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Autore: miss potter    10/06/2013    1 recensioni
Vale la pena di lottare solo per le cose senza le quali non vale la pena di vivere.
Ernesto Che Guevara
Genere: Guerra, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: OOC | Avvertimenti: Contenuti forti
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«Ah, dottore!» esclama l’idiota in divisa in un angolo dello stanzone, alzandosi repentinamente da una sedia di ferro. «Bella giornata, non trova?»

Se potessi provare qualsiasi sentimento diverso dall’odio, in questo momento, mi prenderei a schiaffi da solo invece di ripercorrere mentalmente le mie conoscenze sui metodi di tortura medievali da scaricare su questa specie di furetto antropomorfo, invece di sforzarmi a reprimere l’ennesimo conato di vomito.

Perché non è concepibile per un essere umano assistere a certe cose, sentire certe cose, essere costretti a sopportare certe cose, e persone, arrivando a farne addirittura un mestiere, testimone impotente ed omicida al tempo stesso, collega del Demonio in persona.

Inebriante dicevano che sarebbe stato, e un po’ lo è se non fosse per questo retrogusto amaro di coscienza che muore.

La Madre non mente. Lei ama, a suo modo, ma ama come nessun’altro ha il diritto di fare.

Che poi al sangue ti ci abitui, prima o dopo, come pure alle atroci urla di dolore mentre scemano in fretta insieme ai pianti inconsolabili confondendosi perfettamente con la infinita babele di altri suoni indefiniti rimbombanti nella testa, passeggeri come leggere piume di rapace cullate dalla brezza, caduchi nella stessa violenza ed indifferenza dei proiettili sparati a bruciapelo mentre gli amici cadono e pensi di non poter essere più solo di così.

Vorrei non aver perso la capacità di importarmene così tanto, io.

Cos’è coscienza?

Vorrei non aver perso così tanto, io.

«Compagno Andersov, finché sto a questo mondo per te sono ancora capitano, se non ti dispiace» ringhio basso mentre maledico la sua bella giornata e il suo naso terribilmente adunco, la sua pelle cinerina e porosa e quel suo paio d’occhietti color fango che userei volentieri come portaspilli.

Forse un giorno mi deciderò a non importamene davvero e di farmi semplicemente i fatti miei. E poi cosa dovrei farmene di un idiota come portaspilli?

Grugnisce e punta il suo sguardo da suino sulle tre ombre a forma di uomini sedute su tre seggiole sgangherate al centro di questo magazzino spoglio e fiocamente illuminato che odora di sangue rappreso e alcol, mentre intreccio le dita dietro la schiena e il compagno Grigoriy passa il tempo mangiandosi l’unghia di un pollice, sputandola poi a terra.

Non ci abitua mai, in realtà, al fetore di tutta questa umanità che incarognisce.

Sono due uomini sui quaranta, quelli che sto osservando, forse uno un po’ più anziano perché ha già i capelli grigi, radi sulle tempie e fin troppe rughe intorno agli occhi ridotti a due tagli in mezzo alla faccia consumata, i tratti irriconoscibili, imbrattati di sofferenza e lividi, lividi ovunque, i polsi stretti nella morsa di un filo di ferro arrugginito dietro lo schienale delle sedie, i vestiti leggeri e logori su ginocchi e gomiti, violacei dalla troppo lunga esposizione alle intemperie.

Il loro silenzio mi uccide.

E poi… e poi c’è un ragazzo. Non è legato come gli altri, le mani le tiene dentro le maniche troppo lunghe del maglione di lana troppo largo, ma è altrettanto immobile, così immobile e pallido che se non fosse per il quasi impercettibile alzarsi e abbassarsi del torace lo lascerei direttamente ai corvi. O al resto dei deportati, che sono un po’ la stessa cosa a parte le piume e la possibilità di volare via di qui.

Chiudi gli occhi, Jan, e respira.

«Perché lui non è legato?» chiedo indicandolo con un rapido scatto del mento, e gli occhi mi bruciano.

Chiudili, maledizione.

«Chi? Questo pulcino?» sghignazza Andersov afferrandolo per i capelli e tirandogli la testa indietro bruscamente. «L’abbiamo pescato nella steppa ieri pomeriggio, munito di una sola valigia contenente una camicia e un sacco di scartoffie… e una custodia di cuoio per violino.»

Il ragazzo dalla carnagione lattescente e i capelli d’ebano ha la pelle sporca di fango ed incrostata di sangue vecchio, e una ciocca gli ricade umida e piatta sugli occhi gonfi, chiusi, contratti dal dolore per la posizione scomoda del collo e sicuramente per qualcos’altro che non ha la forza di dire.

«Un violino.»

È così magro che non ho alcuna difficoltà a distinguere le striature blu scuro delle vene sulla gola ed ogni singolo osso e cartilagine che la maglia lascia scoperti in uno zibaldone di dettagli tanto insignificanti quanto splendenti che, nonostante la sporcizia e le estese ecchimosi, riesco a notare subitamente come se ne avessi una precisa mappa in testa, dalla nascita: dalla curva elegante del collo sottile, al neo solitario nella zona della giugulare, dalla linea aristocratica della mandibola a quella più dura degli zigomi, scavati dalla fame. E poi le labbra, tagliate in più punti e morbidamente socchiuse in un respiro leggerissimo, impalpabile come questo mio inspiegabile trasporto verso un qualcosa che ho il timore di non esser degno neppure di guardare.

Non deve avere più di diciassette anni, la creatura, ma sotto le palpebre e sulle larghe spalle scarne sembra portare tutti i millenni di questo nostro mondo anziano e perverso la cui bellezza, poca ma pur esistente, pare coagularsi tutta in essa, ed in lei guastarsi come capita a un delicato fiore, nato nell’asfalto e morto calpestato.

Come si fa ad abituarsi? Come possono chiedercelo?

«Capitano. Capitano?» chiama Grigoriy alle mie spalle.

Sospiro e scuoto il capo. Incanto?

«Hm?»

«Abbiamo requisito le sue cose ma non sappiamo nulla di lui. Nome, provenienza, età… Sembra che l’abbia vomitato la steppa. Sbucato fuori dal nulla.»

«Vuoi dirmi che non ha alcun documento appresso?»

«Nessuno. Sappiamo solo che deve interessarsi di musica e chimica. Nella sua valigia, oltre al violino e ad un indumento, abbiamo rinvenuto un paio di spartiti scritti a mano e un quaderno di formule e di resoconti di esperimenti.»

«E pare che sia muto, per giunta» interviene Andersov lasciandogli andare la testa che ricade pesantemente in avanti.

Per un attimo credo che stia quasi per svenire.

«Ragazzo,» lo chiamo «ragazzo!»

A nulla sembra servire alzare la voce, perché quest’individuo ha gli occhi chiusi, il respiro corto e par che dorma. O che stia prendendo un tè con la Morte.

«Rispondi al capitano, pezzo di imbecille!» urla il più imbecille di tutti quanti noi messi assieme, mentre gli assesta un manrovescio e poi un altro, e un altro ancora finché dentro di me qualcosa si spezza e mi fa protendere una mano verso la sua, impiastricciata di sangue, fermandola a mezz’aria.

«Credo possa bastare, compagno» e questa voce qui, lo so, non è la mia. Non più.

Il detenuto barcolla per qualche secondo prima di accasciarsi su un lato e, in un gemito basso, stramazzare al suolo, mentre da quelle labbra infantili cola un rivolo scuro e denso che gli screzia una guancia e macchia il cemento.

«Stupido asino, non sarebbe capitato nulla di tutto questo se l’avessi legato!» ringhia Grigoriy al sottoposto mentre gli altri due uomini sulle sedie sussultano e singhiozzano.

Poi, s’inginocchia vicino al ragazzo e comincia a dargli dei leggeri schiaffetti sul viso mentre dentro di me urlo ed insieme rido perché, insomma, è comica la cosa.

«Ragazzo, ragazzo mi senti?»

«Non voleva parlare!»

«E questo cosa c’entra?» chiedo e sento il gelo pervadermi le membra.

«Non voleva sciogliere la lingua, il cucciolo bastardo! Io…»

«Jan…»

Mi volto verso Grigoriy e spero nel peggio. Ma questi si limita solo a sollevare le maniche del ragazzo e a mostrarmi le sue mani: le dita sono completamente storte, graffiate e livide, i polsi segnati e innumerevoli bruciature di sigaretta deturpano la pelle dei dorsi.

«Andersov, sparisci» riesco solo a dire quando in verità dovrei complimentarmi con lui per aver cercato di far confessare un sospettato.

La Madre sarebbe fiera, Jan. Che diavolo ti succede?

E ancora, questa qui, non è la mia voce, perché l’imbecille esce e si sbatte dietro la porta bestemmiando mentre mi chino su un ginocchio e raccolgo questo fiore schiacciato, prendendolo tra le braccia.

«Grig, assicurati che gli altri due abbiano mangiato e portali al cantiere. A lui ci penso io.»

«Ha speranza?»

Mi avvio verso l’uscita e non lo guardo nemmeno mentre spalanco la porta con un calcio e mi chiedo da dove venga tutta questa mia forza se non ho neanche mangiato.

A uno disabituato ad importarsene gli importa solo di una cosa alla volta.

«Nessuno di noi ne ha.» 


  
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