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Autore: Hyarviel    07/12/2007    0 recensioni
Il racconto di un sogno. rimasto vivido al risveglio, un po' sporco di sabbia.
Mi sveglio
all'interno di una casa, più un palazzo,
lo so perché percepisco la frescura dei muri e la penombra.
I soffitti alti mi danno un senso di nausea e di vuoto. (...)
Genere: Romantico, Sovrannaturale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Nei cristalli dei castelli delle cattedrali di cazzate
che sono le tue parole
tu ti bagni, nella poesia, e sorridi.
non hai bisogno di acqua, per sopravvivere.

ben oltre il fisico, le bonnes chances, si spingono i tuoi occhi.

Sono cristalli di gole già vuote
arse dalla sabbia del vento di scirocco
magazzini mai sazi di attività e sgomento (vedi)
Cammino controvento cercando ombra, e la trovo al riparo di un patio dall'aspetto messicano dell'immaginario comune.
col vento, la polvere sporca e secca distrutta dal sole. I sassi. I muri bianchi.
C'è un recinto, con un cavallo vecchio che si abbévera stanco. Una porta, di legno; mi ci asciugo contro il sudore dalla fronte, ed entro.
Una volta qualcuno mi disse che lo scirocco è il vento degli assassinii.
Mi disse che crea un'atmosfera particolare, che respirandolo si impazzisce, si impugnano i coltelli, le spranghe, i fili di ferro, e semplicemente... si uccide. Mi fece paura il racconto, in quel momento. Lo ricordo in un'auto in corsa, su una strada grigia e brulla, forse verso casa.
E' tutto molto vago, in fin dei conti.
Potrebbe essere stato molto tempo fa.

Salgo le scale nella penombra, capito in una hall messa male, come al solito, in questi scenari non posso che trovare case distrutte, cercando frescura. Una sorta di par condicio degli spazi.
Il gentile receptionist, un uomo sulla trentina, ha i capelli corti e unti, quasi bagnati, mi sorride con denti falsi di metallo e mi allunga una chiave, scintilla il numero quattrocentosei.
Mi piace la sensazione dell'argento sulle dita, del legno poroso e marroncino, al tatto.
Il suo contrasto con le mie dita.

Lo ringrazio, gli stringo la mano, porgo i miei documenti
in tutta risposta mi introduce in una stanza ballatoio, balconcino
un uomo morto prende il sole tranquillo, sotto una rete da pesca
le braccia bucate e piene di tatuaggi riconoscibili ambra
ha ancora una siringa infilata, poco sopra il polso destro, spilla sangue e liquido scuro, sebo, diluito in stille granata.
mi guarda, si gode le sue prime ore di non-vita, mi guarda fisso e demoniaco, sembra in una trance di godimento o dolore, ha l'aspetto da portoricano, la pelle scura, gli zigomi paffuti e i capelli liscissimi neri, lunghi. uno scarafaggio cerca riparo sotto la sua nuca. brilla per un attimo nel sole prima di sparire.

Lui compare da dietro una porta a destra, si inchina alla me presenza, toglie la giacca e sbuffa, dal caldo. La appoggia aperta sul corpo del fortunato, per impedirmene la vista. Si preoccupa, che carino, aggrotta le sopracciglia diventando più vecchio.

Indossa una maglietta bianca tutta sudata, sotto il vestito elegante, mi prende per una mano citando versi dell'Alcesti a memoria. “Chaere, principe” è ciò che vorrei comparisse a mezz'aria
dipinto nell'aria dalla mano di un grafico sullo schermo.
Apre bocca tendendo le labbra verso il vento, forse cerca le parole giuste.
“intrappolati in un triste fandango, gireremo a vuoto battendo i tacchi sul parquet, ancora per cent'anni, forse”
punta il dito contro il latino morto “lo vedi quell'uomo, cara?”
annuisco, per farlo continuare, mi sembrava in attesa, mi sembrava
“lo vedi, bene. lui sta bene così com'è. penso abbia preso il treno un po' in anticipo, rispetto al dovuto, ma chi siamo noi per giudicare?”
Osservo intorno a me i muri grigi pieni di ragnatele, il suo sorriso mi illumina un poco, in questo contrasto fortissimo tra luce e ombra, quel tipo di chiarore al quale devi socchiudere gli occhi, per non soffrire.
L'invetriata che scorgo, scostando un po' lo sguardo oltre la ringhiera, è sporca di sangue, schizzi, macchie percepibili, strisciate di mani frettolose che cercano aria.
Lui mi tende il braccetto, per accompagnarmi dentro ancora.
“sono d'accordo. ma io non voglio finire così, principe”
“noi abbiamo un'altra strada, da seguire. E io lo so, tu sei come me.
l'ho capito subito, quando ti ho vista.
non sarei qui. Altrimenti”

Io ci credo, nel sussulto che è il tuo viso quando mi guardi.
perchè - mi guardi?
so che ogni tanto lo fai (non mentire), tanto con me non ci riesci
credi che così, trincerandoti dietro un vacuo splendore, di quello che la parole dicono, credono, o fanno, potrai salvarti? non è vero. nemmeno tu ci credi. fino in fondo.

Un cane sporco raggiunge i suoi piedi, lecca la punta di una scarpa, Lui trema per la sensazione altissima, lo schifo, non so.
fissa il pavimento, subito dopo, come a cercare qualcosa; ficca la mano in tasca, accarezzando le chiavi, il coltello a serramanico che dorme nell'anima di legno.
“ci sono giorni, in cui vedo cose bellissime” mi dice, accarezzando il dorso delle mie mani.
si accomoda su una poltrona in un angolo, con vista sul deserto, di fuori
gli siedo in grembo, tirando i lati della gonna per non scoprire le ginocchia
“queste cose, a volte, sono talmente belle da farmi piangere”si liscia i pantaloni sulle gambe, mi accarezza i fianchi, inspira il mio profumo
“immagini, no? quando te ne esci in strada e ogni cosa è lentissima, i colori sono vividi, e la vita esplode nelle sue forme più stupide e chiare. ogni scheggia e ogni sasso è la voce di una poesia più grande di te. che batte a gran voce, scuotendosi il petto, i ritmi bestiali.”
“lo capisco” concedo “ed è un problema?”
“ci sono persone, piccola mia, ci sono persone che non le vedono, queste cose. che non colgono il respiro, che non si lasciano commuovere, toccare, travolgere, dai profumi / tu li vedi? / io li vedo, quei profumi. li distinguo, gli dò colori, forme e nomi strani. li compongo nell'aria, tu le riconosci, le mie forme?”
“non sempre. ma fanno piangere anche me”
“piangere. che parola strana. vorrei non doverla pronunciare mai.”.

mentre è lì, che mi stringe nell'ombra
penso a quanto sarebbe carino che arrivasse qualcuno ad offrirci delle rose, ora.
quanto mi piacerebbe entrare in un supermercato e guardare gli scaffali, scegliere una confezione di cereali e una di burro, la carta colorata delle patatine e i biscotti leggeri alla farina di riso, da mangiare con le cose salate.

Penso che mi basterebbe addormentarmi qui, con la testa poggiata sulle sue spalle forti. sognare i profumi e i colori di cui mi parla, lasciarmi sradicare da terra dagli striscioni dipinti delle pubblicità, le tinte febbrili dei vestiti nelle vetrine.
spingere a lato dai passanti, mano nella mano con il principe degli stupidi.
penso che gli alberi e i neon non sarebbero cose nuove per me.
uguale natura al pareggio finale delle necessità.

L'intensità, a tenere gli occhi aperti
(sì, in questo ha ragione)
a volte, mi costringe a crollare a terra, in ginocchio
pregarti di fermarti, fermare tutto, per un attimo.
o altrimenti piangerò, sarò costretta a piangere.

In fin dei conti, è quello che faccio / no, non me ne importa niente di salvarmi. non ora.
allora glielo dico “non mi importa niente di salvarmi, non ora”
“ma non posso rinunciare al mio sangue freddo. senza quello rischio di perdermi davvero”

“non ce n'è bisogno, zuccherino
io sono qui apposta, adesso.”
“cosa intendi?”
“se volessi prendermi il tuo autocontrollo
entrerei di mattina, in punta di piedi. a baciarti tra le lenzuola.”
“e invece?”
“e invece me ne sto qui, nel silenzio. senza urla. sempre prima che il sole sorga”
“...”
“non vorrei bruciarmi”

  
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