gerarchia.
“Meglio se ti levi di qui!”, mi fece la figura snella di prima.
Mi spostai ed allora i due lanciarono letteralmente il cargo a trenta metri di distanza facendolo ribaltare. Provati dalla fatica i due stavano recuperando le forze, ma il Mako si aprì rivelando cinque uomini al suo interno. Iniziarono a bersagliare i due biotici, così estrassi la mia arma e mi diedi da fare. Il Mercury non lasciò molto scampo a quei bastardi, mi ero migliorato e preparato per avere una mira ottima anche in situazioni meteo avverse, ovviamente ciò non significava che fossi infallibile. Messi a terra i primi due, ne ferie un terzo alla gamba, ma uno di loro tirò fuori dal mezzo una mitragliatrice pesante con cui mi teneva sotto scacco. Fortunatamente arrivò Rax che con il suo lanciamissili colpì in pieno il generatore del motore del Mako facendolo saltare in aria e riempendo l’aria di fumo nero e fiamme. Ci stavamo avvicinando ai due specialisti per aiutarli, quando due sopravvissuti all’esplosione ci si avventarono addosso, ma si bloccarono a mezz’aria. Uno di loro aveva avuto i riflessi abbastanza pronti da afferrare i due con una presa biotica e farli volare via in mezzo alla tempesta di sabbia. Non ci furono tante cerimonie, solo un ringraziamento veloce da parte mia e poi organizzammo subito la ritirata.
Una volta tornati alla base operativa, iniziai a togliermi di dosso parte di quella dannata sabbia che si era infilata ovunque.
“Ha gestito bene oggi la situazione……Capitano Tiberius Merula, giusto?”, era apparsa una femmina alle mie spalle. Era snella, si avvicinava a passi lenti e calibrati, l’armatura nera che ancora indossava non nascondeva comunque una certa eleganza nei movimenti. Li per li ero pensando –Che diamine ci fa una Turian quaggiù?-
“Si….Ci conosciamo?”, domandai con una punta di nervosismo….lo dovevo ammettere, aveva degli occhi verdi incredibilmente magnetici,
“Sono quella che oggi le ha salvato la vita dal Mako e dai ribelli……ed anche quella che lei ha salvato da una scarica di mitragliatrice pesante”, ammise lei identificandosi.
Le mie mandibole scattarono in un cenno di dissenso che lei colse al volo, “C’è qualcosa di me che la turba Capitano?”
“A parte il fatto che è una femmina con poteri biotici? Solo il fatto che la mia unità Tyrant sia stata usata per portarla a fare una passeggiata dolcezza!”, scattai rabbioso…..stupido.
“Quella a cui avete partecipato era un importante operazione d’intelligence Capitano! Grazie a questo successo la Gerarchia approverà definitivamente la creazione di una nuova squadra d’elitè: i BlackWatch. Credevo comunque che fosse meno bigotto e che apprezzasse il fatto che ci fossero donne che sanno fare altro oltre che accudire bambini”, si indignò lei per quel tono sprezzante e volgare nei suoi confronti,
“Dovrei essere quindi felice che la Gerarchia abbia intenzionalmente degradato la 126° da unità di prima scelta a quella di seconda mano? E di aver contribuito con le nostre stesse mani a scavarci la fossa?! Tutto ciò è ridicolo!”, feci per andarmene, ma quella mi trattenne per un braccio, la presa salda come la roccia più dura.
“Stia a sentire Capitano”, mi squadrò lei, “Per le sue doti tattiche e di comando i BlackWatch le faranno la proposta di entrare nei loro ranghi. Paga proficua, le armi migliori, le corazze migliori, gli elementi migliori sotto il suo comando…..Fossi in lei prenderei in seria considerazione questa proposta….”
Le lanciai uno sguardo truce di rimando, credo che quella fosse una delle poche volte che la vidi intimorita, “Io sono Tiberius Merula, Capitano della 126° Fanteria Reale Tyrant ed è questo il mio posto, questo è il mio fucile, questa è la mia corazza e quelli sono i miei uomini….Non ho nient’altro da dirle”
Mentre me ne andavo lei fece uno scatto biotico verso la parte interna dell’hangar, superandomi e sedendosi sopra una cassa di rifornimenti incrociando le gambe, “Il mio nome Eris Tannis, Capitano, se ci ripensasse sa almeno a chi rivolgersi”
Risi molto mi ricordo…….Il suo nome era Eris Tannis e solo gli Spiriti sanno quanto la amai dopo allora.-
 
 
Tiberius venne riportato alla realtà da un grosso fracasso. Un Umano aveva fatto cadere a terra tre Asari che portavano dei vasi andandoci contro senza accorgersene, questo perché correva a perdifiato guardandosi le spalle. Si scusò in modo rapido, ma la sua fretta, il modo in cui era conciato e la paura che trapelava dai suo gesti e movimenti era palese. Si infilò in un vicolo e sparì. Poco dopo altri quattro uomini arrivarono e si gettarono dietro lo stesso vicolo dove si era infilato prima l’altro Umano. Se c’era una cosa che Tiberius aveva imparato nella sua carriera era che se vedevi un uomo correre, voleva dire che aveva fretta per qualcosa di importante, se vedevi però correre qualcuno dopo di lui vuol dire che fuggiva per non essere ucciso. La strada in cui si era andato a cacciare era senza via di uscita. Riflettè, sapeva cosa stava per succedere, aveva notato le armi silenziate degli inseguitori, l’unica cosa era: andare oppure no?
Socchiuse gli occhi e, quando li riaprì, un vecchio fuoco ci bruciava dentro. Lasciate che il leone ruggisca un'altra volta.
 
 
Downplay - Save Me
 
 
Vanko incespicava tra il ciarpame accumulato sul fondo della strada, si era chiuso da solo in una maledetta trappola. Era riuscito a salvarsi dal volo per puro miracolo, era atterrato su un auto che, sentendo l’urto, si era subito accostata e così era potuto fuggire. Aveva comunque dolori lancinanti per la botta subita e per la lunga fuga, ormai i subalterni di Leng lo avevano raggiunto e non lo avrebbero certo risparmiato.
“Ti abbiamo preso Vanko”, fece uno di loro avanzando verso di lui con fare minaccioso.
“Scusate signori!”, esclamò una voce poco distante. Vanko vide un Turian avanzare ritto sulla schiena e con al seguito un bastone, non potè fare a meno di chiedersi che diamine stesse succedendo e chi fosse quell’alieno.
“Vi consiglierei di lasciare andare quell’Umano, se non volete tornare a casa imbustati in quei sacchi di immondizia”, disse quello indicando l’immondizia col bastone.
Quello che stava vicino a Vanko fece cenno agli altri tre compagni di occuparsi del visitatore, mentre lui completava il lavoro.
Tiberius sospirò sommessamente, poi, appena il primo di loro si fece avanti, estrasse il coltello di famiglia e lo infilò ripetutamente nel ventre del malcapitato, lasciandolo a dissanguare al suolo. Non diede tempo agli altri due di reagire, si dimenticò della fottuta schiena e brandì il bastone con lo stile da combattimento che aveva imparato per poterlo usare come un arma letale. Eseguì un rapido mezzo giro sulla destra e colpì l’altro avversario sulla tempia, poi destabilizzò la gamba su cui spostava il peso e lo fece cadere a terra. Successivamente rivolse l’attenzione sull’altro aggressore, prese il bastone dalla parte inferiore e lo colpì brutalmente col pomo metallico sulla testa. Disorientato quello tento un assalto alla ceca, ma incontrò solo altri tre colpi di bastone alle gambe e al ventre ed infine il pugnale al cuore. L’altro che era caduto a terra fu poi eliminato da una zampata secca del Turian che spezzo le vertebre vicino al cranio causandogli una morte istantanea. Infine l’ultimo assalitore, rendendosi conto che i suoi compagno erano stati eliminati, attaccò a sua volta il soccorritore del russo. Anche stavolta non si fece cogliere impreparato, un colpo di bastone al ventre lo bloccò sul posto, poi un’altra sventola sotto il mento gli ruppe la mascella ed infine il coltello penetrò negli intestini e risalì fino al collo in un unico, devastante, fluidissimo e violentissimo gesto. Rinfoderata l’arma dietro la schiena, il vecchio Tiberius Merula si avvicinò all’Umano, dicendogli:
“Scusa se ti ho fatto aspettare così tanto”
 
 
 
 
 
 
 
 
Nota alla rinfusa, sconclusionata, bruciacchiata, piena di cancellature e pure puzzolente di Murkrow:
 
Dio mio…..Ce l’ho fatta davvero….
Questo capitolo è……un grosso e gigantesco BOH……E’ passato attraverso mille e passa travagli: riscritture, cancellamenti, abbandoni, dimenticanze, cose strane ecc. ecc.
Alla fine questo è quello che ne è uscito fuori. Spero solo che sia un degno trampolino di lancio per il mio ritorno alla scrittura :).
Ringrazio Johnee per l’infinita pazienza nell’aspettare Tiberio (che spero abbia fatto la sua figura nonostante tutto) , ad Andromedahawke per aver editato in nuova veste Siha e a Lubitina per avermi insegnato il romano xD. Ma soprattutto vi ringrazio una per una perché mi avete sempre sostenuto, incoraggiato, ispirato per vie dirette e non, sopportato, perchè mi avete fatto compagnia nelle ore buie dell’uni, perché abbiamo sdrogheggiato e perché con voi ho saldato un’amicizia che già da ora posso ritenere indissolubile. E direi che non c’è modo migliore che ringraziarvi se non con millemila baci, cuori, abbracci e occupandomi dell’editing delle nostre clips nel Mega Multiplayer Montage di Mass Effect 3 :D!
Ragazze vi voglio un bene dell’anima <3<3<3
  
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