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Autore: _Lalli    06/06/2013    4 recensioni
Arya Dröttningu, ambasciatrice degli elfi, protegge l'unico uovo di drago in possesso alla resistenza; Durza lo Spettro attende da anni l'occasione di impossessarsene e finalmente pare esserci riuscito, ma l'elfa riesce a rovinare miseramente i suoi piani. Allo Spettro non rimane che un'unica soluzione: torturare la sua prigioniera senza pietà, fino a che non confessi il luogo in cui l'uovo è stato trasportato.
Ma se, durante la prigionia, qualcosa di inaspettato fosse accaduto ad Arya? Qualcosa di cui nessuno, a parte lei e Durza, è a conoscenza?
Costretta ad un viaggio avventato e ad un'improbabile alleanza, Arya scoprirà lati insospettabili del suo nemico e si lancerà in una ricerca che getterà i semi del suo destino. Coinvolta in segreti incredibili, finirà per svelare alcuni dei molti misteri che ancora oscurano la bellissima terra di Alagaësia.
Genere: Azione, Fantasy, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Crack Pairing | Personaggi: Altri, Arya, Durza
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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10. Gli spettri non baciano!

Ero ansiosa. Avevo dormito male, avevo fame, eppure il mio stomaco era chiuso.
Volevo sapere quanto lo Spettro avesse estorto da Gal, volevo sapere se avesse capito chi o cosa era intervenuto su di me.
Scattai in direzione della porta non appena riconobbi i passi di Durza per le scale e attesi che aprisse la porta con la chiave e con la magia.
Le occhiaie che solcavano il suo viso pallido mi informarono che non ero l’unica ad aver passato una brutta nottata. Lo Spettro sembrava stranamente stanco e rassegnato.
Non pensavo che l’avrei mai visto ridotto così male.
«Ebbene?» chiesi, impaziente.
«Gal è morto» disse Durza chiudendosi la porta alle spalle e picchiettandola leggermente con le nocche affinché i soldati fuori girassero la chiave. «Era uno dei Varden e stava portando un messaggio. Sono entrato nella sua mente e ho trovato diverse cose interessanti, ma lui ha resistito bene. Si è morso la lingua ed è affogato nel suo sangue pur di impedirmi di accedere ulteriormente alle sue memorie».
Un’ondata di orgoglio per quell’eroe mi investì, seguita a ruota da una di panico e sofferenza.
«So che Brom è a Carvahall» disse Durza. «Immagino che tu conosca Brom».
Respirai profondamente, ma tacqui. Ovvio che lo sapevo, avevo mandato l’uovo proprio a lui. Ma lo Spettro aveva fatto quel collegamento?
«Avrei voluto andare personalmente a controllare la situazione laggiù» continuò, «ma non posso».
«E cosa ti trattiene?» domandai aspramente. L’unica cosa importante che stava facendo era torturare me, o almeno così credevo.
Durza compì i pochi passi che lo separavano dal mio letto e si sedette.
«Tra qualche ora parto».
Ah. Era l’ultima cosa che mi aspettavo.
«E dove..?»
«Non ti interessa veramente dove andrò» commentò sarcasticamente, fissando un punto indefinito all’altezza dei suoi piedi. «Sappi che rivedrai la mia brutta faccia tra una settimana. Forse».
Non ero pronta al panico che mi assalì. «E mi lascerai qui da sola? Con forze misteriose che agiscono intorno a me? Non hai paura che qualcuno mi faccia fuggire, o che mi uccida?»
I suoi occhi cremisi si spostarono su di me. «Forse».
Mi imposi di assumere un minimo di indifferenza, ma non ci riuscii. Certo, avere Durza lontano significava non essere torturata per un’intera settimana! Era una prospettiva positiva, ma in verità avevo paura. Gli ultimi avvenimenti erano rimasti inspiegati. Se Durza fosse andato via sarei rimasta totalmente abbandonata a quel delirio.
Era assurdo. Avevo desiderato così tanto che sparisse, che la terra lo inghiottisse, che un fulmine lo colpisse..
«Se ti andrà veramente bene» proseguì lentamente, «potresti avere la fortuna di non rivedermi mai più».
«Non capisco» ammisi. «E non mandi nessuno a Carvahall? Hai trovato l’uovo altrove e stai andando a cercarlo? Cosa..?» affondai le mani tra i capelli, respirando affannosamente. Mi sembrava che tutti gli eventi stessero precipitando.
Durza mi fissò con interesse. «Non mi dirai che stai avendo un attacco di panico, Elfa».
«N-non respiro» boccheggiai e tremai, stringendomi le mani alla gola.
L’aria non riusciva a riempirmi i polmoni. Mi piegai sulle ginocchia e mi imposi di ispirare lentamente, ma non ci riuscivo, più cercavo di calmarmi più sembrava aumentare la mia agitazione. Lo Spettro disse qualcosa, ma la sua voce svanì nel rombo che mi riempiva le orecchie. Dovevo respirare. Lentamente, lentamente.. Funzionò. Mi asciugai il sudore dalla fronte e mi alzai con cautela.
Quando tornai a guardare Durza non sapevo più cosa dire o fare.
Anche lui era a corto di parole, però sembrava sapere esattamente cosa fare.
Ero in piedi esattamente davanti a lui. Una mano pallida si allungò nella mia direzione e mi afferrò con decisione per il colletto della camicia.
Durza mi tirò a sé -dovetti appoggiarmi con le mani sulle sue ginocchia per non cadergli addosso- e mi depositò un brusco e frettoloso bacio sulle labbra, lasciandomi poi andare immediatamente.
L’intera azione non era durata più di una frazione di secondo, tanto che dubitai che fosse accaduto veramente. E non ebbi modo di protestare, perché lo Spettro si era già alzato.
Mi passò accanto. «Addio Elfa».
Fui io ad occupare il letto a quel punto. Mi sfiorai le labbra. Non poteva avermi veramente baciata.
Doveva essere per forza la mia immaginazione. Gli Spettri non baciavano! Gli Spettri odiavano e basta.
O almeno, era quello che avevo sempre creduto prima di incontrare Durza.
Prima di incontrare Durza ero sempre stata convinta che gli Spettri non potessero avere sentimenti.
Ricordavo che da bambina mi erano state narrate tutte le leggende della lunga letteratura elfica. Si parlava spesso di creature oscure come demoni -ormai estinti- e Spettri, erano le figure negative all’interno delle ballate, com’era ovvio. Erano quel tipo di creature che si distruggevano solo con l’eroica e combinata forza di almeno una decina di elfi.
Ma il mio popolo possedeva anche una cronaca seria, scritta da Laetri l’elfo dopo aver sconfitto Nadua, lo Spettro che infestava le terre di Alagaësia ai suoi tempi.
“Vidi io stesso quell’essere fatto di ombre uccidere di suo pugno uomini, donne e bambini innocenti, che imploravano pietà. Seppi in quell’istante che le creature prostrate dalla sete di sangue degli spiriti non possono che compiere del male. Lo Spettro non provava alcun sentimento che non fosse odio verso il mondo intero e disprezzo per la vita e la morte. Fu in quel momento che decisi che non avrei permesso che simili sofferenze continuassero..”
Poi c’era una lunga ed inutile parentesi su una profezia che narrava di qualcosa come una figlia dell’aurora che in periodo di disperazione, avrebbe tirato fuori le razze di Alagaësia dalle ombre e dal dolore.
Ma non era importante.
A dire il vero nulla di tutto quel mio pensare era importante.
Pensai ai baci delicati di Fäolin.
La solita profonda tristezza mi assalì. La sua morte sembrava risalire a qualche ora prima, tanto era nitido il ricordo del suo corpo inerte.
Fortunatamente l’arrivo del pranzo mi salvò dai miei pensieri cupi. Mi alzai dal letto non appena sentii i passi leggeri e mi accostai allo spioncino, sperando di vedere Alba. E la vidi. Le torce facevano risplendere i capelli sfuggiti alla morbida crocchia come oro liquido, sarebbe stata facilmente riconoscibile anche da molto più lontano. La ragazza fece scivolare il pasto oltre la porta e mi rivolse un piccolo sorriso, accompagnato da un’occhiata rammaricata.
Un soldato fece un’osservazione volgare sul vestito azzurro troppo generosamente scollato e lei ne rise, arrossendo. Poi se ne andò, guardandomi con un’espressione radiosa e soddisfatta.
Recuperai una parte del mio ottimismo. Forse Alba avrebbe potuto tentare di farmi nuovamente uscire. E forse ci sarebbe riuscita, senza Durza ad ostacolarla. Forse avrei potuto tornare a casa mia, a rifare la mia vita.
Anche se dopo un’esperienza del genere ero certa che nulla sarebbe rimasto come prima.
Il pasto mi parve ancora più insapore del solito, mentre lo divoravo con ben poca dignità. Avevo fame.
E nonostante tutto vomitai l’intero contenuto del mio stomaco pochi minuti dopo.
Gettai un’occhiata sospettosa al bicchiere e al piatto di legno ormai vuoti. Se qualcuno avesse messo qualche veleno me ne sarei accorta immediatamente, conoscevo bene l’odore della noce vomica.
Che fosse qualche altra strana malattia?

Quella sera non venne nessuno. E nemmeno la mattina dopo, nemmeno il pomeriggio e nemmeno la sera. A parte Alba. Non riuscii mai a parlare con lei, si limitava a portarmi il cibo, che ormai rigettavo regolarmente, e non si imbucava nei sotterranei tra un cambio di guardia ed un altro. Mi rassegnai tristemente, forse non aveva più alcuna intenzione di aiutarmi, forse Durza l’aveva minacciata. Cosa poteva fare una povera umana contro uno Spettro?
Dopo quelli che dovevano essere tre giorni dalla partenza di Durza un uomo si affacciò allo spioncino.
Impiegai un paio di minuti prima di capire chi fosse. Era Hillr, il siniscalco di Durza.
Sussurrò alle guardie, forse credendo che non potessi sentirlo.
«Il padrone vi ha lasciato qualche disposizione?»
«Solo di non fare entrare nessuno nella sua cella».
«Quindi non mi lascerete entrare nemmeno se vi corrompessi, giusto?»
«Giusto. Amico, quello viene sempre a sapere tutto. Chi ci assicura che se noi ti lasciamo fare quello che vuoi poi non ci ammazza con una stregoneria?»
«Legittima obiezione».
Hillr restò a guardarmi ancora per qualche istante, con un astio e un rigetto che non avevo mai visto nel volto di un essere umano.
«Quelli come te impestano questo mondo» sibilò sputando oltre la porta.
Dal mio letto, aderente alla parete opposta, gli rivolsi un sorriso volutamente gelido.
Il suo viso si contrasse per la rabbia. Quando se ne andò fui certa di essermi creata un altro accanito nemico. E senza alcun motivo logico apparente.
Dopo cinque giorni stavo morendo di fame. Il mio stomaco non era più riuscito a trattenere nulla. Non mi sembrava che ci fosse alcun veleno nel cibo, ma allora perché? I primi giorni passeggiai nervosamente per la mia cella, frustrata e furiosa per la mia sorte. Poi caddi in uno stato di cupo deperimento.
Ero completamente sola, in balia di chissà chi che mi stava riducendo alla fame.
Durza era lontano e chissà se e quando sarebbe tornato, Alba mi ignorava.
Caddi nuovamente in preda a brevi deliri.
Una notte mi svegliai di soprassalto, sentendo qualcosa di sbagliato intorno a me.
Guardai verso la porta, temendo che Hillr fosse venuto a tentare di assassinarmi nel sonno.
Il respiro mi si strozzò in gola.
L’occhio bianco era lì.
Immobile.
Pareva brillare nel buio.
Fui incapace di riprendere a respirare.
Cercai di imporre un po’ di razionalità sopra il mio terrore. Mi sembrava di avere stabilito che fosse solo un’illusione. Sì, solo un’illusione della mia mente malata.
Doveva essere un’illusione.
Chiusi gli occhi, ordinandomi di ignorarlo. A quel punto sentii una risata dal suono stridente come metallo contro le unghie, che mi fece accapponare la pelle dal gelo, seppure fossi sotto le coperte imbottite.
L’odore di noce vomica mi aggredì le narici ed ebbi in un istante l’acuta e totale sicurezza che quell’occhio fosse la causa di ogni mio male.
Urlai. E fui costretta a smettere quando sentii le imprecazioni sonore degli armigeri fuori dalla porta. Tornai a guardare lo spioncino. L’occhio affacciato era il comunissimo occhio castano di un essere umano.
Mi tappai con forza le orecchie per non dover sentire le parole canzonatorie dei soldati, ma i suoni filtravano sin troppo bene oltre i miei palmi. Qualcuno di loro mi chiamò “Elfetta”, segno che il segreto sulla mia identità non era poi così controllato come credeva Durza.
Rimasi a fissare il soffitto con gli occhi spalancati, per quelli che mi parvero mesi ed anni, ignorando il cibo che scivolava sotto la mia porta. L’odore della noce vomica sembrava essersi insinuato in ogni pollice delle mie membra, continuavo a sentirlo sempre e anche solo l’odore di generi alimentarmi mi dava la nausea.
Mi distolsi dal mio stato quando, sotto il respiro regolare degli uomini di guardia e il loro chiacchiericcio, percepii il fruscio di qualcosa che scivolava sotto l’uscio.
Gettai un’occhiata intorno a me. Per terra, accanto al mio letto, c’era un pezzetto di carta, ripiegato più e più volte su se stesso. Allungai faticosamente un braccio, lo raccolsi e lo aprii.
“Morirai”.
Lo accartocciai nel palmo. Probabilmente si era trattato di un semplice scherzetto degli uomini lì fuori. Poi capii che sicuramente la metà di loro non sapeva né leggere né scrivere.
Mi morsi le labbra e serrai la carta nel pugno. Non volevo piangere.
La mattina seguente il pezzo di carta era scomparso e non lo trovai, nonostante le accurate ricerche nella mia angusta cella.

  
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