Fanfic su attori > Coppia Cumberbatch/Freeman
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Autore: Castiel Who    05/06/2013    3 recensioni
Ben e Martin sono migliori amici. Martin, però, è conscio di provare sentimenti che vanno ben più in là della semplice amicizia e rimanere indifferente (soprattutto quando lui e Ben dividono le stanze d'Hotel) è sempre più difficile. Non vuole fare nulla per rovinare la loro amicizia ma, una notte, ubriaco, si confida con Moffat. Moffat inizia a tentare di spingerlo a farsi avanti, ma Ben legge i loro continui bisbigli segreti come prova di un loro coinvolgimento sentimentale. Geloso, inizia a fare dispetti e a commentare sarcasticamente tutto quello che fa Moffat.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Benedict Cumberbatch, Mark Gatiss, Martin Freeman, Rupert Graves, Steven Moffat
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Qualche metro più in là, lontano dai due uomini intenti a conversare, Benedict stava discutendo amabilmente con Mark e Rupert. Il primo profilava Cumberbatch come il tipico individuo che sarebbe stato trovato caratterialmente buono da chiunque gli si avvicinasse; un uomo come lui era perfetto per ricoprire il ruolo di Sherlock che, nonostante il suo essere sociopatico e intrattabile, si professava sempre dalla parte dei giusti. Non era certo adatto per prendere i panni un super-cattivo di un film di fantascienza come Star Trek. Rupert, d’altro canto, insisteva sul modo in cui i suoi lineamenti potessero risultare duri e distanti, quando arrivava il momento di assumere un’espressione seria, puntualizzando quanto gli dessero un’aria alquanto suggestiva. Davanti a tali affermazioni, Benedict non poté fare a meno di alzare un sopracciglio e fissarlo in un muto scetticismo. Forse è per gli zigomi, si disse fra sé e sé. In fin dei conti, non era una conversazione eccessivamente impegnativa e bisognosa di attenzioni. Il soggetto di quell’interminabile scontro fra opinioni del tutto divergenti presto si trovò con ben poco da dire, piuttosto poté solo sperare con tutto sé stesso che Gatiss si sbagliasse, a proposito della sua riuscita come antagonista.

Del tutto differente si auspicava il dibattito fra Martin e Moffat, appartati in una zona del locale libera da qualsiasi tipo di disturbo, a meno che non vi si fosse diretti specificatamente per richiamare l’attenzione di uno di loro. Indubbiamente stavano parlando di qualcosa di molto importante e segreto, non notarlo sarebbe stato impossibile a chiunque. Ma di cosa si trattava? Lui e Martin erano migliori amici, si raccontavano qualsiasi cosa e non esisteva fatto che potessero anche solo pensare di tener segreto l’uno dall’altro. Sapevano cose di cui nessun’altro era a conoscenza a parte loro; eppure, in quel momento, Benedict si sentì totalmente escluso dalle confidenze dell’amico. Gli era difficile metabolizzare il pensiero che, probabilmente, ciò che Martin stava raccontando a Moffat gli sarebbe sempre rimasto incognito. Inoltre, da quando quei due erano diventati così intimi? A giudicare dalla loro vicinanza e dal modo in cui Steven lo guardava, ossia con fin troppo affetto, Benedict poté soltanto azzardare un tempo piuttosto lungo e indefinito.

Ciò che gli si presentava davanti agli occhi non gli piaceva. Lo infastidiva oltremodo e, peggio ancora, non vi era nessun motivo plausibile per il quale si potesse dare una vera a propria ragione di quello che stava provando. Martin era un uomo più che adulto, aveva tutto il diritto di parlare dei fatti propri con chiunque lo aggradasse, non era certo la loro amicizia, per quanto profonda che fosse, a impedirglielo. Eppure... Benedict sapeva bene che ciò non era altro che un vano tentativo di consolarsi e distogliere i propri pensieri dal problema centrale. Presto avrebbe nuovamente affogato sé stesso nel dubbio, era questione di tempo prima che la sua vocina interiore gli ricordasse quale era la parola che gli sussurrava ogni qual volta che Martin parlava con un’altra persona per più di 5 minuti. Geloso.

No. Continuava a opporsi il finto moro, togliendo mentalmente il volume a quella fastidiosa voce che gli rimbombava nelle orecchie. Il fatto che sì, Cumberbatch stesse combattendo da tempo con la voce della propria coscienza, rendeva la sua situazione ancora più grottesca e disperata. Essa era sempre accolta a braccia aperte, quando c’era da fare un complimento su uno qualsiasi dei tanti pregi dell’altro attore, ma non appena si azzardava a notare che forse, magari, il vago sentore di incertezza e senso di abbandono che lo colpiva periodicamente quando pensava a lui potesse trattarsi di mera gelosia, tutte le porte le venivano chiuse e i pensieri di Benedict si spostavano su un insensato quanto assordante blablabla.

Benedict ci mise una frazione decimale di secondo, per rendersi conto di aver bisogno di stare da solo. Non poteva permettersi di arrivare a una qualunque realizzazione quando si trovava in un luogo così affollato. Si conosceva abbastanza bene da sapere che, con grossa probabilità, la risposta a tutte le sue domande poteva essere imbarazzante. Abbastanza imbarazzante da farlo arrossire di punto in bianco, facendo virare la tonalità della sua pelle da bianco pallido a rosso malva, in perfetta tinta con le scarpe che indossava. La sua unica via di sopravvivenza sarebbe potuta essere qualche battuta sconclusionata sul – poco - alcol che aveva bevuto, seguita da una risata quasi isterica e una ritirata in gran stile. Assai poco desideroso di esibirsi nei primi due passaggi, Ben valutò che la migliore delle soluzioni disponibili fosse lasciare direttamente quel locale a gambe levate e rifugiarsi nella camera di hotel come se avesse avuto il diavolo alle calcagna. Avvertire l’altro attore della sua dipartita era fuori discussione: avrebbe preferito andarsene in giro con una cresta tinta di verde, piuttosto che avvicinarsi a quel tavolo e interrompere l’amorevole conversazione che i due uomini stavano tenendo.

«Ehi Ben, sei ancora fra noi? » Rupert interruppe il flusso dei suoi pensieri come se avesse chiuso una valvola.

Benedict si voltò verso l’uomo sbattendo ripetutamente le ciglia. Era la perfetta immagine dell’uomo confuso e disorientato per l’essersi riscosso improvvisamente dalla fase di sonno più profondo. «Io, uhm... » Tentò di formulare una risposta decente, ma la tempestività non era mai stata il suo forte, quando non aveva un copione da ricordare. Di certo non poteva permettere che gli altri scoprissero quale fosse il centro attorno al quale ruotavano suoi pensieri. Avrebbero senza dubbio frainteso. 

«Sarà innamorato, Rupert. Può capitare di trovarsi fra le stelle per tali nobili motivi. » Azzardò l’altro uomo con un cenno di intesa.

No. Per riuscire a mantenere regolari la respirazione e il colore delle guance, Benedict compì uno sforzo sovrumano. «Scusatemi, » tossì, sperando di avere un tono di voce il più neutro possibile. «Deve essere la confusione... mi è venuto un gran mal di testa. » Si giustificò sbrigativo, ma più che credibile. Se non altro la sua reputazione di bravo attore poteva dirsi intatta.

«Oh... » Fu l’unico commento di Gatiss, il sorriso complice che sfoggiava fino a un attimo prima, sparito dal suo volto. «Mi dispiace Ben. Forse dovresti andare a riposarti come si deve. »

Non se lo fece ripetere due volte. In un attimo, Cumberbatch salutò i due amici e si diresse verso l’uscita, dove stava l’armadio adibito a tenere al sicuro i cappotti degli avventori del locale. Stranamente, quando lo raggiunse, non vi trovò nessuno a occuparsene: qualunque malintenzionato poteva entrare e rubare il primo cappotto che voleva. O lasciare il proprio bicchiere mezzo pieno di roba blu sul bancone. Notò l’attore, storcendo il naso. Superò l’ostacolo aggirandolo e cercò la propria giacca, che doveva trovarsi là in mezzo alle altre decine, se non centinaia di crucce occupate.

Come se qualcuno con la peculiare capacità di leggergli la mente gli avesse voluto fare un qualche scherzo di pessimo gusto, scoprì che l’indumento di Moffat era stato posto proprio davanti al suo. Successivamente, Benedict non avrebbe saputo o compreso le esatte motivazioni che lo spinsero a compiere l’azione che tale scoperta seguì. Sta di fatto che, in un impeto istintivo, afferrò il bicchiere abbandonato sul ripiano tirato a lucido e, ponendo speciale attenzione nell’aprire la tasca della giacca dell’altro uomo, lo inclinò affinché il liquido dall’aspetto altamente alcolico scorresse nella fessura fra la stoffa interna e quella esterna dell’indumento nel modo più pulito possibile. Non voleva che qualsiasi altro cliente di quel posto ci rimettesse a causa della sua gelosia.

No. Si ripeté il rosso. Scosse la testa con vigore, quasi come se in questo modo potesse scacciare l’impulso che lo aveva colto all’improvviso. Si vestì velocemente e, senza guardarsi indietro, uscì sulla strada. Nell’attesa che un taxi si fermasse per prenderlo a bordo, un senso di colpa gli si fece subdolamente largo nella mente.

 

***

 

Cosa gli era preso? Benedict non riusciva a darsi risposta, o pace. Compiere azioni simili non era nel suo carattere, lui non era così. Svuotare un drink sugli abiti altrui lo trovava un gesto oltremodo infantile. No. Si ripeté per l’ennesima volta, ancor prima di udire cosa il suo cervello avesse intenzione di suggerirgli. Stava diventando terribilmente prevedibile. Oppure no, tutto sommato, dopo ciò che aveva fatto prima di uscire da quel locale sin troppo affollato, non poteva affermare con estrema certezza che la sua mente fosse prevedibile.

Geloso.

No.

Ecco, magari aveva semplicemente un vocabolario un tantino ridotto, oltre a essere insistente e testardo fino a livelli insopportabili.

Ben si gettò sul letto a braccia spalancate, come un bambino desideroso di fare un angelo nella neve. Fissò il soffitto facendo attenzione ad ogni imperfezione che presentasse. La luce della lampada a incandescenza lo rendeva più giallognolo di quanto non fosse il vero colore della tinta. Era un colore caldo, potenzialmente capace di scaldare almeno in minima parte il cuore di una persona, ma, nonostante ciò, niente poteva contribuire a farlo apparire meno vuoto. Vuoto era esattamente il termine con il quale l’attore avrebbe potuto esprimere il suo stato d’animo. La parte più complicata stava nell’accettare il dato di fatto e, soprattutto, il motivo scatenante. Forse non avrebbe dovuto continuare a dirsi “no” senza nemmeno lasciarsi una possibilità di riflettere.

No. Insisté cocciutamente. Gelosia? Perché mai avrebbe dovuto sentirsi geloso del suo migliore amico? Non ne aveva alcun motivo, Martin poteva fare tutto ciò che volesse con chi più lo aggradasse. Lui e Moffat stavano solo conversando, ciò non significava di certo un coinvolgimento sentimentale: mica andavano a letto insieme.

Perché Martin non andrebbe mai a letto con Steven, no?

No.

No, a Benedict non importava, non doveva importagli minimamente. Non erano affari suoi.

Si che lo sono.

No.

Ma se non erano affari che lo riguardassero, allora perché pensare a quei due in situazioni equivoche gli faceva accapponare la pelle? Il suo non era sicuramente un segno di omofobia, Cumberbatch poteva orgogliosamente dirsi tutto il contrario di omofobo. Infatti, se avesse osato immaginare Freeman in altri contesti...

No.

Magari in quel letto con lui, completamente nudo...

No.

In fin dei conti, non poteva negare al suo stesso cervello di essersi chiesto, almeno una volta, come sarebbe stato sentire l’amico duro dentro di sé. Sentirlo muoversi con vigore, avanti e indietro, dentro e fuori, prima penetrandolo con dolcezza e poi via via sempre più violentemente, fino a raggiungere la completezza e...

«No, no, no e poi no! » Benedict non si rese conto di aver urlato anche con la voce, come non si rese conto di avere un’improvvisa e fastidiosa erezione che gli premeva nei pantaloni, vogliosa di attenzioni particolari. Spostò le dita ad accarezzare l’ormai evidente gonfiore, sperando che la propria mano potesse essere sostituita da quella di Martin. Fra il capire di aver perso la battaglia contro sé stesso e l’ammetterlo liberamente vi era un abisso. Un abisso che, per quanto profondo e incolmabile, si poteva aggirare con il sottile ponte della consapevolezza che resistere era ormai inutile. Con una smorfia di dolore, l’attore ritrasse la mano e la chiuse in un pugno talmente stretto da sbiancare le nocche ancor più di quanto già non lo fossero.

Qualche ora più tardi, al suo rientro, Freeman lo trovò in quell’esatta posizione, addormentato da un pezzo. Era ancora vestito di tutto punto e per un attimo il biondo valutò l’idea di svegliarlo, ritirando l’idea all’istante. Non si sarebbe mai e poi mai perdonato, se avesse interrotto la quiete che distendeva dolcemente quei lineamenti così affilati da risultare quasi taglienti come una lama. La più forte, al momento, era la tentazione di allungare una mano a sfiorarli, saggiando in prima persona la possibilità di tagliarsi. Un giorno l’avrebbe fatto, se lo era promesso poco prima di dare la buonanotte a Steven. Per il momento si sarebbe soltanto limitato a afferrare una coperta di scorta della quale ogni camera dell’albergo disponeva, e coprirvi il corpo di Benedict lasciando libero soltanto il capo.

   
 
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