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Autore: kiara_star    06/05/2013    4 recensioni
[Crossover | Magnus Martinsson (Wallander BBC); Eric (Snow White and the Huntsman)]
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" La rabbia velocizza i miei passi, ed i cento metri mi sembrano esser solo poche falcate. Mi fermo respirando a pieni polmoni. Non posso farmi prendere dalle emozioni adesso. Sono un maledetto detective, anche se sembra che nessuno se lo ricordi.
[...]
«Polizia?» Sposta lo sguardo sul distintivo. «Non hai la faccia da poliziotto.» Un sorriso gli piega le labbra ed i suoi occhi sono di nuovo su di me. "
Genere: Commedia, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Chris Hemsworth, Tom Hiddleston
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Crossover is the way!'
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16. Un passo avanti (forse due)
Detective Martinsson



XVI. Un passo avanti (forse due)



«Sicuro che non puoi restare ancora un giorno?»
«Mi piacerebbe Rob, ma ho qualche faccenda da sistemare e domani rientro a lavoro.» Mamma sorride tronfia ed io evito di doverle mostrare l’imbarazzo che porto dentro perché, dannazione, come posso essere ancora così imbranato da aver bisogno dei suoi consigli per tirarmi fuori dagli ingarbugli in cui mi sono ficcato da solo? «Tornerò a Natale. Promesso.» Rob mi dà una pacca sulla spalla ed annuisce, mamma continua a guardarmi sorridente.
«Telefona quando arrivi e fammi sapere come finisce.» L’abbraccio forte e sospiro un OK sconfitto.
«Come finisce "cosa"?» Rob ha lo sguardo confuso.
«Non sono affari tuoi.» Lo zittisce lei mentre mi sistemo la sacca sulla spalla.
«Non sono mai affari miei.» Mette il broncio ma ormai lo conosciamo bene tutti e due da limitarci a sorridere. Rob è un tipo in gamba, mamma è stata fortunata.
«Grazie per l’ospitalità.»
«Oh, piantala! Questa è casa tua!» Mi sembra di ritornare al primo giorno d’accademia. Mamma alla stazione con le lacrime agli occhi, solo che stavolta non c’è papà a guardarmi altero e a intimarmi di farmi onore. Onore, una parola davvero sopravvalutata.
L’altoparlante annuncia l’arrivo del mio treno e guardo verso le rotaie ancora sgombre.
«Hai preso tutto?»
«Sì.»
«I vestiti? Lo spazzolino? La pistola?» Le faccio segno di abbassare la voce. Mi guardo intorno ma nessuno l’ha sentita. Che diamine, ci manca solo che mi prendano per un terrorista!
«Ho preso tutto, sta’ tranquilla.» Sospira ed annuisce. Il fischio del treno intanto anticipa il suo arrivo.
«Fa’ buon viaggio, ragazzo.»
«Grazie, Rob.» Quando salgo sulla carrozza, quasi posso giurare di aver visto luccicare anche i suoi piccoli occhi castani.
 
Stavolta sono stato più fortunato, il vagone è semi vuoto. È un bene, stavolta è un bene.
Ho bisogno di un po’ di solitudine. Mamma mi ha tartassato dopo la nostra chiacchierata e mi ha riempito di fin troppi consigli. “Un invito a cena è ottimo per iniziare o magari un cinema.” Dubito fortemente che sarei in grado di proporre sia l’uno che l’altro ad Eric. Il solo pensiero mi fa rabbrividire. Ho solo bisogno di parlargli, di liberarmi da questi tarli e dirgli la verità.
Hanno detto che devo ascoltare e vedere con il cuore? Bene, ho deciso di chiudere occhi e orecchie, ed anche un po’ di cervello, in fondo è lui che mi ha causato più problemi.
Mentre Tomelilla si allontana, sento l’ansia nuotare nello stomaco e strofino le mani fra di loro con un profondo sospiro. Non ho più fasciature, non ho più lividi. Ho solo qualche taglio nell’orgoglio, ma credo che per quello ci vorrà un po’ più di tempo.
Oggi è domenica e domani riprenderò a lavorare. Non ho sentito più Lisa né Anne-Britt e voglio che mi ritrovino in forma. Lo sono, mi sento in forma. Ho ancora qualche dubbio, non lo nego, ma sono arrivato alla conclusione che scappare non mi porterà a nulla. Devo affrontare la cosa, affrontare le mie paure, affrontare Eric.
Rivedere i suoi occhi non so qualche effetto avrà su di me. Temo che la mia sicurezza possa sparire e che tutti i progressi fatti si rivelino inutili, ma non posso continuare a torturarmi con ipotesi e pessimismi. Devo agire, se devo farmi del male, voglio vedere il sangue sulla pelle. Non voglio più nascondermi dai miei stessi sentimenti. Voglio accettarli, voglio viverli - perlomeno provarci.
Il treno corre spedito e lentamente vedo disegnarsi una sagoma familiare. Ho i palmi sudati e li asciugo sui jeans. Respiro ancora mentre guardo fuori dal finestrino. Oggi c’è il sole, sembra che non ci sia più alcun acquazzone ad attendermi dietro l’angolo.
Siamo in arrivo a Ystad.” Gracchia l’altoparlante della carrozza. Mi ritrovo a fissarlo e inghiotto. Un nuovo respiro.
Posso farcela.
Il cuore batte forte.
Puoi farcela.
Il treno si ferma. Afferro la borsa e scendo.
Nella tasca, il biglietto del parcheggio. Raggiungo la Volvo e getto la sacca sul sedile del passeggero. Quando accendo il motore, sorrido nel sentire di nuovo sotto le dita la pelle del volante, il freddo del cambio. Stavolta niente guide dolorose, stavolta si va liscio e senza intoppi. Le lascio il tempo di riscaldarsi e mi guardo le mani: non tremano più.

Rivedere il mio appartamento mi ha fatto uno strano effetto, eppure non è che una manciata di giorni da quando l’ho lasciato. È spento, buio, freddo. Non mi piace.
Apro le tende il più possibile e lascio che i raggi del sole filtrino generosi nel soggiorno. Altrettanto faccio con la camera e la cucina.
Mi dico che devo cambiare arredamento, devo comprare qualche quadro, qualche stupidaggine da poggiare qui e lì. Potrei andare da Larsson e trovare qualcosa a buon prezzo. Quel pensiero mi riporta a Gambero, al furto Fustern. L’ho accantonato per tutto il tempo e mi chiedo se Anne-Britt abbia fatto qualche progresso. Dovrei chiamarla, forse potrei farlo, ma è domenica e lei sarà a casa con i suoi bambini. Glielo chiederò domani. Il lavoro a domani, per oggi ho altre questioni da risolvere.

Il deserto che regna nel mio frigo mi obbliga a recarmi nell’unico supermercato aperto per comprare almeno il pranzo. A stomaco vuoto non si ragiona bene, ormai l’ho imparato. E dopo essere stato viziato da mia madre in questi giorni, non riuscirei ad arrangiarmi con roba precotta. Voglio cucinare come si deve e trovare la forza anche fisica per affrontare la mia vera battaglia!
Sei il solito melodrammatico...
Sorrido di me, mentre le porte automatiche si aprono.
Una musichetta risuona nell’aria e mi stringo nella giacca per via della temperatura fredda del locale. Prendo un carrello e sono deciso a fare una spesa degna di questo nome. Ci sono pochi clienti, giusto qualche single come me – credo  e mamme in cerca di qualcosa all’ultimo minuto.
Dopo i primi due scaffali, ho quasi riempito per metà il carrello. Il mio portafoglio alla fine della corsa credo piangerà parecchio. Meglio lui che lo stomaco.
Sto per svoltare nel reparto surgelati quando per poco il cuore non mi arriva in gola. Fermo a scrutare attentamente una busta di minestrone c’è lui: Eric Huntsman.
Che ci fa qui?
Ritiro il carrello e mi nascondo dietro allo scaffale dei legumi in scatola.
Non può succedere per davvero! Sono cose da film! Sono quegli stupidi cliché da commediola da quattro soldi! Non posso incontrarlo proprio qui! Non ora!
Come temevo tutta la sicurezza sparisce.
No, non posso parlargli, non so che dirgli! Cosa potrei dire di importante davanti ad un’intera sfilza di pizze precotte congelate?
La situazione si sta colorando di grottesco.
Una signora che mi passa accanto mi lancia un’occhiata stranita. Devo avere un’espressione assurda sulla faccia.
Controllo, controllo. Basta aspettare che se ne vada.
Mi affaccio di poco ma Eric è ancora li, stavolta con le mani impegnate a rigirare quella che sembra una busta di spinaci.
Buttala nel carrello e vai alla cassa!
Torno nel mio rifugio e cerco di respirare con regolarità.
Perché a parole è tutto così semplice? Perché, invece, quando ti trovi davanti ai fatti è come scalare una montagna a mani nude?
Lo guardo di nuovo. Indossa il suo giaccone verde mirto su un paio di jeans chiari ed ha i capelli raccolti solo per metà ed un paio di ciocche libere gli sfiorano il viso. Non li ho mai visti legati in quel modo ma non posso negare che stia dannatamente bene anche così. I suoi capelli che profumano di mandarino...
Posa la busta e ne prende un’altra. Mi mordo un labbro agitato.
Che posso fare? Cosa avrà fatto in questi giorni? Avrà mai pensato a quello che è successo quella mattina? E se non l’avesse fatto? E se invece si fosse buttato tutto alle spalle non appena ho chiuso quella porta? E se tutta la fatica di questi giorni fosse stata inutile ed io stessi realmente inseguendo una chimera?
"Smettila di farti domande."
Mamma, sono solo un perdente.
Sto per perdere di nuovo lucidità e controllo in una feroce paura quando un’anziana donna mi si avvicina.
«Scusi, giovanotto, potrebbe prendermi quella confezione lassù?» Cerco di tornare in me e guardo verso l’ultimo scaffale in alto.
«Certo.» L’afferro e gliela porgo.
«Grazie mille.» Rispondo al suo sorriso e la guardo sparire verso il banco frigo.
Il carrello cigola.
Non può essere!
Uno, due, tre: Eric si volta ed io gelo.
Smetto di respirare, smetto di pensare, smetto di esistere.
«Ehi.» La sua voce, i suoi occhi.
Oh, Eric...
«Ehi!» Finalmente getta la busta nel carrello - troppo tardi, purtroppo.
Stringo forte l’impugnatura rossa d’acciaio e cerco di non mostrare alcuna agitazione. «Fai compere?» Mi sento un completo idiota. Dopo tutto quello che è successo, dopo tutti i discorsi fatti ed ascoltati, dopo le lacrime, dopo la rabbia, dopo le promesse con me stesso mi ritrovo a chiedergli se fa compere?
Cosa vuoi che faccia in un supermercato?
«Ogni tanto.» Il suo sorriso mi strappa via ogni pensiero. L’ho rivisto ogni notte quando chiudevo le palpebre eppure mi sembra di vederlo per la prima volta. Mia madre ha ragione, questo sentimento ha un nome corretto, molto corretto, peccato io faccia così tanta fatica a dirlo ad alta voce. «Come stai?» Il suo tono è quasi piatto eppure intuisco una nota di sincera gentilezza.
«Bene.» Sospiro e stavolta credo di esser sincero anch’io. Sì, sto bene. Ora sto bene, con i suoi occhi su di me, con le sue labbra che mi sorridono. Sto bene. «Io dovrei scusarmi per quello che è successo quella mattina.» La situazione è la più sbagliata, questa musichetta pop è inopportuna, l’aria gelida che sale dai frigoriferi è la cosa più fastidiosa di questo mondo. Gli scatoli di cereali che sommergono il mio carrello e le sue buste di minestrone e spinaci, sono l’ultima cosa di cui ho bisogno per sentirmi a mio agio, eppure le parole escono da sole. Non ci sono le vecchiette che mi chiedono di passare, non ci sono i commessi con il camice rosso che sistemano la merce, non c’è lo sconto 3x2 attaccato alla mia destra. C’è solo Eric, ci sono io e c’è la voglia di non scappare più.
«Non devi. Non ce n’è bisogno.»
«Invece sì. Tu sei stato gentile e così disponibile con me ed invece io ti ho trattato come non avrei dovuto. Sono stato un vero idiota. Avevi ragione!» ridacchio nervosamente e abbasso lo sguardo al carrello. Dignità? In questo momento decisamente superflua.
«Ho parlato con una donna.» Rialzo lo sguardo. Eric ha in mano una confezione di funghi che però rimette a posto. «È venuta a farmi qualche domanda sulla Fustern.» Riporta i suoi occhi sui miei.
«Anne-Britt» sospiro più che altro a me stesso. Perché l’ha fatto? In fondo le avevo detto che Eric non c’entrava.
«Non ricordo il suo nome, ma le ho detto che avevo già parlato con te e che se voleva sapere qualcosa doveva semplicemente chiedertelo.» Immagino la reazione di Anne-Britt ai modi di Eric. Purtroppo l’impressione che dà a prima vista è totalmente diversa da come è in realtà. Ricordo la prima volta che gli parlai, credevo che mi avrebbe lanciato la sua accetta non appena avessi sbagliato ad aprire bocca. Mi viene da sorridere. Sembra una vita fa eppure sono solo settimane. Come posso essere cambiato così drasticamente in così poco tempo? Come può il mio cuore essere mutato così?
Come hai fatto, Eric?
«Lei si è occupata temporaneamente dei miei casi. Sono stato fuori servizio per qualche giorno.»
«A me ha detto che eri impegnato in un caso importante.» Sorride ancora alzando un sopracciglio ed io mi mordo le labbra stupidamente. Anne-Britt mi ha coperto egregiamente ed io mi sono sputtanato al volo. Ah, mi era mancato sentirmi così ridicolo davanti agli occhi di Eric...
«È una buona collega ed una cara amica.» Lui annuisce e torna a guardare il suo carrello. Vorrei dirgli mille cose ma in questo momento non ho parole per nessuna di esse. «Oggi non lavori?»
«È domenica.»
«Oh, certo!» Mi gratto la fronte e cerco di non diventare ancora più rosso.
«La tua mano?» Le do un occhio e la ruoto stringendo e rilasciando le dita.
«Sta bene anche lei, anzi, ancora grazie per... ehm... Le tue cure, cioè, per quello che hai fatto, io... Non so, credo dovrei sdebitarmi in qualche modo.» Magari stando zitto ed evitandogli un’altra patetica cascata di parole a caso. Mi gratto anche la testa e ormai sono più che sicuro di avere i nervi impazziti.
«Magnus, puoi farmi un favore?» Chi, io? Sbatto le palpebre confuso ed annuisco.
«Certo.» Tutto quello che vuoi!
Eric si bagna le labbra e sorride con una strana espressione. Tremito al ginocchio destro. «Potresti smetterla di ringraziarmi e di scusarti?» Mi ritrovo a ridacchiare colpevole e sono costretto a scostare lo sguardo sull’ordinata file di zuppe di farro. Ah, dovrei prenderne un paio!
È questo che mi attrae e spaventa di lui, il modo in cui riesce a farmi sentire ogni volta. Allegro, terrorizzato, imbarazzato, sorpreso, stupido, buffo, peggiore... migliore.
«Ci proverò» sospiro riuscendo a sollevare appena gli occhi su di lui.
«Bene.»
«Bene» ripeto con un leggero sussurro. Il suo sorriso allarga il mio e torno a ridacchiare passandomi una mano sul collo. Penserà che gli sto ridendo in faccia! «Scusami.»
«Ah, perfetto!» Non riesco a controllare questa risata nervosa e quasi contagio anche lui. Mi sento totalmente idiota, ma un idiota stranamente felice. Ero così spaventato dall’idea di rivederlo che quasi mi sembra non sia reale questa situazione assurda e insensata ma semplicemente perfetta. Il supermercato, i carrelli, l’altoparlante che invita a recarsi al reparto frutteria per uno sconto sulle mele. La sua risata, la mia. Il mio imbarazzo, forse il suo. «Ti trovo bene.» Il riso sfuma ed annuisco.
«Sì.» Non era una domanda eppure dovevo rispondere. I suoi occhi sorridono al posto delle labbra e mi rendo conto solo ora che per Eric non sono così insignificante come ho creduto. È una breccia che mi spalanca letteralmente il cuore. «Anche tu stai bene...» passo inconsciamente le dita sull’impugnatura del carrello. Eric non dice nulla. Resta a guardarmi con un mezzo sorriso ed una sottile ciocca di capelli che gli taglia l’occhio destro. Mi mordo un labbro e sono costretto a spostare lo sguardo altrove. L’aria gelida dei frigoriferi adesso è una vera manna.
«Allora ci vediamo.» Saetto sul suo viso ed annuisco con vigore.
«Sì, certo! Ci vediamo.»  
«Ok.» Eric afferra il suo carrello.
«Ok...» Devo smetterla di ripetere tutto quello che dice come un cerebroleso. Mi regala una veloce alzata di sopracciglia e poi sparisce verso il reparto accanto. Quando non l’ho più nella mia visuale mi lascio andare ad un lungo sospiro ed alzo la testa in alto, verso le luci del locale, verso le serpentine di tubi e cavi, verso quel viso che è ancora fermo nei miei occhi.
Ho l’insano istinto di seguirlo, di vederlo mentre paga e carica le buste in auto, mentre guida verso casa e sistema tutto nel frigo, nella credenza. Voglio vederlo fare qualcosa che non sia distruggere la mia vita o salvarla. L’ho visto cenare, però, l’ho visto lavorare, l’ho visto riposare... L’ho visto sanguinare.
Mi lascio scappare un altro sospiro e stavolta i miei occhi si chiudono. In fondo, benché con lentezza, lo sto scoprendo, ed ogni scoperta accelera il mio battito.
«Scusi?» Torno alle realtà.
«Oh, mi scusi lei.» Sposto il carrello per permettere ad una mamma ed il suo bambino di passare.
«Grazie.» Le sorrido con un cenno della testa.
Meglio finirla con le fantasie e tornare a fare la spesa, magari Eric è già andato via.
Getto la busta di farro nel cumulo e vado al reparto carni.
No, Eric non è ancora andato via. È lì che parla con il ragazzo dietro al banco.
Dovrei girare i tacchi ed andarmene o povrei avvicinarmi e sospiragli ridacchiando un “Chi si rivede?!” A cui lui riderebbe. Forse.
Ma preferisco la prima e vado alla cassa. Ho già abbastanza scorte per non morire di fame per almeno una settimana ed ho fatto già abbastanza per alleggerirmi le spalle. Il cuore invece no, non ha alcun peso e sembra quasi mi libri nel petto.

Ho riempito credenza, frigo e congelatore. Sono stato però costretto ad infilare le buste di cereali sotto al lavandino; ne ho prese davvero troppe. Chiudo l’anta ed inizio a preparare il pranzo. La tivù parlotta ma la guardo con distrazione. Allo spot del deodorante al limone, neanche mi rendo conto di canticchiare la musica.
Non cammino, volo.
Quando getto i piatti e le padelle sporche nella lavastoviglie quasi sono fiero di me, sazio e fiero. Sono sicuro che anche mia madre lo sarebbe.
Vorrei chiamarla, vorrei dirle dell’incontro assurdo del supermercato, ma lei mi chiederebbe i dettagli. I dettagli sono ciò che rendono tutto più difficile. Sono quel femminile degli aggettivi, che mi fa toccare di nuovo terra.
Scelgo velocemente il programma di lavaggio ed avvio la macchina. Mi ritrovo ad accasciarmi sul divano con lo sguardo perso allo schermo.
Ripenso alle sue parole, al suo “Ti trovo bene”, alla luce del suo sguardo. “Ti trovo bene, sono contento”, era questa la frase completa ed io l’ho capita.
Mi passo una mano sul viso per nascondere il sorriso imbarazzante che ha piegato le mie labbra. Mi sembra di tornare indietro di quindici anni, quando bastava una sola parola, un solo sguardo ed era tutto. Ma poi ti accorgevi che no, non bastava, e lì c’erano gli ormoni che ti spingevo senza che potessi fare nulla. E come non bastava a quindici anni, non basta neanche ora, ma gli ormoni adesso li puoi controllare. Teoricamente.
Mi torturo le labbra fra i denti e vorrei fossero le sue ed è un colpo dritto in pancia. Prendo un profondo respiro e mi tiro indietro i capelli. Alla tivù, l’intervista al ministro dell’economia. Vedo la sua bocca muoversi ma non sento alcuna parola.
Voglio vederlo, voglio parlargli ancora. Non mi basta, non mi basta più.
Mi tiro a sedere e cerco di regolare il respiro. Ho già fatto un enorme passo avanti non posso correre il rischio di farne uno sbagliato. Ora sto bene, ho ritrovato uno pseudo equilibrio, domani tornerò al lavoro e devo farlo nel migliore dei modi. Per Eric ci sarà tempo, devo prendermi tempo. Ci siamo chiariti, è tutto chiarito. Niente grazie né scuse, lui me l’ha chiesto ed io lo farò.
La testa lo pensa, la lingua potrebbe anche ripeterlo e quasi me ne convincerei, ma il batticuore che risuona nel mio petto non vuole sentire ragioni, così come il sangue che pompa nei muscoli e mi obbliga a scattate in piedi, a camminare avanti e dietro, e stavolta non è più ansia, stavolta è diverso.
Afferro il telecomando e cambio canale alla ricerca di qualcosa che mi tenga il cervello impegnato, qualcosa che catturi la mia attenzione e la sposti da lì, da lui.
Telegiornale. Cambio.
Il profumo della sua pelle.
Film di guerra. Cambio.
Il suono della sua voce.
Pubblicità. Cambio.
Le sue mani sulle mie.
Il cuore accelera.
Programma di cucina. Alzo il volume.
La sua bocca sulla mia.
Lo stomaco si contorce ed il salmone alla francese non ne è il motivo.
Poggio entrambe le mani sullo schienale del divano e stringo con forza la stoffa calda.
No, non posso farlo. Sono le due del pomeriggio di domenica. Non posso andare a casa sua e bussare alla sua porta.
“Che ci fai qui?” mi chiederebbe ed io non saprei rispondere. Resterei lì imbambolato a lasciare che la mia faccia parli di imbarazzo e paura e non potrei chiedergli neanche scusa.
Ho bisogno di aria.
Mi infilo in auto e mi ritrovo al porto. È calmo e silenzioso. In lontananza il suono di una sirena, marinai, i soliti, che passeggiano rapidi. Parcheggio davanti al ristorante in cui mi fermai quel giorno a mangiare gli spaghetti, mi sono detto che sarei dovuto tornare, ma non oggi, per fortuna ho già pranzato. C’è una leggera brezza piacevole che mi scompiglia i capelli e mi fa restare con le mani nelle tasche a fissare le acque chiare. Qualche nube macchia il cielo ma siamo lontani dall’acquazzone di Tomelilla. L’aria è gradevole, forse sarà una delle ultime giornale di tiepido autunno.
Prendo a camminare sulla passerella e scalcio una piccola pietra che mi compare davanti. Magari fosse altrettanto facile scalciare via dubbi e pensieri. Perché ci sono, diversi, nuovi, vecchi, e fanno sempre tutti paura. Stavolta non ci sarà mia madre, non può esserci. Stavolta ci sono i brividi sulla pelle quando penso alla sua, c’è la bocca che si asciuga al desiderio di perdersi in quella di Eric. C’è un corpo che reagisce d’impulso ad un cuore che urla.
Ci sono io, Magnus Martinsson, e nessun distintivo da mostrare.
Alla mia sinistra scorgo l’insegna di una gelateria. C’è un po’ di movimento, qualche coppietta che si tiene per mano, un gruppo di ragazzini, genitori e figli, ma la mia attenzione si focalizza su un piccolo tavolino tondo. Seduto stancamente, con una coppa di gelato praticamente integra c’è Kurt. Sguardo pensieroso e cucchiaio che affonda meccanicamente nella crema ma al solo scopo di ferirla. Di fronte a lui, un’altra coppa di gelato a metà ed una sedia vuota.
Non pensavo di rivederlo prima di domani.
Mi avvicino e, quando lo affianco, alza lo sguardo su di me.
«Magnus!» Cos’è, un sorriso? Non credo di averne mai visto uno più strascinato.
«Ciao, Kurt.» Il mio è una semplice tirata di labbra. «Ti ho visto seduto qui e ho pensato di disturbarti.»
«Siediti.» Mi fa un cenno con la testa ed io riempio quel posto vuoto di fronte. «Pensavo fossi a Tomelilla.»
«Sono tornato questa mattina.» Lo sguardo di Kurt ha sempre uno strano alone. Non sono mai stato in grado di definirlo: triste, profondo, perso. Sconfitto.
Probabilmente sbaglio su tutte.
«Eri con Linda?» azzardo e lui annuisce tornando a deturpare con la punta d’acciaio la coppa di gelato.
«Ha ricevuto una telefonata ed è dovuta andare via.»
«Come sta?»
«Bene. Lei sta bene.» Ma tu no. Stavolta però preferisco tacere. Vago con lo sguardo in giro, al tavolino accanto, due fidanzati che sorridono e parlano a bassa voce. Un’immagine che mi provoca opposti sentimenti.
«Come vanno le indagini?» chiedo e non serve specificare quali.
Kurt mi osserva in silenzio per qualche attimo, poi lascia affondare il cucchiaio nella crema e si porta una mano alla giaccia. Dall’interno sinistro tira fuori una busta di plastica.
«L’ho trovata sul parabrezza della mia auto due giorni fa.» Aggrotto la fronte e l’afferro quando me la porge. Al suo interno un foglio con qualche riga scritta a mano. Una calligrafia ordinata e pulita, raffinata, azzarderei dire.
Faccio scorrere gli occhi sul suo contenuto ed inghiotto un certo disagio.

















Continua...






NdA.
Magnus è tornato a Ystad e pare che le cose si siano un po’ evolute, soprattutto sotto la cintura dei suoi pantaloni. Ok, questa era pietosa >///>
Come al solito grazie per l’affetto con cui seguite questa storia. Siete davvero FANTASTICHE! TUTTE! (invece io sono pessima perché creo inutili allarmismi -///- forgive me!)
Che ci sarà scritto nella lettera di Kurt? Eh... segreto!
kiss kiss Chiara
  
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