Ero
ansiosa. Avevo dormito male, avevo fame, eppure il mio stomaco era
chiuso.
Volevo sapere quanto lo Spettro avesse estorto da Gal,
volevo sapere se avesse capito chi o cosa era intervenuto su di
me.
Scattai in direzione della porta non appena riconobbi i passi
di Durza per le scale e attesi che aprisse la porta con la chiave e
con la magia.
Le occhiaie che solcavano il suo viso pallido mi
informarono che non ero l’unica ad aver passato una brutta
nottata.
Lo Spettro sembrava stranamente stanco e rassegnato.
Non pensavo
che l’avrei mai visto ridotto così male.
«Ebbene?» chiesi,
impaziente.
«Gal è morto» disse Durza chiudendosi la
porta alle
spalle e picchiettandola leggermente con le nocche affinché
i
soldati fuori girassero la chiave. «Era uno dei Varden e
stava
portando un messaggio. Sono entrato nella sua mente e ho trovato
diverse cose interessanti, ma lui ha resistito bene. Si è
morso la
lingua ed è affogato nel suo sangue pur di impedirmi di
accedere
ulteriormente alle sue memorie».
Un’ondata di orgoglio per
quell’eroe mi investì, seguita a ruota da una di
panico e
sofferenza.
«So che Brom è a Carvahall» disse Durza.
«Immagino
che tu conosca Brom».
Respirai profondamente, ma tacqui. Ovvio
che lo sapevo, avevo mandato l’uovo proprio a lui. Ma lo
Spettro
aveva fatto quel collegamento?
«Avrei voluto andare
personalmente a controllare la situazione laggiù»
continuò, «ma
non posso».
«E cosa ti trattiene?» domandai aspramente.
L’unica
cosa importante che stava facendo era torturare me, o almeno
così
credevo.
Durza compì i pochi passi che lo separavano dal mio
letto e si sedette.
«Tra qualche ora parto».
Ah. Era l’ultima
cosa che mi aspettavo.
«E dove..?»
«Non ti interessa
veramente dove andrò» commentò
sarcasticamente, fissando un punto
indefinito all’altezza dei suoi piedi. «Sappi che
rivedrai la mia
brutta faccia tra una settimana. Forse».
Non ero pronta al panico
che mi assalì. «E mi lascerai qui da sola? Con
forze misteriose che
agiscono intorno a me? Non hai paura che qualcuno mi faccia fuggire,
o che mi uccida?»
I suoi occhi cremisi si spostarono su di me.
«Forse».
Mi imposi di assumere un minimo di indifferenza, ma non
ci riuscii. Certo, avere Durza lontano significava non essere
torturata per un’intera settimana! Era una prospettiva
positiva, ma
in verità avevo paura. Gli ultimi avvenimenti erano rimasti
inspiegati. Se Durza fosse andato via sarei rimasta totalmente
abbandonata a quel delirio.
Era assurdo. Avevo desiderato così
tanto che sparisse, che la terra lo inghiottisse, che un fulmine lo
colpisse..
«Se ti andrà veramente bene»
proseguì lentamente,
«potresti avere la fortuna di non rivedermi mai
più».
«Non
capisco» ammisi. «E non mandi nessuno a Carvahall?
Hai trovato
l’uovo altrove e stai andando a cercarlo? Cosa..?»
affondai le
mani tra i capelli, respirando affannosamente. Mi sembrava che tutti
gli eventi stessero precipitando.
Durza mi fissò con interesse.
«Non mi dirai che stai avendo un attacco di panico,
Elfa».
«N-non
respiro» boccheggiai e tremai, stringendomi le mani alla
gola.
L’aria non riusciva a riempirmi i polmoni. Mi piegai sulle
ginocchia e mi imposi di ispirare lentamente, ma non ci riuscivo,
più
cercavo di calmarmi più sembrava aumentare la mia
agitazione. Lo
Spettro disse qualcosa, ma la sua voce svanì nel rombo che
mi
riempiva le orecchie. Dovevo respirare. Lentamente, lentamente..
Funzionò. Mi asciugai il sudore dalla fronte e mi alzai con
cautela.
Quando tornai a guardare Durza non sapevo più cosa dire
o fare.
Anche lui era a corto di parole, però sembrava sapere
esattamente cosa fare.
Ero in piedi esattamente davanti a lui. Una
mano pallida si allungò nella mia direzione e mi
afferrò con
decisione per il colletto della camicia.
Durza mi tirò a sé
-dovetti appoggiarmi con le mani sulle sue ginocchia per non cadergli
addosso- e mi depositò un brusco e frettoloso bacio sulle
labbra,
lasciandomi poi andare immediatamente.
L’intera azione non era
durata più di una frazione di secondo, tanto che dubitai che
fosse
accaduto veramente. E non ebbi modo di protestare, perché lo
Spettro
si era già alzato.
Mi passò accanto. «Addio Elfa».
Fui io
ad occupare il letto a quel punto. Mi sfiorai le labbra. Non poteva
avermi veramente baciata.
Doveva essere per forza la mia
immaginazione. Gli Spettri non baciavano! Gli Spettri odiavano e
basta.
O almeno, era quello che avevo sempre creduto prima di
incontrare Durza.
Prima di incontrare Durza ero sempre stata
convinta che gli Spettri non potessero avere sentimenti.
Ricordavo
che da bambina mi erano state narrate tutte le leggende della lunga
letteratura elfica. Si parlava spesso di creature oscure come demoni
-ormai estinti- e Spettri, erano le figure negative
all’interno
delle ballate, com’era ovvio. Erano quel tipo di creature che
si
distruggevano solo con l’eroica e combinata forza di almeno
una
decina di elfi.
Ma il mio popolo possedeva anche una cronaca
seria, scritta da Laetri l’elfo dopo aver sconfitto Nadua, lo
Spettro che infestava le terre di Alagaësia ai suoi tempi.
“Vidi
io stesso quell’essere fatto di ombre uccidere di suo pugno
uomini,
donne e bambini innocenti, che imploravano pietà. Seppi in
quell’istante che le creature prostrate dalla sete di sangue
degli
spiriti non possono che compiere del male. Lo Spettro non provava
alcun sentimento che non fosse odio verso il mondo intero e disprezzo
per la vita e la morte. Fu in quel momento che decisi che non avrei
permesso che simili sofferenze continuassero..”
Poi
c’era una lunga ed inutile parentesi su una profezia che
narrava di
qualcosa come una figlia dell’aurora che in periodo di
disperazione, avrebbe tirato fuori le razze di Alagaësia dalle
ombre
e dal dolore.
Ma non era importante.
A dire il vero nulla di
tutto quel mio pensare era importante.
Pensai ai baci delicati di
Fäolin.
La solita profonda tristezza mi assalì. La sua morte
sembrava risalire a qualche ora prima, tanto era nitido il ricordo
del suo corpo inerte.
Fortunatamente l’arrivo del pranzo mi
salvò dai miei pensieri cupi. Mi alzai dal letto non appena
sentii i
passi leggeri e mi accostai allo spioncino, sperando di vedere Alba.
E la vidi. Le torce facevano risplendere i capelli sfuggiti alla
morbida crocchia come oro liquido, sarebbe stata facilmente
riconoscibile anche da molto più lontano. La ragazza fece
scivolare
il pasto oltre la porta e mi rivolse un piccolo sorriso, accompagnato
da un’occhiata rammaricata.
Un soldato fece un’osservazione
volgare sul vestito azzurro troppo generosamente scollato e lei ne
rise, arrossendo. Poi se ne andò, guardandomi con
un’espressione
radiosa e soddisfatta.
Recuperai una parte del mio ottimismo.
Forse Alba avrebbe potuto tentare di farmi nuovamente uscire. E forse
ci sarebbe riuscita, senza Durza ad ostacolarla. Forse avrei potuto
tornare a casa mia, a rifare la mia vita.
Anche se dopo
un’esperienza del genere ero certa che nulla sarebbe rimasto
come
prima.
Il pasto mi parve ancora più insapore del solito, mentre
lo divoravo con ben poca dignità. Avevo fame.
E nonostante tutto
vomitai l’intero contenuto del mio stomaco pochi minuti
dopo.
Gettai un’occhiata sospettosa al bicchiere e al piatto di
legno ormai vuoti. Se qualcuno avesse messo qualche veleno me ne
sarei accorta immediatamente, conoscevo bene l’odore della
noce
vomica.
Che fosse qualche altra strana malattia?
Quella
sera non venne nessuno. E nemmeno la mattina dopo, nemmeno il
pomeriggio e nemmeno la sera. A parte Alba. Non riuscii mai a parlare
con lei, si limitava a portarmi il cibo, che ormai rigettavo
regolarmente, e non si imbucava nei sotterranei tra un cambio di
guardia ed un altro. Mi rassegnai tristemente, forse non aveva
più
alcuna intenzione di aiutarmi, forse Durza l’aveva
minacciata. Cosa
poteva fare una povera umana contro uno Spettro?
Dopo quelli che
dovevano essere tre giorni dalla partenza di Durza un uomo si
affacciò allo spioncino.
Impiegai un paio di minuti prima di
capire chi fosse. Era Hillr, il siniscalco di Durza.
Sussurrò
alle guardie, forse credendo che non potessi sentirlo.
«Il
padrone vi ha lasciato qualche disposizione?»
«Solo di non fare
entrare nessuno nella sua cella».
«Quindi non mi lascerete
entrare nemmeno se vi corrompessi, giusto?»
«Giusto. Amico,
quello viene sempre a sapere tutto. Chi ci assicura che se noi ti
lasciamo fare quello che vuoi poi non ci ammazza con una
stregoneria?»
«Legittima obiezione».
Hillr restò a
guardarmi ancora per qualche istante, con un astio e un rigetto che
non avevo mai visto nel volto di un essere umano.
«Quelli come te
impestano questo mondo» sibilò sputando oltre la
porta.
Dal mio
letto, aderente alla parete opposta, gli rivolsi un sorriso
volutamente gelido.
Il suo viso si contrasse per la rabbia. Quando
se ne andò fui certa di essermi creata un altro accanito
nemico. E
senza alcun motivo logico apparente.
Dopo cinque giorni stavo
morendo di fame. Il mio stomaco non era più riuscito a
trattenere
nulla. Non mi sembrava che ci fosse alcun veleno nel cibo, ma allora
perché? I primi giorni passeggiai nervosamente per la mia
cella,
frustrata e furiosa per la mia sorte. Poi caddi in uno stato di cupo
deperimento.
Ero completamente sola, in balia di chissà chi che
mi stava riducendo alla fame.
Durza era lontano e chissà se e
quando sarebbe tornato, Alba mi ignorava.
Caddi nuovamente in
preda a brevi deliri.
Una notte mi svegliai di soprassalto,
sentendo qualcosa di sbagliato intorno a me.
Guardai verso la
porta, temendo che Hillr fosse venuto a tentare di assassinarmi nel
sonno.
Il respiro mi si strozzò in gola.
L’occhio bianco era
lì.
Immobile.
Pareva brillare nel buio.
Fui incapace di
riprendere a respirare.
Cercai di imporre un po’ di razionalità
sopra il mio terrore. Mi sembrava di avere stabilito che fosse solo
un’illusione. Sì, solo un’illusione
della mia mente
malata.
Doveva essere un’illusione.
Chiusi gli occhi,
ordinandomi di ignorarlo. A quel punto sentii una risata dal suono
stridente come metallo contro le unghie, che mi fece accapponare la
pelle dal gelo, seppure fossi sotto le coperte imbottite.
L’odore
di noce vomica mi aggredì le narici ed ebbi in un istante
l’acuta
e totale sicurezza che quell’occhio fosse la causa di ogni
mio
male.
Urlai. E fui costretta a smettere quando sentii le
imprecazioni sonore degli armigeri fuori dalla porta. Tornai a
guardare lo spioncino. L’occhio affacciato era il comunissimo
occhio castano di un essere umano.
Mi tappai con forza le orecchie
per non dover sentire le parole canzonatorie dei soldati, ma i suoni
filtravano sin troppo bene oltre i miei palmi. Qualcuno di loro mi
chiamò “Elfetta”, segno che il segreto
sulla mia identità non
era poi così controllato come credeva Durza.
Rimasi a fissare il
soffitto con gli occhi spalancati, per quelli che mi parvero mesi ed
anni, ignorando il cibo che scivolava sotto la mia porta.
L’odore
della noce vomica sembrava essersi insinuato in ogni pollice delle
mie membra, continuavo a sentirlo sempre e anche solo l’odore
di
generi alimentarmi mi dava la nausea.
Mi distolsi dal mio stato
quando, sotto il respiro regolare degli uomini di guardia e il loro
chiacchiericcio, percepii il fruscio di qualcosa che scivolava sotto
l’uscio.
Gettai un’occhiata intorno a me. Per terra, accanto
al mio letto, c’era un pezzetto di carta, ripiegato
più e più
volte su se stesso. Allungai faticosamente un braccio, lo raccolsi e
lo aprii.
“Morirai”.
Lo
accartocciai nel palmo. Probabilmente si era trattato di un semplice
scherzetto degli uomini lì fuori. Poi capii che sicuramente
la metà
di loro non sapeva né leggere né scrivere.
Mi morsi le labbra e
serrai la carta nel pugno. Non volevo piangere.
La mattina
seguente il pezzo di carta era scomparso e non lo trovai, nonostante
le accurate ricerche nella mia angusta cella.