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Autore: mamogirl    07/06/2013    2 recensioni
Nick non aveva mai creduto che potesse giungere il giorno in cui Brian gli avesse voltato la schiena. Eppure, eccolo lì, la solitudine come unica compagna mentre le parole del ragazzo continuavano ad echeggiare nella sua mente. Sapeva, però, che non era un abbandono. No, Brian non l'avrebbe mai abbandonato nè si sarebbe mai arreso. Era lui, invece, quello che stava abbandonando la sicurezza di quel nido solo perchè gli era sembrata una responsabilità troppo grande per la sua giovane età.
Toccava a lui, ora, rimettere in ordine la sua vita e sperare in un perdono. Sperare di poter ritornare a casa.
La sua casa.
La loro casa.
Genere: Angst, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Brian Littrell, Kevin Richardson, Nick Carter
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Mpreg
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'For Once In My Life'
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*Prima Parte*

 

 








 Nobody said it was easy
It's such a shame for us to part
Nobody said it was easy
No one ever said it would be this hard
Oh take me back to the start

Coldplay, The Scientist

 

 

 

 

 

 

 

Freddo.
Fu quella la prima sensazione ad accoglierlo non appena incominciò a riprendere i sensi.
Bagnato.
La seconda arrivò quasi subito, quasi avesse paura di non poter essere presa in considerazione.
Era bagnato e ciò non faceva altro che aumentare i brividi di freddo, al punto da non riuscire a distinguere se effettivamente fosse l’aria della stanza ad essere gelida o se quella sensazione era solamente un’illusione creata dal suo corpo prima, e dalla sua mente poi.
Sbattè le palpebre una, due, tre volte, cercando di sciogliere via quel velo di nebbia che gli offuscava la vista. Ma esso, imperterrito, continuò a coprire i suoi occhi dandogli solamente un microscopico indizio sul luogo dove si trovava, anche se servì a poco.
Buio.
Lì, quel posto, ovunque si trovasse, era avvolto all’oscurità, un blu scuro che solo in un punto, lontano da lui, veniva spezzato via da un fascio di luce gialla e artificiale.
Dove si trovava?
Che cosa gli era successo?
Lentamente, dalla posizione supina, si alzò e si mise a sedere, appoggiando la schiena contro il muro. 
Cemento, freddo.
Il movimento mise in luce qualcosa che aveva cercato di ignorare per quei primi minuti di incoscienza: thum, thum, thum.
Il mal di testa esplose in tutta la sua potenza e intensità, facendo sfuggire un gemito di dolore dalle labbra, secche e graffiate. Sembrava quasi che un martello si fosse materializzato all’interno della sua testa e avesse incominciato a sbattere contro le tempie. Ogni vibrazione era una fitta e, come se fossero tante pedine di un unico domino, esse davano vita e vigore alla nausea, una fastidiosa montagna russa che aveva deciso di fare i suoi giri della morte in quello stretto canale fra lo stomaco e la gola.
Sbornia.
Ecco che cosa gli era successo. Almeno a una domanda poteva dare una risposta.
Un filo di lucidità incominciò a farsi strada in quella nebbia, illuminando a sprazzi ciò che lo circondava.
La sensazione di bagnato proveniva dalla maglietta che aveva indosso e l’odore non era di certo quello dell’acqua: l’aroma pungente di alcohol non fece altro che aumentare la nausea al punto che per un secondo temette di essere sul punto di star male. Oh, aveva un vago ricordo, piuttosto sfocato, di essersi rovesciato addosso una bottiglia di liquore, ecco spiegato il perché di quell’odore.
Inspirò a fondo, lasciando entrare quell’aria fredda dentro di sé. Espirò, buttando fuori parte di quel malessere e, insieme, se ne andò un altro frammento di nebbia, rischiarando un’altra parte di quella serata.
Oh.
Era nei guai.
Si portò le gambe contro il petto, appoggiando poi il mento sopra le ginocchia. Era uscito per bere qualcosa con qualche amico e, da lì, i bicchieri si erano trasformati in bottiglie, il locale era diventato una discoteca fino... fino... Scosse la testa perché proprio in quel punto il buio ritornava prepotentemente e si portava via i suoi ricordi.
Che altro era successo?
Freddo.
Faceva davvero freddo e alcuni brividi avevano iniziato a nascere, scuotendo con intensità la pelle e le ossa. Non poteva ammalarsi, fu questo il suo primo pensiero. No, non poteva proprio ammalarsi altrimenti chi l’avrebbe sentito Brian poi?
Brian.
Quella volta l’aveva combinata grossa, non c’erano dubbi.
Quella volta, probabilmente, il perdono non sarebbe arrivato così facilmente. Chi voleva scherzare? Ultimamente, faceva finta di averlo ricevuto quando, in realtà, sapeva che ogni incidente di quel tipo era una tacca che veniva segnata sull’anima.
Prima o poi avrebbe dovuto pagare quel conto.
In quei momenti, nel labile confine fra l’essere ancora intossicato da alcohol – e qualche volta ancora sotto gli effetti di qualche droga – e i primi stadi della sobrietà, incominciava a ripetersi che quella sarebbe stata l’ultima volta. Giuramenti, promesse e spergiuri venivano composti con la stessa facilità con quale riusciva a mettere insieme parole e note per creare una nuova melodia.
E stava succedendo anche in quel momento.
La sua mente già stava tirando fuori dal cassetto l’elenco delle bugie da utilizzare per poter spiegare e giustificare quello che era successo, anche se ancora non si ricordava dove si trovasse esattamente.
Brian.
Sì, la prima cosa da fare era chiamare Brian. Le dita della mano destra si spostarono verso la tasca dei pantaloni, dove era sicuro di aver infilato il telefonino dopo l’ennesima chiamata. Lo spegneva sempre ed era il senso di colpa a fargli premere il pulsante e silenziare così anche la sua coscienza che, come un grillo parlante, continuava a ripetergli che il suo posto non era fra locali, alcohol e flirt ma a casa.
Con la sua famiglia.
Con suo marito e suo figlio.
A quel ricordo, a quel grido di richiamo da parte della sua coscienza, la mano si stringeva sempre più forte attorno al bicchiere, facendo scivolare giù con un solo sorso il suo liquido ambrato. L’anello, la fede, veniva dimenticato insieme al telefono, a quel silenzio statico che avrebbe accolto ogni tentativo di chiamata da parte di Brian.
Doveva chiamarlo, anche se ancora non sapeva dove si trovava.
Frugò nella tasca ma le sue dita si ritrovarono con il nulla. Confuso, portò anche la mano sinistra nell’altra tasca, pensando di averle scambiate ma nemmeno in quella c’era traccia del suo telefono. Con il panico che incominciava a scalzare la confusione per avere il centro dell’attenzione, si alzò di scatto per cercare anche nelle tasche posteriori; per un secondo, il mondo iniziò a girare, minacciando pericolosamente di fargli incontrare direttamente il pavimento ma, in qualche modo, riuscì a tenere una sorta di equilibrio.
Qualcuno gli aveva preso il telefonino e, a giudicare dal vuoto di tutte e quattro le tasche, anche il portafoglio e le chiavi di casa.
Perfetto! Ubriaco, portato chissà dove e anche derubato.
No, quella volta Brian non gliel’avrebbe fatta passare liscia soprattutto perché ora, chiunque aveva in mano i suoi valori, avrebbe potuto entrare con facilità in casa. E se c’era una cosa che Brian aveva messo in prima posizione era la sicurezza per la loro famiglia. Si sarebbe preso a testate, se già non avesse avuto la sensazione che qualcuno avesse provato a farlo prima di lui.
Ora che si trovava in piedi, i suoi occhi riuscivano ad ambientarsi in quel luogo. Come prima cosa, la sua vista venne attratta dall’unica fonte di luce presente: in quella penombra, comprese in quale luogo si stesse trovando.
No, decisamente Brian non sarebbe stato contento quella volta.
La seconda? No, il numero delle volte in cui era finito in prigione era nettamente più grande. Due erano le uniche volte che vi era finito senza aver fatto nulla di male.
“La star si è svegliata!” Una voce profonda, dal tono cantileno, risuonò fra le sbarre.
Fantastico, si ritrovò a pensare. Non solo era finito arrestato un’altra volta ma era successo anche la sera in cui era di turno il suo agente preferito. E quel sentimento di simpatia, lo sapeva, era ricambiato anche dall’altra parte.
“Posso almeno avere una coperta? – Domandò. – Qui fa un po’ freddo.” Sapeva che la gentilezza non sarebbe servita a niente, vista la considerazione che sapeva di avere in quell’uomo, così l’unica carta che gli rimaneva per giocare era l’arroganza.
“Mi spiace, Carter. – Rispose l’agente, le mani appoggiate sulla cintura dei pantaloni. – Sono tutte da lavare.”
“Che fortuna! Posso almeno fare una telefonata?”
Il suono metallico annunciò che le sbarre erano state aperte e Nick si concentrò solamente a mettere un piede dietro l’altro, in modo da camminare in perfetto equilibrio senza cadere per terra. Nel frattempo, la sua mente cercava di trovare giustificazioni sufficienti da porre a Brian non appena questi gli avrebbe risposto.
Una parte di lui temeva che quella sarebbe stato l’ultimo strappo, una parte di lui quasi voleva che Brian gli sbattesse la porta in faccia in modo da avere una ragione più che valida e sufficiente per lasciarsi finalmente catturare da quel vortice di autodistruzione attorno al quale stava ruotando pericolosamente da tempo. Quella parte voleva che Brian si rendesse conto di ciò che essa aveva sempre pensato e creduto ma che era stata messa a tacere sotto carezze e baci: lui non era pronto per tutto quello, non era pronto per quei macigni di responsabilità che si era ritrovato a portare all’improvviso. Il matrimonio. Baylee. Ma dirlo... oh, dirlo sarebbe stato più facile, dirlo avrebbe messo in moto una catena che Nick sapeva sarebbe partita da Brian con anelli di comprensione e voglia di aiutarlo.
Ma lo meritava?
No, dannatamente no.
E, forse, era per quello che continuava su quella strada.
Ma, dall’altra, aveva bisogno di Brian. Aveva bisogno di lui come i suoi polmoni necessitavano di aria per respirare. Aveva bisogno di lui perché, anche solo immaginare di dover affrontare il mondo senza lui al suo fianco, senza i suoi consigli o quel suo modo di prendersi cura di tutti senza farlo pesare, sembrava figurarsi come la peggior condanna in quel mondo.
Così si ritrovava in quel limbo senza sapere come fare, se non dimenticare i suoi problemi fra alcohol e droga.
Le dita, quando presero in mano la cornetta, non tremavano per il freddo. Eppure, l’indice compose quel numero che aveva aiutato a scegliere quando avevano comprato quella che era diventata la loro casa.
Uno.
Due.
Tre.
Quattro.
L’ansia incominciò a farsi strada fra la sbornia, prendendo sempre più forza a ogni silenzio statico che seguiva lo squillo del telefono.
Cinque.
Sei.
No, no, no! Incominciò a pregare, scongiurare verso tutti i santi e gli dei che conosceva. Ti prego, rispondi.
Settimo.
Finalmente quel silenzio terminò.

 

 


** ** ** ** **

 

 


Senza far rumore, Brian chiuse la porta lasciando uno spiraglio appena aperto. Le dita stringevano fra di loro il baby monitor che, per ora, rimandava solamente le note del carillon che aveva lasciato accesa prima di uscire dalla camera. Baylee dormiva ma non sarebbe durato a lungo, considerato che quella era già la seconda volta che lui si era ritrovato a correre in camera e cercare di farlo riaddormentare.
No, non sarebbe durato a lungo.
Era come se anche lui percepisse la tensione nella casa e volesse prendere parte a quella strana veglia che suo padre sembrava costruire sera dopo sera, notte dopo notte. In quella casa, ormai, il tempo sembrava essere rimasto prigioniero da una qualche forma di incantesimo e loro due, Brian e Baylee, erano gli unici a subirne il prezzo.
Con passi lenti e stanchi, Brian scese le scale e si diresse in cucina. Non accese nemmeno la luce, vedere con chiarezza quanto quella casa fosse vuota si sarebbe rivelato solamente un’ennesima pugnalata. Appoggiò il baby monitor sul bancone della cucina e incominciò a preparare la caffettiera: con gesti automatici, la smontò, riempiendo la parte inferiore con l’acqua; poi passò a riempire il filtro con il caffè macinato e, una volta chiuso il tutto con la parte superiore, accese il fornello e mise la caffetteria sul fuoco. Dal lavandino, recuperò la tazza che aveva sciacquato non più di qualche ore prima e l’appoggiò vicino ai fornelli; le dita si posarono sul profilo del marmo, stringendosi attorno al bordo in una stretta così intensa da mandare segnali di sconforto e dolore ai nervi tesi delle braccia.
Ecco in che cosa si erano trasformate le sue notti.
Prima, in un passato che ora sembrava lontano anni luce, le notti venivano trascorse l’uno nelle braccia dell’altro, sussurrandosi parole di eccitamento per quella creatura che stavano per portare alla luce e creando immagini per la loro vita futura.
Ora, tutto era cambiato.
Prima e dopo Baylee, così Brian poteva dividere quell’ultimo anno. E i mesi dopo la sua nascita stavano diventando i più difficile che avesse mai vissuto. Oh, almeno Nick aveva avuto la decenza di aspettare che Bay avesse almeno compiuto sei mesi prima di inaugurare le sue serate libere.
All’inizio, doveva essere solo una a settimana.
Brian non aveva dovuto dargli il permesso, non avevano quel tipo di rapporto in cui avevano bisogno di chiedere all’altro qualcosa. Ma forse, con il senno di poi, avrebbe dovuto almeno dire qualcosa quando da una si era passati a due, tre, fino ad arrivare a tutta la settimana.
A lui spettavano quelle notti, fatte di ansia e paura fino a quando suo marito non tornava a casa, e rabbia covata dentro fino a quando si trasformava in un cancro, silenzioso, che lasciava poco spazio a tutto il resto.
A volte, in momenti come quelli, si domandava perché continuava a rimanere.
Perché continuava a sottoporre lui e suo figlio, loro figlio, a quell’atmosfera che tutto era tranne che salutare.
Ma al solo pensiero di andarsene, al solo pensiero di abbandonare Nick, il cuore si ribellava con forza sbattendo i suoi pugni contro lo sterno, quasi volesse ricordargli che se ancora batteva lo doveva solo ad una persona.
Prigioniero, ecco che cosa era. Prigioniero in quel limbo, indeciso se mettere come prima priorità suo figlio o il suo matrimonio. Qualcuno doveva vincere, era quella una regola che non cambiava mai per quanto differente il gioco potesse essere. Ma lui non riusciva a muoversi né in una direzione né in un’altra, impietrito da ciò che entrambe le decisioni avrebbero portato come conseguenze.
Perché doveva essere lui?
La caffettiera incominciò a fischiare, segno che l’acqua stava bollendo e, risalendo, si impregnava del caffè sprigionando l’aroma in tutta la stanza. Fu quello a risvegliare Brian da quella specie di congelamento in cui era caduto, anche se ormai si muoveva come solamente un automa faceva: gesti meccanici che non implicavano pensare o ragionare.
Togli la caffettiera, versa il caffè.
Aspetta.
La tazza scottava fra le sue mani ma quasi non se ne rendeva conto mentre si sedeva sulla sedia.
Aspetta.
Ecco quello che faceva ogni notte. Aspettava.
Aspettava che Baylee si addormentasse e aspettava il momento in cui avrebbe udito i primi vagiti che indicavano che si era svegliato. Due o tre ore, ecco quanto durava quella finestra di tempo.
Poi, tornava ad aspettare. Con l’ansia che iniziava a crescere, Brian aspettava. E più le ora passavano, più l’ansia si colorava di panico e terrore, puro e doloroso in quella forma che prendeva posto nel suo stomaco, tirando e tirando fino a quando sentiva il primo strappo.
Aspettava mentre il caffè si raffreddava fra le sue mani.
Aspettava mentre quel mostro con artigli ben affilati ricamava immagini tratte dai suoi peggiori incubi, creando scenari che fino ad allora aveva visto e osservato solamente in televisione. Perché Nick poteva essere ovunque, poteva essere con chiunque e chiunque avrebbe potuto approfittare di lui quando ormai alcohol e droga avevano offuscato la sua mente. Perché Nick poteva essere ovunque, ferito, bisognoso di cure e lui era bloccato lì, invece, in casa.
Nell’oscurità e all’oscuro di tutto.
Ecco perché rimaneva.
Con l’ansia e la paura. Con il panico e il terrore.
E con la rabbia.
Quest’ultima era sempre la più silenziosa. Se ne rimaneva in disparte, in un angolo solitario, e aspettava sempre il momento più prezioso per risalire in gola, acido che bruciava prima di ritornare nell’oscurità. Era quella la peggiore delle ferite che la rabbia poteva e sapeva calare: si ingrandiva, faceva sentire la sua voce fino a scuoterlo come una fragile e vulnerabile foglia in balia di un tornado per poi scomparire in un battito, lasciandolo completamente svuotato.
Come poteva arrabbiarsi quando Nick tornava a casa sano e salvo?
Perché alla fine era quello il motivo per cui rimaneva. Era quella la ragione per cui si rimangiava ogni rimbrotto, protesta o obiezione. Nick tornava e implorava il suo perdono, dispiaciuto come solo poteva esserlo quando si rendeva conto che cosa aveva fatto e quanto gli aveva fatto del male.
Promesse venivano fatte, giuramenti solenni che quella sarebbe stata l’ultima volta.
E, come in un ciclo che sembrava essere infinito, quelle parole venivano spezzate e cancellate via senza mai un’ombra di rimorso.
Perché rimaneva?
Perché Brian sapeva che, da qualche parte, c’era ancora il fantasma del ragazzo di cui si era innamorato, quel ragazzo che era stato capace di decifrare il suo umore dai suoi occhi e che gli aveva donato il suo cuore in un solo bacio.
Non poteva smettere di lottare per riaverlo indietro. Lo doveva a Nick. Lo doveva a Baylee.
Eppure, in un angolo buio della sua mente, una vocina incominciava ad alzarsi, domandandogli quando sarebbe finalmente arrivato il momento in cui qualcuno, Nick, avrebbe iniziato a lottare per lui. Per Baylee.
Perché sarebbe arrivato il momento in cui Brian non avrebbe più avuto nessuna forza per continuare. E qualcosa, sì, qualcosa in quella vita, in quella non esistenza, doveva cambiare.
Drin. Drin.
Il telefono, da qualche parte dietro di lui, incominciò a risuonare minacciosamente spezzando il silenzio.
Un’arma a doppio taglio, ecco che cos’era quel suono. Da un lato portava speranza perché poteva essere Nick a chiamare, a rassicurarlo che si era semplicemente dimenticato il cellulare e che ora stava tornando, solo che il traffico era allucinante e ci avrebbe impiegato qualche minuto in più del solito. Era quella la conversazione a cui Brian si aggrappava mentre si alzava ed andava a rispondere, pregando che quella potesse essere finalmente la volta in cui quelle parole si sarebbero palesate realmente.
Ma, nemmeno a metà strada, l’ansia e il panico scacciavano via quella speranza, deridendola mentre la facevano a pezzi e la lasciavano senza nessun supporto. Finalmente libere di essere le primedonne, esse portavano con loro quegli scenari che Brian aveva cercato, invano, di non prendere in considerazione: telefonate da parte di qualche sconosciuto che gli informava che Nick era in ospedale; poliziotti che invece volevano già porgli le condoglianze prima di informarlo dove si trovasse il suo corpo.
No, si ripetè Brian fermandosi per un secondo.
No, ripetè con ancora più forza, come se dicendolo ad alta voce nel silenzio potesse servire a qualcosa.
No, non era successo niente di così grave.
E fu con quello spirito che Brian prese in mano la cornetta, mettendo fine quindi a quel continuo trillo che avrebbe potuto svegliare l’unico dormiente nella casa.
“Pronto?”
“Bri? Bri? Sono io, Nick.”
Sollievo. L’ondata di conforto avvolse Brian come una calda coperta, sciogliendo via quei pezzi di ghiaccio in cui le sue vene si erano trasformate. Ma poi, quando quella sensazione scivolò via, la rabbia prese posto come l’onda di un’alta marea. La risposta era stata biascicata in quell’odore che Brian era arrivato ad odiare con tutto se stesso, quell’aroma che si era preso suo marito e non voleva lasciarlo tornare a casa.
Così Brian non rispose. Non voleva, non poteva parlare senza poter mettere freno alle grida che si stavano già ribellando delle catene che aveva stretto loro attorno.
“Bri, lo so. Sei arrabbiato. Ma... non volevo! Non so ancora che cosa sia successo!”
“Dove ti trovi?” Anche a se stesso, la sua voce sembrava non appartenergli. Fredda, impersonale, era come se qualcuno si fosse impossessato del suo corpo.
“Mi hanno arrestato.”
Un sospiro, fu tutto quello che uscì da Brian. Perché, in quel momento, ogni risolutezza di continuare a lottare era scomparsa via. A che cosa serviva se poi era sempre lui a rimettere a posto tutto? A che cosa serviva se tanto poi Nick non imparava e non rispettava la parola data?
Se tanto non sarebbe servito a nulla, perché lui doveva svegliare suo figlio, infilarlo in macchina e sperare che non si svegliasse mentre andava a recuperare suo padre?
“Ti prometto che è l’ultima volta, Bri. So che te lo dico sempre ma questa volta mi devi credere. Per favore... – La voce di Nick si spezzò in un singhiozzo e Brian poteva immaginarlo alla perfezione, con un braccio appoggiato sopra il telefono, la fronte appoggiata contro di esso e le dita dell’altra mano strette attorno alla cornetta. - ... Mi spiace, mi spiace... perdonami...”
L’anima, scacciata fuori da quel corpo, strepitava contro quel vetro freddo e di ghiaccio in cui era stata rinchiusa; si struggeva per quella voce che implorava il suo perdono e si univa a quelle suppliche, questa volta verso la distaccata mente che non ne voleva sapere di porre fine a quell’agonia. Già, era il freddo raziocinio ad aver preso in mano le redini di quella situazione, in una sorta di primitivo istinto di sopravvivenza e autodifesa: come un guerriero, infatti, il suo unico scopo era quello di porre fine a quella battaglia che si stava tirando per le lunghe, conscio che non ci sarebbe mai stata una vittoria.
Solo altro sangue e ferite che avrebbero richiesto tempo e tempo per poter solo incominciare a guarire.
“Nick. Io... io non ce la faccio più.”
Furono quelle le uniche parole che Brian riuscì a mormorare, in un incubo che si stava materializzando per entrambi.
“Che significa?” Domandò Nick con la paura che stringeva sempre di più il suo cuore in una stretta mortale.
“Questo. Non... non può più andare avanti.”
“Lo so, lo so. E’ l’ultima volta, te lo prometto.”
Brian scosse la testa, non rendendosi conto che Nick non avrebbe potuto vederlo. “Perché dovrei crederti?”
Quelle tre parole sembrarono scuotere Nick fuori da quella nebbia di alcohol in cui era rimasto fino a quel momento. “Hai ragione. Hai ragione a non credermi ma... ho bisogno di te, Brian. Non puoi lasciarmi ora.”
“No... non ti sto lasciando, Nick.”
“Ti amo, lo sai. Farò del mio meglio, questa è l’ultima volta che tocco una bottiglia.”
“Sono stanco, Nick.” Ma Brian non riuscì ad aggiungere nient’altro. Non disse che era stanco di quelle notti insonni, né di dover prendersi cura di tutti e tutto senza mai lamentarsi. Ma l’ultima, quell’essere stanco di quelle scuse, era implicita e arrivò dritta al cuore di Nick.
“B, che cosa vuoi che ti dica? Che sono un idiota? Che ho rovinato tutto? E’ questo che vuoi che ti dica? Più di prometterti che non succederà più, non so che altro dirti.”
“Niente, Nick. – Rispose Brian, sempre con quella voce atona che nemmeno riconosceva. – Non c’è più niente da dire.”
Il primo istinto, in Nick, era sempre quello di reagire con la rabbia. Era la sua maschera, il suo scudo e la sua protezione. E la indossò anche, soprattutto, in quel momento. Non sentì la richiesta implicita di Brian, non percepì quel sussurrato ti amo nascosto in quell’ammissione di arresa. Il suo cuore, quell’incalzante battere che si era impossessato del suo corpo, udiva solo quelle parole che preannunciavano una dipartita, un fine definitivo dei giochi e non poteva né voleva accettare di perdere tutto senza lottare.
“Ne possiamo almeno discutere? O hai già deciso di abbandonare la nave? - La voce si alzò di tono, perdendo in parte quello biascicamento causato dalla sbronza. – Sei uno stronzo. Ecco che cosa sei.  Il giuramento che abbiamo fatto vale così poco, per te? Un ostacolo e sei pronto già a lasciarmi?”
Le parole, cariche di rabbia e fendenti come lame, non riuscirono però a sortire effetti o reazioni in Brian perché sbatterono contro quella protezione di ghiaccio e scivolarono via, aspettando nell’oscurità il momento giusto per attaccare. Brian si era aspettato quella reazione, era l’abitudine che si era andata a consolidare notte dopo notte: gli insulti, le offese non sortivano più nessuna pugnalata all’anima. Non sul momento, almeno. Le conseguenze, Brian, le avrebbe provate solo quando tutto si sarebbe sciolto, quando la calma sembrava essere tornata regina in quella famiglia, scatenando rabbia e dolore dentro quel guerriero ormai affaticato dall’estenuante battaglia.
“Come posso lasciarti se tu l’hai già fatto prima di me?” Mormorò Brian solamente, in una voce così piccola ma così colma di sofferenza lasciata annerire e diventare più amara e acida con il passare del tempo.
Nick non udì. O, almeno, non volle udire. Il mormorio di Brian arrivò alle sue orecchie ma poi queste si persero prima di raggiungere la mente per poter essere comprese. Non scomparvero, però; silenziose, si misero in un angolo, aspettando il momento giusto per fare ancora una volta la loro entrata e, magari, essere finalmente ascoltate.
Nick non udì perché ogni sua energia era stata canalizzata nella rabbia, una furia che lo aveva reso cieco di fronte a qualsiasi altra obiezione. La reazione più istintiva a quella minaccia di essere abbandonato da colui che possedeva l’altra metà del suo cuore.
“Bri... io... ho bisogno di aiuto. Ho bisogno di te! Non lo capisci? Non posso farcela senza di te.”
Una risata amara si levò dalla gola di Brian, uscendo e sbattendo contro le pareti, risultando in un eco forte e rimbombante. “Anch’io ho bisogno di te, Nick. Baylee ha bisogno di te. Noi non contiamo più?”
“Sai che non è vero. Sai che siete il mio mondo.”
“E allora dimostrarlo, Nick. Io... io non posso più permettere che Baylee viva e cresca in questo modo.”
“Bri, ti scongiuro...”
“Mi spiace, Nick. Ma... non so più come aiutarti. Non so come aiutarti. E forse è questo il punto. Forse non sono io la persona adatta, forse sei tu l’unico che può aiutare se stesso.”
“Non posso. Non senza di te.”
Ma Brian non ebbe modo di rispondere, anche se non c’era più niente da dire. Il suo orgoglio, quel poco che gli era rimasto, gli impediva di cadere in ginocchio e implorare Nick di ritornare il ragazzo di cui si era innamorato. E, anche volendo, anche trovando qualche altra frase, Brian non poté continuare a parlare considerato ciò che arrivò dall’altro lato della cornetta: un concitato scambio di insulti e urla prima che la linea fosse definitivamente disconnessa.
Per qualche secondo Brian rimase avvolto nel silenzio, senza fare nemmeno un gesto o un passo. C’era qualcosa, dentro la sua anima, che urlava per poter essere presa in considerazione ma, stoicamente, Brian la ignorò. Perché sapeva che cosa sarebbe successo se avesse permesso a quella voce di essere presa in considerazione: sarebbe crollato e, ancora, non era il momento giusto per farlo. Forse non sarebbe mai arrivato quel momento; forse, come sempre, Brian avrebbe continuato a far girare il mondo sperando che la tempesta si potesse placare da sola.
La mente continuò a tenere ben salde le redini del controllo, impedendo al cuore e all’anima di aver voce sulle decisioni da prendere. Perché questi ultimi due avevano come soluzione solo una: prendere le chiavi della macchina e andare a recuperare Nick, sperando che quella volta le sue promesse fossero veritiere.
Ecco perché, invece, la logica lo stava spingendo a comportarsi in altro modo: spinse le sue dita a riprendere in mano il telefono e digitare un numero mentre indirizzava il corpo a salire le scale e tornare in camera. Con gesti meccanici, come se il corpo si fosse trasformato in pezzi di un robot, Brian incominciò ad aprire l’armadio e a recuperare pochi vestiti, lo stretto necessario proprio mentre la persona che aveva chiamato rispondeva al telefono.
“Pronto?” Bofonchiò Kevin, la voce ancora mezz’addormentata.
“Kev? Scusa per l’ora.”
Il tono di Brian svegliò completamente Kevin. “Che cosa è successo?”
“Nick. – Rispose Brian, appoggiando magliette e jeans sul letto. – Lo hanno arrestato di nuovo.”
“Ancora?”
Brian annuì, ricordandosi poi che Kevin non poteva vederlo. “Sì. Devo chiederti un favore.”
“Non c’è problema, Bri. Teniamo noi Baylee mentre vai a recuperarlo.” Disse Kevin, pensando che fosse quello il favore che il cugino voleva chiedergli. Come le altre mille volte che era successo, notte o giorno che fosse. Appoggiò, quindi, la mano sulla spalla di Kristin, che ancora aveva continuato a dormire nonostante lo squillo del telefono; la scosse lievemente, un sorriso dall’aria dolce nel vederla ancora così addormentata.
“No, non è per questo che ti chiamo.” I vestiti erano ormai stati messi in fila così Brian andò a recuperare dall’anta all’angolo il borsone.
“Che significa?” Domandò Kevin, la fronte aggrottata e la voce con una nota di confusione.
Le dita di Brian si strinsero attorno alla fibbia del borsone, stringendo e stringendo fin quando un lampo di bruciore e dolore arrivò al sistema nervoso. “Non... non ho bisogno che mi tieni Baylee. Non sto andando a riprenderlo.”
“Perché?”
Le palpebre si chiusero a protezione, impedendo a quelle lacrime coraggiose di poter scivolare via. “Non ha senso. Non... domani non cambierà niente. Uscirà, combinerà qualcos’altro e io dovrò comunque recuperarlo. – Un singhiozzo tentò la fuga ma i denti furono più veloci, premendo con forza contro il labbro e capaci così di rigettarlo indietro. – Non posso più. Non posso più continuare così. Non ne ho più la forza. E se io crollo, chi baderà a Bay? E’ solo un bambino e già sta subendo la tensione che c’è in casa. Devo proteggerlo.”
Quelle ultime due parole misero in allarme il maggiore, facendo crescere una paura che non aveva mai preso in considerazione perché conosceva Nick e sapeva che non sarebbe mai stato in grado di macchiarsi di quella colpa. Ma ora... ora, quelle parole ributtavano tutto in una mischia di colore nero. “Brian. Nick ti ha mai fatto del male?”
“No! – Fu la risposta istintiva di Brian, forte contro solo il disgusto per quell’implicazione. – Come ti può venir in mente una cosa del genere? Nick... Nick non ha mai e non alzerà mai un dito. Né su di me né su Baylee.”
“Scusa, scusa, okay? Mi hai fatto preoccupare con quel “devo proteggere”.”
“Anche senza violenza, non è l’atmosfera adatta per crescere un bambino. E... non posso occuparmi di entrambi. Fisicamente, mentalmente... è troppo. Qualcuno si deve occupare di Nick. Ma qualcuno deve anche pensare a Baylee. E se... e se devo decidere fra i due...” Brian non riuscì però a continuare, il solo pensiero di dover scegliere fra le due persone più importanti della sua vita era una spada di Damocle che penzolava minacciosa sopra la sua testa.
“Che hai intenzione di fare? Lasciarlo?”
“No! – Urlò Brian, sconvolto per quell’accusa. – No, no. Non voglio la separazione.” Ripetè con più determinazione.
“E allora non capisco.”
“Ho solo bisogno di tempo. Nick ha bisogno di tempo per capire che, se continua così, non... Non posso continuare a rimanere qui e vedere che si distrugge.” E lasciare che distrugga me e la nostra famiglia, aggiunge solo mentalmente.
“Dove andrai?”
“Non lo so. Con un bambino piccolo, le possibilità non sono molte. In un hotel. Magari poi dai miei. Non lo so. Non... non ci ho riflettuto ancora molto.”
Baylee ancora dormiva, ignaro della tempesta che si stava scatenando fuori dal suo piccolo mondo fatto di dolci e di sogni; Brian entrò in punta di piedi nella stanza, muovendosi con la conoscenza di chi sapeva a memoria dove ogni mobile si trovava e con la leggerezza di chi sapeva come girare attorno ad un bambino addormentato. Per lui, aveva preso davvero il minimo indispensabile ma per Baylee non lesinò su tutine e tutto il necessario.
“Bri, non dire cavolate. Vieni qui da noi, possiamo darti una mano con Bay. Almeno per la notte. Almeno fin quando non avrai recuperato qualche energia.”
Sembrava quasi che Kevin avesse letto nella sua mente e carpito quella richiesta che Brian aveva cercato per mesi di far arrivare alle orecchie di Nick e che, alla fine, si erano sempre rivelate essere parole perse nel vento.
“Non voglio...”
“Osa finire quella frase e ti prendo a calci, Brian Thomas.”
Era il primo sorriso che riusciva ad apparire sul volto di Brian quella sera. “Lo so che lo fai solo perché così puoi giocare all’eroe.”
“Anche.”
“Grazie. – Rispose Brian mentre finiva di chiudere il borsone. – Ma il favore che volevo chiederti non era questo. Puoi andare a riprendere Nick? Nonostante tutto, non riesco a lasciarlo là in quella cella.”
“E’ quello che si meriterebbe.”
“Kevin!”
“Che cosa? E’ la verità.”
“Lo so ma è pur sempre mio marito.”
Il borsone era chiuso. Lui era già vestito. Baylee dormiva così lo avrebbe solamente avvolto in una coperta invece che vestirlo. Tutto era pronto, doveva solo andare. Ma lasciare quella casa, lasciare la loro casa, sembrava un gesto fin troppo definitivo. C’erano ancora parole che poteva usare, gesti che avrebbero potuto ricordare a Nick che cosa stava scegliendo al loro posto.
E aveva ragione, oh, se Nick aveva ragione!
Lo stava abbandonando, come se quell’anello all’anulare non contasse più niente.
“Bri, mi stai ascoltando?”
No, non lo stava ascoltando. Nemmeno aveva sentito che Kevin aveva continuato a parlare né che significato potevano aver avuto le sue parole. Perché, mentre si guardava attorno per assicurarsi che non avesse dimenticato niente, lo sguardo e gli occhi si erano posati sul coniglietto di peluche che Nick aveva regalato a Baylee qualche mese dopo la sua nascita, la prima volta che aveva dovuto andare via qualche giorno per un mini tour. Brian si ricordava il momento in cui era rientrato e di come gli si erano illuminati gli occhi non appena aveva visto suo figlio; si ricordava, Brian, di come per le successive ore gli era stato quasi impossibile poter separare padre e figlio come se quei minuti potessero cancellare quei giorni di assenza. E ricordava, Brian, di come Baylee non si era staccato da quel peluche per giorni e giorni, portandolo ovunque loro andassero e mostrandolo a tutti, indicando poi Nick nel suo infantile modo di dire che era stato un regalo del suo papà.
Dove era finito quel Nick?
Dove si era nascosto il ragazzo premuroso e attento che lo aveva coccolato durante la gravidanza, che si era preso cura di lui e della loro vita quando lui non aveva potuto farlo perché costretto a letto?
Quelle due persone non potevano essere lo stesso Nick, erano lontane anni luce eppure condividevano la stessa fisionomia, lo stesso modo di essere e di fare. E, forse, il suo Nick era così ben nascosto da quella dura corazza che il suo compito, come marito, era quello di scavare e scavare fino a quando non l’avesse trovato e riportato alla luce.
Ma come poteva quando Nick non gli dava nemmeno la possibilità di dargli una mano?
“Credi... credi che stia facendo la cosa giusta?” Si ritrovò quindi Brian a domandare, la punta delle dita che accarezzavano le orecchie del coniglietto.
“Bri, che cosa ti dice il tuo istinto?”
“E’ un casino, in questo momento. – Rispose Brian con un’amara risata. – Se dovessi seguire il mio cuore, sarei già alla stazione di polizia e lo starei perdonando di nuovo. Ma, invece, la mente sta decidendo per tutto il resto. Ed ecco perché mi ritrovo con un borsone preparato e...”
“Nessuno ti giudicherà, Brian. Prenditi qualche ora di respiro e poi decidi che cosa fare.”
Per una volta, però, Brian avrebbe voluto che qualcuno decidesse per lui, qualcuno che gli dicesse che cosa doveva e dove doveva andare.
Forse, Kevin e la sua mente avevano ragione. Aveva bisogno di staccare, aveva bisogno di respiro da quell’aria per non finire con l’odiare l’uomo in cui Nick si era trasformato, aveva bisogno di riprendere fra le dita la speranza che Nick, quel Nick di cui si era innamorato, potesse tornare finalmente da loro.
Da lui.
Forse era quello il miglior modo per aiutarlo. Mettergli davanti agli occhi la reale conseguenza delle sue azioni, fargli assaggiare quell’amaro boccone di una vita senza di loro, senza lui e Baylee, prima che questo diventasse la sua nuova realtà.
Salutò Kevin, promettendogli che sarebbe arrivato fra poco. Con l’abilità che solo un genitore riusciva ad apprendere in poco tempo, Brian avvolse Baylee in una coperta e lo prese in braccio, facendogli appoggiare la testa contro la sua spalla; con l’altra mano prese il borsone e lo issò sull’altra spalla, in modo da avere le dita libere per recuperare le chiavi della macchina e di casa.
Chiudersi la porta dietro di sé sembrava sancire qualcosa di definitivo. Ma Brian si giustificò dicendo che non stava scappando né stava fuggendo per iniziare qualcosa di nuovo: niente di tutto quello, si prendeva solo un attimo di riposo in quel limbo di protezione che Kevin gli stava offrendo.
Si guardò indietro solo una volta, dopo essersi assicurato di aver stretto le cinture del passeggino di Baylee.
Si guardò indietro, mormorando in una preghiera la speranza di poterci tornare presto e riprendere quella vita che ora sembrava solamente un film sbiadito in bianco e nero.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Io e l'angst, specie il Briangst, ci siamo sposati tanto tempo fa. XD
Teoricamente, questa storia dovrebbe avere solamente tre capitoli. Ma non metto nulla di definitivo. Si consiglia, però, di leggere "For Once In My Life" visto che questa storia è strettamente legata a quella. ^__^

   
 
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