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Autore: Fink    12/06/2013    3 recensioni
Un Judgement Day un po' diverso, con un finale alternativo... molto probabilmente ci sarà meno "Action" e molto piú romanticismo e non solo...
Fa parte della serie "Maybe a second life", nella quale questa long sarà la giusta premessa a "Conosci te stesso"...
Ok...spero via piaccia e buona lettura.
Genere: Azione, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Jennifer Shepard, Leroy Jethro Gibbs, Un po' tutti, Ziva David
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Maybe in another life'
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Disclaimer: i personaggi sono di proprietà di D.P: Bellisario e D. McGill che ne detengono tutti i diritti.


Sono in ritardo, lo so, vi chiedo perdono e spero che il capitolo valga l'attesa. Buona lettura


CAPITOLO QUARTO


Los Angeles

“Le persone cambiano. Davvero gli hai risposto così?” il giovane agente si passò una mano tra i capelli, ravvivandoli.
“Non pensi sia il caso di tagliarli?” chiese l’altro sedendosi più comodamente sulla panchina e accavallando le gambe.
“Non posso…fa parte della copertura.”
“Ti spacci per un barbone? Alzò dubbioso un sopracciglio prima di continuare “Perché la Macy?
“Cosa vuoi dire?”
“Avanti Callen, sai bene a cosa mi riferisco. Avevo chiesto a te il fascicolo su Deker.”
“Stavo lavorando…A dire il vero anche questo incontro è rischioso per la mia copertura.”
“Perché non hai chiesto a qualcun altro?” Chiese Gibbs, fissando il suo interlocutore. Callen fece vagare lo sguardo in direzione della distesa d’acqua di fronte a loro. Il mare era calmo e il sole vi si rifletteva con migliaia di scintillii argentei.
Era ancora molto presto e la spiaggia di sabbia bianca era calpestata solo dai pochi volenterosi che si alzavano all’alba a fare jogging. Un cane ciondolava accanto al proprio padrone, scodinzolando e rivolgendogli un guaiti soddisfatti.
“Si è offerta lei di portarti il fascicolo su Deker… Jethro, non credi sia venuto il momento di seppellire l’ascia?” chiese il giovane ma l’altro non rispose, dando a Callen la possibilità di proseguire “Vuoi saperne di più sull’agente Macy? Allora leggi il fascicolo che ti ho portato.” Fece accennando con il capo al plico sulle ginocchia del collega.
Gibbs fissò il nome in grassetto, scritto a mano sulla cartellina gialla.
Quella donna gli aveva quasi rovinato la vita diciasette anni prima. Aveva appena perso la sua famiglia e lei non faceva che interrogarlo, accusarlo e metterlo alle strette, senza nemmeno dargli modo di piangere la sua perdita. Tutto per scoprire qualcosa sulla morte di un trafficante messicano di nome Pedro Hernandèz.
Lo stesso uomo responsabile della morte di Shannon e di Kelly.
Lo stesso Pedro Hernandèz che lui aveva rincorso in Messico.
Lo stesso trafficante che lui stesso aveva ucciso con un unico, preciso colpo, mentre guidava verso casa, seduto in un pic-up azzurro.
Di questo lo stava accusando. Di omicidio.
Ebbene, avrebbe pagato. Avrebbe scontato il resto della sua vita in un sudicio e freddo carcere. Non gli importava.
Aveva vendicato la sua famiglia. Era soddisfatto.
Ma chiedeva una sola cosa ancora, piangere.
Piangere per gli occhi di Shannon, che non avrebbe mai più rivisto.
Piangere per la risata di Kelly, soddisfatta per aver pescato un pesce. Un suono che non avrebbe mai più sentito.
Voleva solo salutarle un’ultima volta, ma l’allora sergente Lara Messi non sembrava dello stesso avviso e aveva continuato imperterrita nell’interrogatorio, strappandogli le poche ore di sonno inquieto che aveva.
Poi, come per miracolo, la faccenda era stata archiviata, le accuse erano cadute e lui era libero.
Libero di continuare a vivere prigioniero nel proprio dolore.
“Jethro.” La voce di Callen lo riscosse. “se sei ancora così sospettoso, perché l’hai quasi difesa con Franks?”
Era uno dei pochi agenti ai quali consentiva di rivolgersi a lui in un modo tanto confidenziale. Forse per l’amicizia che li legava, o perché, in qualche modo, Callen capiva il suo dolore.
“Non è la donna che ti ricordi. Come hai detto le persona cambiano e lei sa di aver commesso un errore… a modo suo ha cercato di rimediare. Perché credi che siano improvvisamente cadute le accuse nei tuoi confronti…”
Gibbs lo guardò interrogativo, senza dire nulla.
“Portarti il fascicolo di Deker è stato un modo per farti capire che è dalla tua parte” proseguì il giovane.
Jethro soppesò le parole del agente per qualche istante, cercando il modo di rispondere, ma venne interrotto dal trillo del cellulare.
“Sì, Gibbs.” rispose senza indugio, dopo essersi portato l’apparecchio all’orecchio.
Signor Gibbs. Sono il dott. Larson. La volevo informare che la signora Shepard verrà dimessa oggi pomeriggio. Dato che lei è l’unico conoscente nelle vicinanze… potrebbe venire in ospedale, avrei alcune comunicazioni da darle… sul periodo di riposo della paziente.”
“Arrivo subito. La ringrazio.” Riagganciò e infilò il cellulare nella custodia che teneva legata alla cintura, poi si voltò verso Callen.
“Era l’ospedale… il direttore sarà dimesso oggi pomeriggio.”
“Mi fa piacere. Finalmente una buona notizia.”
Gibbs storse il naso.
“Non ne sembri felice.” Chiese sorpreso.
“Non sarà facile convincerla a restare in convalescenza fuori dall’ospedale.”
“Mi ricorda qualcuno.” Scherzò lui.
“Beh, Callen è stato un piacere rivederti.” Disse alzandosi in piedi.
“Anche per me. Stammi bene.” Lo abbracciò, dandogli una pacca sulla spalla.
“Sì, anche tu.”
“E salutami il direttore e anche Franks, a proposito dov’è?”
Gibbs sciolse l’abbraccio “Mike è tornato a Washington, doveva sbrigare alcune faccende” rispose e dopo un ultimo saluto si avviò verso il parcheggio.
Callen lo seguì con gli occhi finchè non salì in auto, poi distrattamente lo posò sulla panchina accanto a lui.
La cartellina gialla era lì, abbandonata sulle assi di legno.
Un sorriso si formò sulle labbra dell’agente.



∂∂∂

Svetlana Chernitskaya, ora nota come Natasha Lenkov, era pigramente seduta sul morbido letto nella sua stanza d’albergo. Aveva i capelli biondi ancora avvolti in un asciugamano umido e sfogliava distrattamente una rivista.
Sbuffò sonoramente. Aveva caldo, troppo caldo.
Nonostante fosse uscita da poco dall’ennesima doccia, l’abito di stoffa leggera le si era incollato al corpo e delle piccole goccioline di sudore le imperlavano la fronte.
Chiuse la rivista e la fece ondeggiare davanti al viso, sperando in un poco di refrigerio.
Detestava quel clima afoso. Era la metà di marzo e già boccheggiava alla ricerca d’aria ogniqualvolta si ritrovava a camminare lungo le affollate vie di Los Angeles.
Rimpiangeva l’aria fredda che le accarezzava la pelle mentre, seduta in qualche caffetteria, osservava il lago di Ilmes, bevendo una tazza fumante di tea.
Lei e il suo compagno avevano acquistato un appartamento a Novgorod, una città a metà strada tra Sanpietroburgo e Mosca. Non era molto grande o lussuoso, non che non avessero abbastanza soldi per permettersela, la loro professione di killer rendeva bene, ma avevano preferito mettere da parte il denaro per quando si fossero ritirati.
Magari con il tempo avrebbero acquistato una bella casa in riva al lago, avrebbero messo su famiglia, dei figli; Alatoly li avrebbe portati a pesca. Lui adorava pescare.
Ma tutti i suoi sogni erano svaniti nove anni prima, proprio quando avevano deciso di smettere. Quando si erano detti che quella sarebbe stata la loro ultima missione. Un ultimo lavoro e poi sarebbero usciti di scena.
Un vicolo buio di Parigi e tre proiettili, sparati a distanza ravvicinata, le avevano portato via l’uomo che amava.
Strinse i pugni al pensiero del corpo senza vita di Zukov e le pagine della rivista, che ancora stringeva in mano, si accartocciarono in seguito alla pressione.
Non aveva neppure potuto dirgli addio, perché quando il corpo era stato trovato, lei era in fuga verso Mosca con una ferita, medicata frettolosamente.
Chiuse gli occhi e appoggiò la testa allo schienale del letto, ripensando a quel lontano giorno. Alatoly non era stato l’unico ad essere stato ucciso quella notte; l’altro complice, un russo con cui dovevano portare a termine il lavoro, era stato anche lui freddato con tre colpi a bruciapelo, in un vicolo alla periferia di Parigi.
Qualcuno, una donna, era venuto anche nel suo appartamento con lo scopo di ucciderla, ma aveva fallito; qualcosa non era andato secondo i piani.
La donna aveva esitato, dandole il tempo di scattare verso l’arma che aveva accanto e solo allora la rossa, con mano tremante, aveva premuto il grilletto e un proiettile l’aveva colpita di striscio alla fronte. Lei era caduta cozzando sul tavolino ed era finita a terra, priva di sensi.
Dopo un tempo che le era parso infinito, si era svegliata, con un forte dolore alla spalla e il volto coperto di sangue rappreso. Era viva, miracolosamente. Si era lavata il viso e aveva controllato la ferita alla testa. Fortunatamente era solo un graffio, ma non poteva dire altrettanto della spalla sinistra. Il braccio ciondolava, come inerte, lungo il corpo, fortunatamente si era solo lussato.
Era tornata in camera, aveva preso lo stretto indispensabile ed era uscita, consapevole che di lì a breve qualcuno sarebbe tornato. Poi era sparita e in qualche modo era riuscita a fare ritorno in Russia.
Per nove anni aveva covato il suo odio, giurando di vendicarsi di coloro che le avevo portato via la sua vita.
La rabbia le montò dentro con un’ondata improvvisa. Scagliò sul letto la rivista che si aprì sulla pagina della pubblicità di un raduno d’auto d’epoca.
Li avrebbe vendicati. Tutti e due.
Dopo anni era riuscita a scovare un certo Deker, un ex agente del NCIS, che dopo la pensione si era ritirato a Los Angeles con la sua compagna. Aveva assodato dei killer, ma purtroppo Deker non le era stato di molto aiuto, non aveva detto molto, limitandosi ad un nome, un certo signor Oshimaida. E con queste poche informazioni si erano recati a funerale, sperando di ottenere qualcosa. Nulla. stava perdendo le speranze, quando, finalmente, poco prima di venire uccisa, la compagna di Deker aveva nominato una tavola calda nel deserto, di un uomo e di una donna dai capelli rossi che le avevano fatto visita poco dopo il funerale.
Era lei, doveva essere lei; la stessa donna che anni prima l’aveva quasi uccisa.
Povera sciocca, sarebbe stato meglio per lei constatarne la morte e portare a termine il lavoro.
Questo inconveniente nel deserto, non aveva fatto altro che acuire il suo odio e la sua determinazione di trovarla e fargliela pagare.
Stava solo ritardando l’inevitabile e, questa volta, avrebbe agito personalmente, sarebbe stata lei a premere il grilletto.
Il telefono sul comodino iniziò a trillare riportandola alla realtà.
Signora Lenkov?” chiese la voce di una donna all’altro capo del filo.
“Sì, sono io.”
“Sono Caroline Phelps della reception. Signora, c’è un signore che ha chiesto di lei.”
“Ha lasciato il suo nome?”
“Sì…signor Patterson. Johnatan Patterson. Mi ha chiesto di dirle che la aspetta al bar dell’hotel.”
“La ringrazio” rispose Natasha “gli dica che scenderò tra quindici minuti.
Riagganciò e finì di prepararsi, prima di scendere raggiungere il bar.
∂∂∂



Washington D.C. – Aeroporto Nazionale Ronald Regan

L’aereo atterrò rullando sulla pista, illuminata a giorno da una centinaio di luci bianche.
Due uomini e una donna, in piedi dietro alle grandi vetrate dell’aeroporto, stavano osservando con attenzione la fase di atterraggio e i passeggeri che si avviavano verso le uscite.
“Sono in perfetto orario” constatò McGee guardando l’orologio.
“Cosa ti aspettavi Pivello. Con il capo a bordo, non potevano che arrivare in orario. Scommetto che avrà lanciato ai piloti una delle sue solite occhiate per farli arrivare in orario, facendoli anche rabbrividire.”
“Sssh Tony. Non gridare, potrebbe sentirti.” Lo redarguì Ziva, in piedi accanto a lui.
“Di cosa hai paura, non ha mica l’udito di Superman”
“Ne sei così sicuro DiNozzo?” lo raggiunse una voce alle sue spalle.
Tony notò le facce dei suoi colleghi e si voltò di scatto solo per trovarsi davanti lo sguardo intimidatorio di Gibbs.
“Salve capo.” Lo salutò con un sorriso stampato sul volto, prima di rivolgersi alla donna accanto a lui. Jen era seduta su una sedia a rotelle, i medici le avevano consigliato non muoversi troppo, per evitare di far saltare i punti di sutura. “Direttore. È bello rivederla.” La voce un poco incrinata e lo sguardo basso, vederla su quella sedia per colpa sua non lo aiutava a liberarsi dei sensi di colpa.
Jen parve intuirlo, ormai conosceva la squadra di Gibbs molto bene e Tony in particolar modo, durante il periodo di tempo in cui ne era diventato il capo, avevano instaurato un buon rapporto di amicizia e collaborazione.
“Grazie… ma… posso chiedervi che cosa ci fate tutti e tre qui?”
“Eseguiamo gli ordini.” Rispose Ziva.
McGee fece un passo avanti “Abby si scusa per non essere venuta a salutarla, ma ha detto che passerà domani.”
“Vi ha mandati il direttore Vance?” chiese Jen, senza dare molto peso alle parole dell’agente.
“No… a dire il vero è stato...il capo.”
Lei alzò un sopracciglio interrogativa e osservò l’uomo che aveva accanto.
“Posso sapere il perché di questa scorta? Perché è di questo che si tratta, non è così, agente Gibbs?”
Jethro non rispose, si limitò ad ordinare a Ziva e McGee di ritirare i pochi bagagli, che da diversi minuti stavano ormai girando solitari sul nastro trasportatore, e spinse la carrozzina verso l’uscita.
“Non ho bisogno della scorta.”
“DiNozzo. McGee. Voi farete il primo turno domani mattina, dalle 7.00 alle 19.00.”
“Va bene capo.” Risposero i due all’unisono.
“Gibbs, ti ho appena detto che non voglio una scorta.” Ribattè Jen
“Ziva, tu ed io copriamo il secondo turno dalle 19.00 alle 7.00” continuò l’agente senza dare ascolto alle parole del direttore.
“Certo capo.”
“Per stasera andate pure a dormire.”
“Fermi voi tre!...Agente Gibbs!” Jen alzò il tono, ma senza alcun risultato.
I tre lo guardarono esitanti.
“Su, andate. Non ammetto ritardi per domani mattina.” ribadì il capo.
Gli agenti si soffermarono ancora un istante, poi salutarono sia Gibbs sia il direttore e si allontanarono verso le auto, mentre Jethro si apprestava a fermare un taxi.
“Jethro ti ho appena detto che…ma mi stai ascoltando?”
“No.” Rispose secco “riesci ad alzarti da sola e salire sul taxi? O preferisci che ti prenda in braccio?”
Per tutta risposta, lei si alzò in piedi e con cautela, pian piano, si accomodò sul sedile posteriore del taxi. La tentazione di dire all’autista di partire senza aspettare Gibbs era forte, ma sapeva che non sarebbe servita a molto, lui sapeva dove abitava e l’avrebbe raggiunta in pochi minuti, perciò attese che salisse, prima di comunicare all’autista l’indirizzo di destinazione.
La vettura procedette per una mezz’oretta tra il traffico di Washington e per tutto il tempo, i due passeggeri non si scambiarono nemmeno una parola, Jen sembrava furente, mentre Gibbs, al contrario, appariva del tutto indifferente davanti al suo comportamento.
Quindi il taxi si fermò e dopo aver pagato e preso i pochi bagagli, i due entrarono. La casa era buia e molto silenziosa, Jethro si stupì che la domestica non fosse venuta ad accogliere la padrona di casa, ed espresse il suo disappunto.
“Avevo dato a Noemi due settimane di permesso.” Rispose lei.
“Beh, certo, nelle tue condizioni mi sembra proprio la decisione più saggia.”
“Beh, non pensavo certo di ritrovarmi in queste condizioni e comunque posso cavarmela anche senza Noemi per un paio di settimane.”
Gibbs si fermò all’ingresso e appoggiò a terra la valigia di Jen, prima di prendere la carrozzina piegata e portarla all’interno.
“Certo. Come te la sei cavata a Los Angeles? Perché non hai chiesto il mio aiuto, Jen?”
“La cosa non ti riguarda.”
“Invece credo proprio che mi riguardi, visto che si tratta di Parigi e di Svetlana.”
Jen lo guardò sorpresa. Lo sapeva. Certo che lo sapeva. Cosa si aspettava? Che lui se ne restasse buono buono in un angolo. Ormai doveva conoscerlo.
“Oh, non fare quella faccia sorpresa Jen. Pensavi che sarei rimasto a guardare mentre Vance prendeva il tuo posto e uno dei miei agenti si tormentava per i sensi di colpa, rischiando di perdere il posto.”
“Forse è per questo che ho chiesto aiuto a Franks e non a te, lui non è più un agente, non rischia più la carriera. E ora, agente Gibbs, se non le dispiace, può anche lasciarmi sola. La ringrazio per avermi accompagnata, ma può andare.”
Gibbs le rivolse un sorriso beffardo “non credo visto che farò il primo turno di sorveglianza.” poi prese la valigia “questa dove te la porto?” chiese.
Jen lo guardò esasperata e gli fece un cenno verso le scale, sarebbe stata una lunga nottata.






∂∂∂
Los Angeles

Il bar dell’hotel era poco affollato a quell’ora e la donna individuò subito la persona che cercava. Patterson era seduto al bancone a sorseggiare una birra scura e le dava le spalle, ma la sua corporatura massiccia e i lunghi capelli corvini, legati in una coda di cavallo, erano inconfondibili. Gli si avvicinò e ordinò un margarita al cameriere.
“Signora Lenkov, che piacere vederla” la salutò prendendole la mano per posarvi un delicato bacio, in un gesto molto galante.
“Un vero piacere, signor Patterson. Che cosa la porta da queste parti?”
“Sono qui per affari e…”
Il cameriere le servì il margarita e Patterson si interruppe per un attimo.
“Perché non ci sediamo… lasci, offro io.” Le disse vedendo che metteva mano al portafogli per pagare il drink.
Presero le rispettive bevande e si accomodarono ad uno dei tavolini più isolati.
“Allora signor Patterson, quali novità mi porta?”
“Buone notizie, sono riuscito a trovare la donna che sta cercando. Sfruttando le giuste conoscenze, sono risalito al nome, si chiama Jennifer Shepard, ed è l’attuale direttore del NCIS.”
“La cosa non mi stupisce affatto.” Rispose lei. Anche Deker era un agente del NCIS, probabilmente era stata quell’agenzia federale a dar loro la caccia. Non si sarebbe stupita nell’apprendere che anche il terzo uomo era un agente federale.
“Molto bene, dove si trova?”
“Era stata ricoverata al California Hospital Medica Center.”
“Era?”
“Sì, l’hanno dimessa oggi.”
Il volto della donna si rabbuiò e la rabbia cominciò a salirle di nuovo, possibile che riuscisse sempre a sfuggirle.
“E queste le sembrano buone notizie?”
“No, ma… mi lasci finire. Quando ho chiesto della donna in ospedale e mi hanno detto che era stata dimessa, ho contattato alcuni informatori. Shepard vive a Washington, nella casa paterna, in un quartiere residenziale.”
Natasha lo guardò con rinnovato interesse.
“Questo è il suo indirizzo.” Disse lui facendo scivolare un foglietto verso la sua mano.
“Bene, molto bene.” La donna lesse il nome della via e sollevò gli occhi verso il proprio interlocutore “Le devo chiedere ancora un favore signor Patterson. Ma non si preoccupi, verrà ben ricompensato.”
“Oh, di questo ne sono certo. Che cosa posso fare per lei.”
“Ho bisogno che mi metta in contatto con alcuni uomini a Washington.”
“Lo consideri già fatto, signora. Le darò mie notizie tra un paio di giorni. Ora, se mi vuole scusare, ho del lavoro da fare.” Si inchinò verso di lei e la salutò con galanteria prima di abbandonare la sala.
Natasha lo guardò avviarsi all’uscita prima di fare un cenno al cameriere e ordinare un secondo drink, forse le cose stavano andando per il verso giusto, questa volta.
   
 
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