Capitolo 6
Ritorno a Ravensbrück
- Viaggio
tra passato e presente -
“Ci siamo
accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere quest'offesa, la
demolizione di un uomo. In un attimo, con intuizione quasi profetica, la realtà
ci si è rivelata: siamo arrivati in fondo. Più giù di così non si può andare:
condizione umana più misera non c'è, e non è pensabile. Nulla è più nostro: ci
hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli; se parleremo, non ci
ascolteranno, e se ci ascoltassero, non ci capirebbero. Ci toglieranno anche il
nome: e se vorremo conservarlo, dovremo trovare in noi la forza di farlo, di
fare sì che dietro al nome, qualcosa ancora di noi, di noi quali eravamo,
rimanga”.
Primo Levi, Se
questo è un uomo
Il binario morto di Ravensbrück, foto di Ambra Laurenzi
Il vagone era pieno di gente: donne di ogni età, anziane, ragazze
e bambine e madri con i loro figlioletti in braccio. Tutte erano in piedi,
attaccate le une alle altre tanto da non potersi neanche muovere e in un
fortissimo stato di shock. Nessuna di loro, infatti, si aspettava di vivere una
situazione del genere e così presto. Ad aggravare il tutto c’era il caldo, un
caldo opprimente, mai provato prima di allora in una città tanto fredda come
Berlino. Era il 2 luglio e il giorno prima Nadine aveva compiuto diciannove
anni. Le donne cominciarono a piangere e urlare e lo stesso fecero i bambini.
Il caldo, le urla, lo spazio ristretto, la puzza poiché quello in cui si
trovava doveva essere un treno per il trasporto del bestiame: Nadine si sentiva
impazzire. Portò le mani alle tempie e iniziò ad ansimare per il panico.
“Signora, si sente
bene?” Nadine si risvegliò dall’incubo che in realtà era un ricordo del suo
passato e guardò l’uomo che gentilmente le aveva posato la mano sulla spalla.
Era il controllore. In fretta, Nadine aprì la pochette e gli porse il
biglietto. “Signora, si sente bene? …” ripeté l’uomo. Nadine, infatti, era
molto provata. “… Se vuole le porto un po’ d’acqua.” aggiunse il controllore
con apprensione. “No, grazie. Sto bene, non si preoccupi.” affermò Nadine
calmandosi e l’uomo timbrò il biglietto. “Mi scusi, come potrei raggiungere Ravensbrück?”
Nadine era pronta a ritornare nei luoghi della sua persecuzione, per guardare
da vicino il suo passato e ciò che aveva dovuto affrontare da donna libera e
per lasciare un fiore su quella che era stata la tomba di Kurt. “Deve scendere
alla stazione di Fürstenberg, prendere
un taxi e in un quarto d’ora è già arrivata.” rispose il controllore con fare
professionale. “La ringrazio.” Nadine abbozzò un sorriso e volse lo sguardo al
finestrino. La sua espressione era estremamente malinconica.
Presto il treno si sarebbe fermato e lei avrebbe fatto i conti con il suo
passato. Un po’ ne aveva paura.
Il treno si fermò quasi
di colpo e la marea di donne poté finalmente uscire da quella trappola. Un
soldato delle SS afferrò Nadine per un polso e la catapultò fuori dal vagone
facendola cadere bruscamente a terra. Le diede un calcio e iniziò a inveire
contro le donne ebree. Tutti i soldati imprecavano mentre le donne
singhiozzavano per la paura. C’erano anche delle donne soldato che a gran voce
davano ordine alle donne ebree di mettersi in fila. La confusione era pazzesca:
le urla dei soldati, l’abbaiare dei loro grossi cani e i lamenti delle donne
che come Nadine erano sgomente per l’ignoto futuro che le attendeva. La giovane
Nadine era in fila tra le centinaia di donne in una triste marcia avvolta da
un’illusoria speranza. Lo splendido viale fiorito e le caratteristiche casette
tirolesi fecero sperare a Nadine che il lager non fosse poi così male. E invece
si sbagliava.
Nadine
era a un passo dal cancello di Ravensbrück e, per un attimo, ritornò diciannovenne; in
quel vestito blu a campana regalatole da sua madre il giorno del suo
compleanno, con i capelli lunghi e spettinati, confusa, spaventata. Si avvicinò
ancora di più fino a toccare con le punte delle dita il freddo cancello del
lager. Quello che era conosciuto come “l’inferno delle donne” non era molto
cambiato ma, a differenza di un tempo, regnava il silenzio. C’erano ancora
numerose baracche, il forno crematorio, l’infermeria e il famigerato ufficio.
Dopo un’interminabile notte insonne trascorsa nell’umidissimo
locale delle docce, Nadine insieme a tutte le altre donne fu costretta a
spogliarsi e a uscire in quel modo nel campo. Tanto fu l’imbarazzo per una
ragazza riservata come lei. Il sole splendeva alto nel cielo ma il suo calore
non bastava per fermare il tremore di Nadine che freneticamente stringeva tra
le mani il vestito e i suoi effetti personali. La lunghissima fila di donne
nude si fermò davanti ad una piccola baracca e lì Nadine rimase in piedi per
ore e ore prima di entrarvi.
Nadine
rivisse sulla propria pelle ciò che aveva provato in quei momenti di estenuante
attesa: il caldo che la faceva sudare, la sabbia e le pietruzze che le
pizzicavo i piedi, l’umiliazione nel ritrovarsi nuda davanti agli occhi dei
soldati che si scambiavano battute volgari sulle deportate. Le ricordò tutte.
Ma ancora di più ricordò la paura, quella paura tremenda per l’ignoto che la
attendeva dietro quella porta. In quel doloroso momento, Nadine avrebbe voluto
l’abbraccio di suo marito e ricordò che neanche a lui aveva raccontato ciò che
accadeva nell’ufficio.
La stanza era
tremendamente buia, considerando che fuori era pieno giorno e spoglia. L’unico
mobile presente in quell’ufficio era una lunga scrivania dietro la quale sedeva
un ufficiale delle SS, forse un tenente. Grasso, senza espressione, che
scriveva lentamente su un registro di colore nero. “Nome?” fece l’ufficiale con
voce atona. La ragazza aprì lievemente le labbra impastate per la sete e
sussurrò il suo nome: “Nadine Hoffen.” “Età?” continuò il tenente senza alzare
lo sguardo dal grande registro. “Diciannove.” rispose Nadine terrorizzata. Poi
una donna soldato le strappò di mano i suoi effetti personali e, dopo averli
gettati sulla scrivania, ne fece un minuzioso elenco: “Vestito blu a maniche
corte, borsetta beige con tracolla lunga, scarpe marroni con tacco basso,
catenina in argento con ciondolo a forma di cuore; contenuto della borsa:
specchietto quadrato in astuccio di pelle color marrone, fazzoletto di stoffa
bianco.” La donna dall’espressione altera mise il tutto in una busta di cartone
che Nadine non rivide mai più e la poggiò a terra in mezzo a tante altre. “Bene,
procedere con la perquisizione.” esclamò il tenente. Panico: cosa significava
in quel contesto la parola “perquisizione”? Un’altra donna soldato si avvicinò
alla giovane Nadine e la sua intimità fu violata, morì la sua dignità e a breve
anche la sua identità avrebbe fatto la stessa fine. “Pulita.” affermò la donna
che l’aveva perquisita e l’ufficiale pronunciò dei numeri: “9,5,0.” Solo poche
ore dopo Nadine capì il loro significato.
Come
in un tragico film, Nadine si rivide mentre le tatuavano sul braccio sinistro
quel numero e le rasavano i suoi bei capelli neri. Come allora, una lacrima le
rigò il viso e un singhiozzo uscì dalle sue labbra. No, Nadine non aveva
dimenticato il suo passato, si era soltanto illusa di averlo fatto. Ciò che le
era successo in quel campo era stato orrendo: per cinque lunghissimi anni, le
avevano strappato la libertà, la dignità e la stessa umanità. In quell’inferno,
lei diciannovenne era morta. No, Nadine non poteva dimenticare e forse non era
nemmeno giusto farlo. Strinse più forte il fiore che aveva portato per Kurt e
lo lanciò oltre la rete di filo spinato in ricordo di tutte le persone che come
lui avevano perso la vita a Ravensbrück: il piccolo Petru, la coraggiosa Grâce, le tante donne e bambini che aveva
conosciuto nel suo blocco. In un secondo ne rivide i volti, emaciati,
impauriti, senza speranza, spenti. E non tralasciò la sua stessa morte, la
morte di quell’aspettativa di vita normale e magari felice che si ha all’età di
vent’anni, quella morte che era poi divenuta rinascita grazie al suo Werner.
Io chiedo quando
sarà che l’uomo potrà imparare
a vivere senza ammazzare e il vento si poserà.
Nomadi, La
canzone del bambino nel vento (Auschwitz)