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Autore: miss potter    03/06/2013    1 recensioni
Vale la pena di lottare solo per le cose senza le quali non vale la pena di vivere.
Ernesto Che Guevara
Genere: Guerra, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: OOC | Avvertimenti: Contenuti forti
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Dovrei esserci abituato, ormai. Ma ci sono sere in cui me lo chiedo ancora, se può fare più freddo di così.

Ci sono sere, lunghe ed estenuanti notti, in cui, disteso supino sul materasso alto cinque centimetri che alcuni si allargano a chiamare letto, cerco di concentrarmi su questa temperatura estrema nella speranza di dimenticare di chiudere gli occhi e congelare prima, o di impazzire.

Sarebbe una consolazione e no, non è una contraddizione, per me, pensare alla possibilità di perdere la testa definitivamente. Perché arrivi ad un certo punto, a fare questa vita, in cui ti chiedi cosa sia meglio tra il restare svegli coi crampi per la fame e delle fitte alla spalla che ti demoliscono dal primo all’ultimo nervo e l’addormentarsi, sapendo ancor prima di serrare le palpebre che probabilmente ti risveglierai tra due, tre ore con un attacco d’asma in piena regola e i vestiti madidi di sudore per l’ennesimo incubo. E sarà comunque un giorno in meno allo scoccare del 1938.

Sono interessanti, i miei incubi. Fanno parte di quella particolare razza di sogni angosciosi che, dalle mie parti, se fossero persone in carne ed ossa non ci penserebbero due volte prima di promuovere a commissario del popolo agli Affari Interni, quell’incantevole, infame categoria di incubo che ti perseguita anche quando non vuoi, che sa cosa stai pensando, ovunque tu sia e qualunque cosa tu stia facendo, per quanto tempo lo stai pensando e, soprattutto, perché lo stai pensando, plasmandolo in orrende visioni di macabre facce sfigurate dal dolore fisico e psicologico che se ne stanno a guardare senza dire niente, fluttuandoti intorno come mosche su una carogna a ventre scoperto mentre ti contorci tra le lenzuola bagnate del tuo male e invochi il sonno eterno.

Sei cadavere e non lo sai, sei cadavere e non è rimasto più nessuno per chiuderti gli occhi.

Me le ricordo tutte, le mie facce. Perché qui, da queste mie parti, tutti quelli come me con un briciolo di memoria a lungo termine hanno le proprie facce da ricordare e da sognare la notte. Solo che alcuni, di quelli come me, quelli che non si scaricano la pistola d’ordinanza su una tempia, semplicemente si girano dall’altra parte, sostituendo le terribili allucinazioni con eteree immagini di bionde nude che fanno loro cose sicuramente più piacevoli di un tiro a segno con le teste bendate dei prigionieri, inginocchiati sul margine dei fossi.

Questa di oggi, per evitare di proseguire in questo grottesco sproloquio, è una di quelle notti, tanto per cambiare. Precisamente, una di quelle notti in cui speri con tutti quanti i tuoi frammenti di cuore che tutto passi il più velocemente possibile. Ma vado talmente tardi a dormire ultimamente che non è raro il caso per me di guardare il sole sorgere e dipingere di rosa e indaco la immensa distesa bianca e verde scuro che s’intravede oltre le grate della mia finestra.

Ed è allora che so che un altro giorno è passato, che sono sopravvissuto ai mostri del buio, che sono ventiquattrore in meno verso una forse troppo utopistica redenzione a questo schifo che alcuni si allargano a chiamare esistenza.

Ma è davvero esistenza, questa, mentre mi stropiccio gli occhi e cerco di ignorare la crescente emicrania che pare volermi aprire in due il cervello, e mi chiedo che effetto mi farebbe se fossi alba, quale sensazione si prova ad essere liberi di levarsi e riposare quando si vuole?

«Jan» mi chiama una voce robusta e pacata che conosco bene.

«Sì, sì… Sono sveglio.»

Con un occhio mezzo aperto, noto Michail sorridere mestamente da dietro le sbarre della finestrella della porta, e scuote il testone mezzo calvo con una certa aria rassegnata mentre si trascina in camera sua dopo una notte passata di guardia, e non dice niente.

Ho ancora la vista appannata per poterlo garantire al cento per cento ma, da quello che mi è parso di vedere, ha la pelle dello stesso colore dall’acqua da sterilizzare, grigia e macchiata.

Richiudo in fretta gli occhi, stravolto, un po’ perché ho dormito – se ho dormito – venti, venticinque minuti, un po’ perché non ho nessuna intenzione di preoccuparmi della salute dei miei uomini, già che devo provvedere alla mia e a quella delle decine di detenuti che ogni giorno bussano alla porta dell’ambulatorio coi pollici mezzi staccati e la dissenteria.

Ma io, Jan, non sono sempre stato così.

Prima di diventare soldato, ero un ragazzo – perché anch’io un tempo lo fui – e come ogni ragazzo vergine della guerra adoravo la mattina, svegliarmi col canto degli uccelli nelle orecchie, il gatto di mia sorella raggomitolato sui piedi e l’amaro del caffè che, gentile, mi solleticava il naso.

Ma, più di tutto, adoravo mia madre, quella fatta di carne e lunghi capelli dorati e non quella adottiva, di metallo e bandiere.

S’alzava presto e cantava in giardino cogliendo fiori, il vestito arrotolato fino le ginocchia e un fazzoletto azzurro sul capo.

Cantava canzoni che narravano di popoli, finalmente padroni di se stessi, liberi di passeggiare per strada senza il timore di potersi esprimere, di tenersi la mano, il sorriso fuori e dentro il cuore.

Cantava di una terra vastissima e florida, una terra tanto grande e bella da far sentire immuni i suoi figli a qualsiasi tipo di sofferenza, persino alla morte.

Cantava di questa terra un po’ mamma, un po’ nonna, saggia e benevola, di come ci sarebbe stato spazio per tutti, un giorno, e di come tutti avremmo camminato a testa alta, un cesto di spighe sottobraccio e le scarpe di feltro. E i bambini avrebbero giocato coi cavalli selvatici, i vecchi rugosi ma esperti avrebbero fumato la pipa seduti pigramente sulle verande, raccontando storie e riposando nell’abbraccio del tiepido sole mentre l’estate avrebbe lasciato spazio all’autunno, la melodia di una solitaria balalaika ad accompagnare il calare del giorno, stemperando nota dopo nota la fatica del vivere.

Adesso, nel silenzio umido e duro di questa cella, sono ancora Jan, ma di anni e dolori ne ho accumulati fin troppi, perché avere trentun anni nel 1937 è un po’ come averne avuti ottantacinque quando mia madre era ancora viva e ancora se ne sentivano in giro, di canzoni, e la gente sapeva dare amore a figli e sposi, ragioni per vivere prima ancora che ideali per cui perire.

Penso all’amore, che un po’ ideale lo è, e scaccio questo pensiero dalla testa prima che me ne ubriachi, come si farebbe con un moccioso affamato con le manine tese e gli occhi lucidi di bisogno.

Ordinario. Banale. Mediocre. Futile. Invisibile.

Questo è il Gulag, e l’unico sentimento che ci si può permettere qui è l’apatia. Ed è così appagante aver perso la capacità di importarsene…

Che cosa costa? Che cosa ci costa? La vita, qui, non costa niente.

La terra, fuori dalla mia finestra, è secca, soffocata dal gelo, e i lupi ululano lontani, affamati, i falchi gridano, l’odore pungente della pasta per il cuoio che si mischia a quello nauseabondo dello scarico dei motori, e non potrei desiderare una realtà diversa da questa.

Non c’è più profumo, né fiori, né spighe, né nota.

Non c’è una realtà diversa da questa. 
  
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