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Autore: Nadine_Rose    24/04/2013    0 recensioni
Nadine ballava, rideva ed era viva.
[Continuo di “Un amore diviso da un filo spinato”]
Nadine e Werner sedettero vicino alla riva del lago all’ombra di un’alta conifera e restarono lì, stretti l’uno all’altra, avvolti dall’aria fresca dell’estate berlinese mentre dentro di loro scoppiava la primavera. Una nuova stagione era cominciata per la loro vita ma i due contavano ancora i loro inverni.
[Capitolo 33: Il dono della vita]
Genere: Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopoguerra
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Capitolo 6

 

Ritorno a Ravensbrück

 

- Viaggio tra passato e presente -

 

“Ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere quest'offesa, la demolizione di un uomo. In un attimo, con intuizione quasi profetica, la realtà ci si è rivelata: siamo arrivati in fondo. Più giù di così non si può andare: condizione umana più misera non c'è, e non è pensabile. Nulla è più nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli; se parleremo, non ci ascolteranno, e se ci ascoltassero, non ci capirebbero. Ci toglieranno anche il nome: e se vorremo conservarlo, dovremo trovare in noi la forza di farlo, di fare sì che dietro al nome, qualcosa ancora di noi, di noi quali eravamo, rimanga”.

Primo Levi, Se questo è un uomo


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Il binario morto di Ravensbrück, foto di Ambra Laurenzi

 

Il vagone era pieno di gente: donne di ogni età, anziane, ragazze e bambine e madri con i loro figlioletti in braccio. Tutte erano in piedi, attaccate le une alle altre tanto da non potersi neanche muovere e in un fortissimo stato di shock. Nessuna di loro, infatti, si aspettava di vivere una situazione del genere e così presto. Ad aggravare il tutto c’era il caldo, un caldo opprimente, mai provato prima di allora in una città tanto fredda come Berlino. Era il 2 luglio e il giorno prima Nadine aveva compiuto diciannove anni. Le donne cominciarono a piangere e urlare e lo stesso fecero i bambini. Il caldo, le urla, lo spazio ristretto, la puzza poiché quello in cui si trovava doveva essere un treno per il trasporto del bestiame: Nadine si sentiva impazzire. Portò le mani alle tempie e iniziò ad ansimare per il panico.

 

“Signora, si sente bene?” Nadine si risvegliò dall’incubo che in realtà era un ricordo del suo passato e guardò l’uomo che gentilmente le aveva posato la mano sulla spalla. Era il controllore. In fretta, Nadine aprì la pochette e gli porse il biglietto. “Signora, si sente bene? …” ripeté l’uomo. Nadine, infatti, era molto provata. “… Se vuole le porto un po’ d’acqua.” aggiunse il controllore con apprensione. “No, grazie. Sto bene, non si preoccupi.” affermò Nadine calmandosi e l’uomo timbrò il biglietto. “Mi scusi, come potrei raggiungere Ravensbrück?” Nadine era pronta a ritornare nei luoghi della sua persecuzione, per guardare da vicino il suo passato e ciò che aveva dovuto affrontare da donna libera e per lasciare un fiore su quella che era stata la tomba di Kurt. “Deve scendere alla stazione di Fürstenberg, prendere un taxi e in un quarto d’ora è già arrivata.” rispose il controllore con fare professionale. “La ringrazio.” Nadine abbozzò un sorriso e volse lo sguardo al finestrino. La sua espressione era estremamente malinconica. Presto il treno si sarebbe fermato e lei avrebbe fatto i conti con il suo passato. Un po’ ne aveva paura. 

 

Il treno si fermò quasi di colpo e la marea di donne poté finalmente uscire da quella trappola. Un soldato delle SS afferrò Nadine per un polso e la catapultò fuori dal vagone facendola cadere bruscamente a terra. Le diede un calcio e iniziò a inveire contro le donne ebree. Tutti i soldati imprecavano mentre le donne singhiozzavano per la paura. C’erano anche delle donne soldato che a gran voce davano ordine alle donne ebree di mettersi in fila. La confusione era pazzesca: le urla dei soldati, l’abbaiare dei loro grossi cani e i lamenti delle donne che come Nadine erano sgomente per l’ignoto futuro che le attendeva. La giovane Nadine era in fila tra le centinaia di donne in una triste marcia avvolta da un’illusoria speranza. Lo splendido viale fiorito e le caratteristiche casette tirolesi fecero sperare a Nadine che il lager non fosse poi così male. E invece si sbagliava.   

 

Nadine era a un passo dal cancello di Ravensbrück e, per un attimo, ritornò diciannovenne; in quel vestito blu a campana regalatole da sua madre il giorno del suo compleanno, con i capelli lunghi e spettinati, confusa, spaventata. Si avvicinò ancora di più fino a toccare con le punte delle dita il freddo cancello del lager. Quello che era conosciuto come “l’inferno delle donne” non era molto cambiato ma, a differenza di un tempo, regnava il silenzio. C’erano ancora numerose baracche, il forno crematorio, l’infermeria e il famigerato ufficio.

 

Dopo un’interminabile notte insonne trascorsa nell’umidissimo locale delle docce, Nadine insieme a tutte le altre donne fu costretta a spogliarsi e a uscire in quel modo nel campo. Tanto fu l’imbarazzo per una ragazza riservata come lei. Il sole splendeva alto nel cielo ma il suo calore non bastava per fermare il tremore di Nadine che freneticamente stringeva tra le mani il vestito e i suoi effetti personali. La lunghissima fila di donne nude si fermò davanti ad una piccola baracca e lì Nadine rimase in piedi per ore e ore prima di entrarvi.

 

Nadine rivisse sulla propria pelle ciò che aveva provato in quei momenti di estenuante attesa: il caldo che la faceva sudare, la sabbia e le pietruzze che le pizzicavo i piedi, l’umiliazione nel ritrovarsi nuda davanti agli occhi dei soldati che si scambiavano battute volgari sulle deportate. Le ricordò tutte. Ma ancora di più ricordò la paura, quella paura tremenda per l’ignoto che la attendeva dietro quella porta. In quel doloroso momento, Nadine avrebbe voluto l’abbraccio di suo marito e ricordò che neanche a lui aveva raccontato ciò che accadeva nell’ufficio.

 

La stanza era tremendamente buia, considerando che fuori era pieno giorno e spoglia. L’unico mobile presente in quell’ufficio era una lunga scrivania dietro la quale sedeva un ufficiale delle SS, forse un tenente. Grasso, senza espressione, che scriveva lentamente su un registro di colore nero. “Nome?” fece l’ufficiale con voce atona. La ragazza aprì lievemente le labbra impastate per la sete e sussurrò il suo nome: “Nadine Hoffen.” “Età?” continuò il tenente senza alzare lo sguardo dal grande registro. “Diciannove.” rispose Nadine terrorizzata. Poi una donna soldato le strappò di mano i suoi effetti personali e, dopo averli gettati sulla scrivania, ne fece un minuzioso elenco: “Vestito blu a maniche corte, borsetta beige con tracolla lunga, scarpe marroni con tacco basso, catenina in argento con ciondolo a forma di cuore; contenuto della borsa: specchietto quadrato in astuccio di pelle color marrone, fazzoletto di stoffa bianco.” La donna dall’espressione altera mise il tutto in una busta di cartone che Nadine non rivide mai più e la poggiò a terra in mezzo a tante altre. “Bene, procedere con la perquisizione.” esclamò il tenente. Panico: cosa significava in quel contesto la parola “perquisizione”? Un’altra donna soldato si avvicinò alla giovane Nadine e la sua intimità fu violata, morì la sua dignità e a breve anche la sua identità avrebbe fatto la stessa fine. “Pulita.” affermò la donna che l’aveva perquisita e l’ufficiale pronunciò dei numeri: “9,5,0.” Solo poche ore dopo Nadine capì il loro significato.

 

Come in un tragico film, Nadine si rivide mentre le tatuavano sul braccio sinistro quel numero e le rasavano i suoi bei capelli neri. Come allora, una lacrima le rigò il viso e un singhiozzo uscì dalle sue labbra. No, Nadine non aveva dimenticato il suo passato, si era soltanto illusa di averlo fatto. Ciò che le era successo in quel campo era stato orrendo: per cinque lunghissimi anni, le avevano strappato la libertà, la dignità e la stessa umanità. In quell’inferno, lei diciannovenne era morta. No, Nadine non poteva dimenticare e forse non era nemmeno giusto farlo. Strinse più forte il fiore che aveva portato per Kurt e lo lanciò oltre la rete di filo spinato in ricordo di tutte le persone che come lui avevano perso la vita a Ravensbrück: il piccolo Petru, la coraggiosa Grâce, le tante donne e bambini che aveva conosciuto nel suo blocco. In un secondo ne rivide i volti, emaciati, impauriti, senza speranza, spenti. E non tralasciò la sua stessa morte, la morte di quell’aspettativa di vita normale e magari felice che si ha all’età di vent’anni, quella morte che era poi divenuta rinascita grazie al suo Werner.

 

Io chiedo quando sarà che l’uomo potrà imparare

 a vivere senza ammazzare e il vento si poserà.

 

Nomadi, La canzone del bambino nel vento (Auschwitz)

   
 
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